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sabato 18 settembre 2021

Intervista di Renzo Montagnoli a Ferdinando Camon, autore del libro Conversazione con Primo Levi, edito da Guanda

 



Conversazione con Primo Levi

di Ferdinando Camon

Guanda Editore

Saggistica

Pagg. 75

ISBN 9788882469290

Prezzo € 10,00

 

 

Il dilemma di Primo Levi

 

  

Due scrittori, assai noti (Primo Levi aveva già scritto e pubblicato Se questo è un uomo e La tregua, Ferdinando Camon, benché più giovane, era già conosciuto per Il Quinto StatoLa vita eternaOccidente e Un altare per la madre), si incontrarono nei primi anni '80, per la precisione il primo contatto diretto avvenne nel 1982 a Torino, città in cui Primo Levi era nato e risiedeva; ce ne furono successivamente degli altri, tanto che l'ultimo fu nel 1986.

Quella che doveva essere un'intervista di Camon a Levi divenne una vera e propria conversazione, che pur obbedendo a una scaletta di domande predisposte dal primo e concordate con il secondo, si rivelò uno scambio di opinioni di grandissimo interesse. Deve essere dato atto a Ferdinando Camon di aver ben interpretato i desideri dei lettori, più che mai curiosi di conoscere qualche cosa di più di questo grande autore, testimone e vittima della Shoa, per sua natura persona assai umile e che ha sempre cercato di parlare attraverso le sue opere.

Ma cosa spinse Camon a contattare Levi per intervistarlo? Questa è la prima domanda che ho rivolto allo scrittore padovano che mi ha risposto, come sua consuetudine, in modo esauriente e senza reticenze. Mi ha detto che era stato spinto da un complesso di colpa, in quanto figlio di quella civiltà dell'Europa occidentale che nel tempo ha preso di mira gli ebrei, con un lavorio di esclusione durato diversi secoli e giunto al suo culmine con la follia nazista volta al loro sterminio.

Beninteso questo senso di colpa è una radice che uno si porta appresso per atti compiuti, magari molto tempo prima che nascesse, dal mondo di cui fa parte, da una civiltà che si crede esemplare e che invece nasconde in un'atavica avversione  per gli ebrei, un nocciolo di inciviltà ancor oggi difficilmente scalzabile, atteso un serpeggiante dilagare dell'ostracismo per tutti quelli che non ne sono membri.

Come dice Camon, per lui andare da Levi era come andare a Canossa, e forse ha avvertito tanto di più questo senso di colpa in quanto cristiano e anche cattolico, proprio per la constatazione che il far parte di un credo religioso porta inconsciamente a vedere gli altri, cioè quelli di fede diversa, come degli estranei.

E' stato però fortunato, perché Levi sì era ebreo, ma non praticante, anzi non credente, per quanto in lui ci fosse una continua ricerca che andava oltre l'umana comprensione dell'Olocausto, ma anche di una relazione fra questo e un eventuale Entità superiore. Quando a conclusione della conversazione Levi dice “C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio,” aggiunge poi a matita sui foglio sui quali la stessa è trascritta “Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo” è evidente che l'uomo era impegnato in un logorante, ma anche angosciante tentativo di dare una risposta logica, razionale, che andasse oltre l'atto di fede, in pratica una certezza che per lui e per noi è del tutto impossibile.

Questa conversazione, in cui si misurano due intellettuali di diversa matrice religiosa, è stata ben orientata in nove temi, svolti con scambio di opinioni, non sempre coincidenti, e che inducono il lettore a riflettere, magari esponendo un pensiero anche dissimile, tanto che più di una volta, e questo è accaduto a me, nasce proprio la voglia di potersi inserire nel colloquio che non risulta di un asettico accademismo.

Il diavolo nella storia, La colpa di essere nati, Cos'era il lager, La Germania allora e ora, Perché scrivere, Lager nazista e lager comunista, La nascita di Israele, Le opere, L'uomo e la chimica, sono questi gli argomenti su cui si  è svolta la conversazione e, se pur non si è arrivati a conclusioni di verità assolute, lo scambio di pareri, le osservazioni puntuali e razionali a cui è sempre stata improntata costituiscono un contributo importante che, senza arrivare a conclusioni certe e definitive, pur tuttavia rappresentano un arricchimento di cui tutti possono beneficiare.

In fondo ci troviamo di fronte a due persone che non desiderano imporre le loro idee, ma che vogliono solo capire, e questo è l'altro aspetto di pregio di questo libro, perché alla fine non ci sono né vinti, né vincitori, ma si resta consapevoli che qualche cosa si è fatto, che un altro passo verso la conoscenza si è compiuto.

Devo dire che mi sarebbe piaciuto poter intervistare Levi, ma non credo proprio che avrei potuto dare vita a una conversazione così interessante come invece ha fatto Camon e l'impressione che alla fine si ritrae é che questi due uomini, di estrazione diversa, sono più simili di quanto non si possa immaginare e pagina dopo pagina è piacevole lasciarsi condurre quasi per mano da entrambi in un percorso altamente gratificante e che porta a una grande sensazione di serenità, la stessa che si raggiunge quando si è consapevoli di un accrescimento del proprio patrimonio culturale.

Per quanto ovvio, Conversazione con Primo Levi è sicuramente e ampiamente raccomandabile.

Renzo Montagnoli





Intervista di Renzo Montagnoli a Ferdinando Camon, autore del libro Conversazione con Primo Levi, edito da Guanda.

 

La Sua è un'intervista realizzata in un arco di tempo piuttosto lungo e in più incontri; considerato che all'epoca (all'incirca nella prima metà degli anni '80) non esisteva ancora Internet e quindi non era possibile effettuare il tutto con uno scambio di messaggi elettronici, Lei ricorse a incontri diretti con lo scrittore nella sua città natale (Torino), a scambi di telefonate e raramente in via epistolare. Fu indubbiamente un impegno non trascurabile, anche se ne valeva la pena. Che cosa la spinse però a contattare Primo Levi per intervistarlo?

 

Mi spinse un complesso di colpa. Come ho scritto da qualche parte, andare a parlare con Primo Levi per me significava andare a Canossa. C'è nel libretto, se uno lo legge bene, un punto di attrito tra Levi e me, che mi fu ascritto a colpa dalla stampa tedesca e francese di destra. Levi sosteneva che la colpa dello Sterminio era del personaggio che dominava la Storia, e cioè Hitler. Levi aveva un'idea eroica della Storia. La Storia la fanno  Grandi, i dominatori, gli domi eroi. Costoro sono il vento che scuote il mare, sul quale i popoli galleggiano come sugheri. Lui aveva un'idea ristretta della Grande Colpa. Io sostenevo allora (cioè: mi aggregavo a chi sosteneva) una colpa collettiva, la responsabilità di massa. Che non vuol dire di ogni tedesco, singolarmente preso. Ma del popolo tedesco, nel suo insieme. Questa tesi ha finito poi per scalzare la tesi di Levi: Hillberg e Goldhagen e tanti altri parlano sempre e solo di una “responsabilità di massa” dei tedeschi per lo Sterminio. E pongono, Hillberg specialmente, la tesi che lo Sterminio fu l'ultima fase di un'opera di espulsione ed esclusione durata molti secoli. Dapprima fu detto agli ebrei: “Potete vivere in mezzo a noi, a patto che diventiate come noi. Convertitevi”. Fu l'epoca delle conversioni coatte. Poi fu detto: “Non siete diventati come noi, andate a vivere da un'altra parte”. Fu l'epoca dei ghetti. Il nazismo venne per attuare la terza fase: “Né fra noi né lontano da noi, non potete vivere da nessuna parte. Ovunque siate, dovete morire”. Ma questa terza fase non sarebbe stata possibile senza la seconda, e la seconda senza la prima. E su quella fasi ha un'impronta fondante la civiltà euro-occidentale, della quale io, come tutti qui, siamo figli. Levi è una nostra colpa. Recensendo il mio libretto “Conversazione con Primo Levi”, la stampa tedesca di destra (ma sono comunque grato che la Germania l'abbia tradotto) e la stampa francese di destra (ma sono grato che il libretto sia stato tradotto e recitato in teatro in una ventina di città, e la pièce dovrebbe ripartire di nuovo quest'anno) giudicavano Levi “obiettivo”, nell'attribuire la colpa al solo Führer, e me “razzista”, nel coinvolgere il popolo  tedesco. Si crede che veder girare un proprio libro nel mondo sia una gioia, invece è un martirio.

 

 

Si potrebbe dire che Hitler nel popolo tedesco è riuscito a far emergere determinate caratteristiche che prima erano sopite, o comunque in letargo. Al riguardo mi pare che Marlene Dietrich abbia espresso sostanzialmente lo stesso concetto e lei appunto era tedesca.

C'è un passo della conversazione, all'argomento “Il diavolo nella storia”, in cui Lei dice: - Tuttavia, nei momenti delle grandi riprese dei loro movimenti morali e religiosi, loro pescano sempre in un repertorio di perdizione, di dannazione, di… e Levi aggiunge: - Di demoniaco? Al che la sua risposta è questa: - Di demoniaco, che coinvolge e annulla la stessa divinità…

La pregherei di precisare quali siano questi momenti in cui sono emerse caratteristiche di diabolica perdizione e di abbandono al male. Già che ci sono, mi risulterebbe che accadimenti simili non hanno caratterizzato solo i tedeschi, ma anche i polacchi e i russi.

 

Nella mia memoria si affacciava un brano di uno storico tedesco, che commentava come adesso dirò l'avvento del luteranesimo. Lo può trovare nell'Antologia di Critica Storica di Armando Saitta, in tre volumi, per Laterza. Il brano è questo: Lutero sta dialogando con un seguace, gli espone il suo concetto di Dio e di giustizia divina, come questa giustizia sia legata alla Grazia e separata dai merito. “Ma come si può amare un Dio come questo?” esclama terrorizzato l'allievo. “Amarlo?” risponde Lutero, “io lo odio”. Questa confessione di Lutero, che odia il proprio Dio, mi entrò nel cervello allora, ero studente di liceo classico, e non m'è più uscita. Nella mia cultura di euro-mediterraneo è inammissibile. Se non erro, Freud s'interrogava su quel che facevano i tedeschi del suo tempo, e rispondeva che erano “battezzati male”, cioè “mal cristianizzati”. In questi giorni mi sto occupando di Primo Levi, presento sulla “Stampa” un libro di Frediano Sessi intitolato “Il lungo viaggio di Primo Levi”, e mi son riletto le opere concentrazionarie di Levi: i custodi del lager non erano uomini, non avevano niente di umano. Nell'incontro del '38 al Brennero con Mussolini, Hitler gli portò in regalo le opere di Nietzsche rilegate in pelle. Hitler non ha mai taciuto che intendeva realizzare il Superuomo di Nietzsche con le sue SS. L'avvento del Superuomo è teorizzato in “Così parlò Zarathustra”. “Tre incarnazioni dello Spirito io vi narro – esordisce Zarathustra -, com'esso divenne cammello, e di cammello leone, e di leone fanciullo”. Lo Spirito-cammello è il Cristianesimo. “Qual cosa pesa di più?” chiede lo Spirito cammello, partendo  per il proprio deserto, “ditemelo, o eroi, affinché io me lo sobbarchi”. Ma, fratelli miei, non significa questo immergersi nell'acqua putrida della verità, senza scacciare da sé i rospi viscidi e i vermi schifosi?” Le SS servivano a depurare l'acqua della vita dai rospi viscidi e dai vermi schifosi, a correggere l'umanità, perché com'era stata creata non andava bene.

 

 

Comprendo; mi pare, però, di aver capito che in fondo Levi in questa conversazione non attribuisce le colpe dell'Olocausto al popolo tedesco e penso che questo atteggiamento gli sia derivato dal timore di essere pure lui considerato un razzista. Tuttavia, in un altro suo libro (I sommersi e i salvati) esplicitamente incolpa i tedeschi per la loro volontaria indifferenza. A Pag. 29 dell'argomento La colpa di essere nati Lei dice, fra l'altro: - E cioè il problema di trovarsi a scontare la colpa di essere nato. Perché credo che questa fosse la <<colpa>> che distingueva l'ebreo dal politico o dal prigioniero di guerra. I quali scontavano una battaglia persa, o una opposizione politica; la l'ebreo per il solo fatto di essere nato doveva scontare questa <<colpa>> : la colpa di esistere.

Concordo pienamente, ma mi sono sempre chiesto perché proprio l'ebreo, ed è una domanda a cui ho cercato di dare più di una risposta. Se non si è trattato di una scelta dovuta al caso, la colpa di essere nato deriva forse da una altra colpa, così come concepita a lungo dalla Chiesa, soprattutto quella luterana: gli ebrei erano coloro che avevano immolato Gesù Cristo. Qual è la sua opinione al riguardo?

 

Il nazismo però non si presentava come un movimento cristiano, inteso a punire i nemici del Cristianesimo, anzi si poneva come pagano, anti-cristiano, legato ai miti del suolo e del sangue, al culto della forza, della razza, delle tradizioni ancestrali. A un certo punto fu ordinato che nelle chiese luterane, sull'altare, accanto alla Bibbia, fosse collocata una spada. Il “Mein Kampf” è stato un libro proibito per mezzo secolo, ma in Italia lo stampava una casa editrice di estrema sinistra, la ERS, Edizioni Riforma dello Stato, fondata e diretta da Armando Cossutta, che era un fuoriuscito dal Pci, a sinistra del Pci. Io l'ho trovato, l'ho comprato e l'ho recensito, sull'”Unità”. Ho letto il libro alla ricerca del “sistema” di Hitler, se voleva la guerra o no, contro chi, a che scopo, se preparava lo sterminio degli ebrei, e perché. Il libro è chiarissimo. È lo sfogo di una nevrosi fobica-depressiva, che diventa aggressiva. Hitler è sgomento per la sconfitta della Germania, e spaventato per la potenza di Francia e Inghilterra. Sogna la vendetta. Per la vendetta gli serve un popolo compatto, obbediente, educato militarmente, fisicamente robusto. Raccomanda che nelle scuole non s'insegni il francese, ma la boxe. Inculca l'odio verso gli ebrei, ma non li accusa mai di qualche colpa specifica (hanno fato questo male o quello), ma li accusa di tutte le colpe in generale. L'odio verso gli ebrei, non avendo una colpa da correggere, è immotivato e perciò implacabile. Gli ebrei vanno sterminati perché sono ebrei. Non importa se per sterminare gli ebrei dedichi uomini, mezzi, risorse e tempo, che sarebbero necessari per vincere la guerra: anche quella contro gli ebrei è una guerra, serve a liberare la Germania e l'umanità.

 

Certamente, il Mein Kampf è talmente chiaro che nessuno che lo legga potrebbe dire che Hitler da agnello si era trasformato, una volta giunto al potere, in lupo feroce.

Mi scusi, però, se ritorno alla domanda, che non è frutto di curiosità: perché sempre l'ebreo deve essere un capro espiatorio? Forse ciò è dovuto a più concause, non ultima quella religiosa. Vede, la cosa mi interessa sia come parte del genere umano, sia per motivi personali. Del resto, se Hitler ha praticato l'annientamento sistematico degli ebrei, questi hanno sempre patito nella storia persecuzioni più o meno ampie; al riguardo, basti pensare ai pogrom e andando più indietro nel tempo la Spagna del XV secolo. Forse non è in grado di darmi una risposta compiuta, come in verità non lo sono nemmeno io, ma Hitler non si è inventata la persecuzione degli ebrei, l'ha adottata e ne ha fatto uno scopo della sua vita, applicandola con metodo e ferocia.

 

Ecco, io pongo questa esatta domanda a Levi, a pagina 17, e lui la rifiuta: dice che “non i tedeschi odiavano gli ebrei”, ma “Hitler odiava gli ebrei” e “ i nazisti odiavano gli ebrei”. Quando io cerco di trovare radici lontane del superomismo dei tedeschi nella loro mitologia, e m'interrogo sulla separazione che loro pongono tra merito e salvezza, opere e grazia, lui ribatte che non c'è traccia di questo in Goethe. Ammette però che il diavolo è una presenza fondamentale nella loro formazione. Io mi spingo fino ad affermare che l'irruzione dei popoli germanici nella storia degli altri popoli europei non hanno effetti diversi dall'irruzione della peste e delle epidemie, lui ritorna a limitare questo ruolo ai tedeschi nazisti, e questo ha prodotto un curioso effetto nella circolazione del mio libretto di conversazioni con Levi in Germania e in Francia: c'è in Germania e in Francia anche una stampa di destra, che s'è buttata su queste pagine ribadendo che Levi assolve i tedeschi mentre Camon  li condanna, quindi Camon è il vero razzista, che combatte il razzismo tedesco con un razzismo antitedesco. Allora queste accuse erano possibili, oggi non più. Perché oggi il concetto di “responsabilità di massa”, “responsabilità collettiva” è molto più chiaro, diffuso ed accettato, anche dai tedeschi, fino alla cancelliera Angela Merkel. Gli ebrei sono stati sradicati dal loro suolo nel 70 dopo Cristo, da Tito, che non era ancora imperatore, soprannominato “deliciae generis humani”, il quale ordinò l'uccisione di tutti i maschi in età di armi e la cacciata delle donne e dei bambini. La diaspora degli ebrei comincia allora, e finisce dopo la seconda guerra mondiale. A differenza di altri popoli, gli ebrei hanno conservato cultura, religione, tradizione, non scomparendo nei popoli dentro i quali confluivano, e questo ha sempre distinto le comunità ebraiche negli studi, nella scienza, nelle arti, nei commerci, nella produzione…: nelle università, tra i premi nobel, tra gli scienziati, insomma nelle classi dirigenti, la presenza di ebrei è sempre stata alta. Può darsi che questo li abbia esposti alla visibilità, e la visibilità all'odio: e che così il loro merito (avere una forte comunità ebraica è una fortuna per un popolo) sia diventato un demerito (se qualcosa va male, si può dare la colpa a loro). Ma ripeto: nei testi degli “odiatori degli ebrei” non c'è mai un'accusa chiara, c'è solo un odio viscerale, nebuloso e onnicomprensivo. È appena uscito qui da noi in Italia un libro di Céline, col titolo “Céline ci scrive”, pubblicato da una piccola casa editrice di destra, contiene le lettere e gli articoli di Céline contro gli ebrei: me lo sono subito procurato proprio per vedere se Céline chiarisce, una volta per tutte, le ragioni del suo antisemitismo, ma niente, lo ripete infinite volte ma non fornisce alcuna ragione. C'è un film di Godard in cui un marito torna a casa e dice alla moglie: “Sai la notizia? Il governo ha deciso di eliminare tutti i medici e gli ebrei”, e la moglie: “Perché i medici?”.                    

 

Mi sembra quindi di comprendere che alla base di questo odio razziale ci sia una irrazionalità, una sorta di atavica prevenzione che deriva da un popolo che è riuscito, pur integrandosi, a mantenere la propria individualità. Dove sta l'irrazionalità? Nella mancanza di presupposti, anche fasulli, che alimentino l'antisemitismo e del resto, anche in persone insospettabili, ho sentito più volte questo ragionamento: “Se gli ebrei sono stati trattati così, un motivo ci sarà”.  Ecco che implicitamente in questi soggetti che, ripeto, non sono degli estremisti, esiste una prevenzione che se non scatena un odio razziale, però fa sì che questo possa essere tollerato. E da qui mi sorge spontanea la domanda: non posso credere che la maggioranza del popolo tedesco avesse in sé quest'odio razziale, mentre invece credo che per quel ragionamento che ho espresso prima abbia di fatto accettata come logica la persecuzione degli ebrei. Quindi non erano carnefici, ma tacitamente complici o al più indifferenti, il che non sminuisce la loro responsabilità.

Qual è la sua opinione al riguardo?

 

La mia risposta è questa. Curiosamente, il “Mein Kampf” non è un libro delirante-aggressivo, che nasca dalla volontà di conquistare il mondo e sterminare gli ebrei. È un libro fobico-depressivo, che nasce dallo spavento. Hitler è terrorizzato dalla strapotenza di Francia e Inghilterra, le ammira e le teme. Tutta la personalità e il programma di Hitler sono esplosioni del trauma per la sconfitta della Germania: la Germania uscì dalla Prima Guerra Mondiale non solo vinta, ma annichilita e umiliata. Il “Mein Kampf” è la rivolta contro questa umiliazione. Il collante che unisce Hitler al suo popolo, quel filo elettrico lungo il quale lui scarica i fulmini della sua forsennata oratoria, è la vendetta. Si sente sempre nei suoi discorsi, nei suoi scritti, un concetto elementare, primordiale, insostenibile da ogni punto di vista, ma di facile presa sulla massa: noi tedeschi abbiamo perso, perché?, perché non siamo “noi tedeschi”, in mezzo a noi ci sono dei non-tedeschi, i quali ci corrompono e ci indeboliscono. Per questo abbiamo perso. La nostra sconfitta è colpa degli ebrei. Eliminando gli ebrei, compiamo una giustizia retroattiva. In Céline c'è un punto in cui il grande scrittore esclama: “Non è forse chiaro a tutti che questa guerra è colpa degli ebrei?”. Naturalmente non c'è mai un episodio, un fatto, una situazione in cui si possa individuare una colpa degli ebrei verso la Germania o la Francia, ma accusare gli ebrei della sconfitta nella prima guerra aveva molti effetti utili a Hitler, in primo luogo questo: si liberava la coscienza dei soldati tedeschi dal peso di una disfatta, si scaricava quella disfatta su un nemico interno, e così i soldati potevano tornare a sentirsi invitti ed invincibili. Da notare che anche storici non-tedeschi hanno scritto che le condizioni di pace imposte ai tedeschi a conclusione della Prima Guerra Mondiale erano inique e insopportabili, il popolo tedesco non poteva in nessun modo reggerle, erano in un certo senso vendicative. E dunque l'esplosione di Hitler sarebbe stata la vendetta per una vendetta. Ma io non sono uno storico, le ragioni per cui andavo a parlare con Levi non erano storico-politiche, ma morali e sociali.          

 

E' indubbiamente vero che condizioni di pace imposte di fatto costituirono i prodromi della seconda guerra mondiale, ma giustamente come dice lei i motivi che l'hanno indotta a intervistare Primo Levi non sono di carattere storico o politico, bensì morali, forse ancor più che sociali. E quindi è opportuno rientrare nel tema principale, che presenta spunti di notevole interesse, come quando Levi fornisce una spiegazione alla sua domanda volta a comprendere, come psicologicamente parlando, si riuscì a condizionare, meglio ancora a circonvenire un popolo quale quello tedesco. Levi risponde che il mezzo fu la propaganda e l'arma spettacolosa la comunicazione di massa, la manipolazione della folla, sperimentata dapprima dai regimi totalitari e poi, come anche ora, in costanza di una democrazia più di apparenza che di sostanza. Passo comunque al altro, all'argomento 6, quello del lager nazista e di quello comunista.

Verso la fine c'è una Sua domanda che partendo dal fatto che Se questo è un uomo è considerato oggi un testo esemplare della cosiddetta “letteratura concentrazionaria” cerca di comprendere i motivi per i quali gli editori l'hanno rifiutato per diversi anni. E qui fra la risposta di Levi trovo una stranezza, una non sincerità. Infatti dice: Se spegne il registratore glielo dico. E poi il risultato  non è eclatante, bensì si accenna a una disattenzione nella lettura.

Non ci credo, non posso crederci, perché lo spegnere il registratore equivale a non voler ufficializzare un discorso. Ora non so quel che poi Le ha detto Levi e se Lei possa ora riferirlo, ma comunque, in ogni caso, ha un'idea del perché di questi ripetuti rifiuti di pubblicazione?   

 

La mia “Conversazione con Primo Levi” ha avuto più edizioni e più editori, e credo che le ultime edizioni diano una risposta al suo dubbio. Io il libretto l'avevo pensato per Garzanti, gli avevo proposto una collanina agile, di volumetti di poche pagine, 100 o meno, di autori o su temi di attualità, saggi, racconti, confessioni. Lui rifiutò dicendo: “Libri come coriandoli? Mai”. Allora i primi libretti di quella collanina, progettata come collana-rivista, li feci io a casa mia. Li stampavo in una tipografia veneta, le tipografie venete, e del Nord-Est in generale,  costano molto meno di quelle lombarde. Di ogni volumetto tiravo 5-6 mila copie, e le spedivo alla sede grafica della Garzanti, a Cernusco sul Naviglio. Avevamo un contratto, Garzanti ed io, lui alla consegna pagava come già venduta la metà della tiratura che riceveva. Io con quei soldi pagano tutte le spese e ne avanzavo. Il primo volume andò bene, il  secondo pure, gli altri (ne feci 6) pure, e a quel punto Garzanti decise di fare lui una collanina sulle 100 pagine, di formato snello, e la chiamò proprio “Coriandoli”. La inaugurai io, con un racconto intitolato “Il canto delle balene”. Ricordo ancora il giorno che presentammo la collana, in via della Spiga, Franco Fortini, Piero Camporesi ed io. La “Conversazione con Primo Levi” però aveva ormai una sua storia, non la trasferimmo nei “Coriandoli”. Esaurita la mia tiratura, la ripubblicammo in una collanina intitolata “I libri di”, poi la chiese Guanda ed è ancora in Guanda, ci sarà una prossima edizione presso le edizioni della Università di Pisa ma sarà un'edizione su licenza di Guanda. Nelle prime edizioni ho rispettato il volere di Primo Levi, e quando pronuncia il nome di chi rifiutò il suo libro per Einaudi e mi chiede di spegnare il registratore, affinché quel nome non restasse, io quel nome non l'ho messo. Poi c'era troppa pressione dei lettori e dei giornali, che volevano saperlo, quel nome. Allora, nelle ultime edizioni, l'ho messo. Il “Corriere della Sera” sul supplemento culturale, allora diretto da Riccardo Chiaberge, imbastì una discussione. Il nome è quello di Natalia Ginzburg, ed è stupefacente che una scrittrice ebrea non abbia sentito la potenza della denuncia di quel libro di un fratello ebreo, che doveva restare nei secoli e nel mondo il testimone numero 1 dello Sterminio. La Ginzburg era ancora viva, quando il “Corriere” aprì la polemica, e intervenne, ma senza dire niente d'importante: le solite cose, non ero io che decidevo, decideva tutto Cesare Pavese, e così via.  Non credo ci sia niente di misterioso sotto: si tratta del giudizio sbagliato di una consulente inadeguata. Tutto qui. Primo Levi però non è facile da capire e da valutare. Più tardi, la casa francese Gallimard ripeté l'errore di rifiutarlo, e questo quando Levi era già noto nel mondo, proprio alla fine della sua vita. Ci ho sofferto molto, per quel rifiuto. È una storia complicata.  

 

La Sua risposta è indubbiamente convincente, perché come sappiamo non è la prima volta che un consulente editoriale cade in un errore grossolano (al riguardo basti pensare alla tormentata vicenda della pubblicazione del “Gattopardo”) e può darsi che la Ginzburg sia stata anche condizionata dal fatto di essere ebrea, il che, magari nell'incertezza che dovrebbe avere avuto sulla validità dell'opera, deve aver pesato non poco, nel timore che un giudizio positivo, seguito da un insuccesso commerciale, potesse esserle rimproverato per una scelta che qualcuno in azienda e anche fuori poteva attribuire alla comune appartenenza. In fondo stupisce di più il rifiuto della Gallimard, poiché ormai Levi non era certo uno sconosciuto. È a conoscenza dei motivi per cui l'editore francese decise di non pubblicare l'opera?

 

Era un mio ripetuto consiglio al direttore editoriale della Gallimard, di pubblicare “I sommersi e i salvati”. Il direttore era Hector Bianciotti, nato in Argentina, da genitori italiani, piemontesi, poi fuggito dall'Argentina e vissuto in Francia, a Parigi. Un grande scrittore, un suo libro autobiografico è tradotto in italiano da Feltrinelli. Persona mite, affabile, gentile, con un senso squisito per i libri. Fu nominato membro de l'Académie Française, la cosiddetta Accademia degli Immortali, un posto a cui teneva molto, perché gli assicurava una rendita mensile. Per la cerimonia d'insediamento lui doveva presentarsi vestito come un cavaliere del Settecento, calzoni aderenti corti al ginocchio e giaccia attillata color verde, bordata in oro, con al fianco uno spadino. I suoi invitati dovevano indossare lo smoking. M'invitò, ma io non avevo uno smoking. Mi scusai e non ci andai. Col senno del poi, e visto che lui è morto prestino, non solo me ne pento, ma anche me ne vergogno. Mi giustifico attribuendo la causa alla mia cronica mancanza di denaro. Ma questo avvenne dopo. Torniamo a Levi.

Levi non era tradotto in Francia, e questo mi sembrava assurdo. Io avevo tutte le opere tradotte da Gallimard e avevo un rapporto col suo direttore Bianciotti.  Insistevo perché traducesse “I sommersi e i salvati”, gli mandavo lettere. Lui mi chiamava al telefono e mi rispondeva: “Ferdinandò, non ci piace”. Io rispondevo: non vi piace? Ma come lo leggete? seduti? Non dovete leggerlo restando seduti, dovete cadere in ginocchio. Era una lotta lunga, era ancora in corso quando concludevo con Levi la conversazione contenuta in questo libretto. Per aiutare “I sommersi e i salvati” sono andato a Torino, a incontrarlo di nuovo, era una domenica, e insieme con lui scegliemmo una decina di pagine da pubblicare subito su “Panorama”. Lui preferì le ultime, quelle che terminano con l'affermazione: “C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. Esce l'intervista su “Panorama”, e chiamo “Libération” per chiedere spazio, un paio di pagine nelle quali spiegare ai francesi perché devono leggere Levi. “Libération” accetta. Mando il mio pezzo, piuttosto lungo. Levi muore di sabato. “Libération” mi chiama alla domenica, mi legge tutta la traduzione del pezzo, lo approvo parola per parola, il pezzo esce. Il martedì mi arriva una lettera di Primo Levi. Levi era morto al ritorno dalla solita passeggiatina di fine settimana, e io mi dico: ”Se mi arriva oggi, martedì, questa lettera l'ha imbucata sabato, a metà passeggiata, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi”. Apro la lettera. È una lettera vitale, piena di progetti, “mi mandi l'articolo di Libération quando esce, mi sappia dire se Gallimard vuol qualche altra copia dei miei libri”, non è affatto la lettera di uno che dieci minuti dopo si suicida. Perciò io sono fra coloro (siamo tre o quattro) che non credono al suicidio. Non ho le prove del voler-morire, mentre ho le prove del voler-vivere. Due giorni dopo mi chiama Bianciotti: “Ferdinandò, l'editore Albin Michel vuol prendere “I sommersi e i salvati”, ti preghiamo di dire alla vedova, signora Lucia, che anche noi vogliamo prendere “I sommersi e i salvati””. Due settimane dopo altra telefonata: “Albin Michel vuol prendere due libri di Levi, di' alla signora Lucia che anche noi prendiamo quelle due opere”. Un mese dopo mi trovo a Brescia, alla libreria Ulisse (che adesso non c'è più, era una libreria raffinata, diretta da un libraio che era anche uno scrittore squisito, Umberto Stefani), sto presentando il mio libro “La donna dei fili”, squilla il telefono: era ancora Bianciotti che mi cercava trafelato per darmi questo incarico: “Albin Michel vuol prendere quattro libri, ti preghiamo di trasmettere alla signora Lucia, e alla casa Einaudi, questo messaggio: la Gallimard è disposta  a prendere tutti i libri di Levi che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di nessun altro”.  Non è finita. Un mese dopo, altra telefonata di Bianciotti: “Ferdinandò, Albin Michel vuol portarci in processo, perché dice: voi lo avete rifiutato e io l'ho preso, perché adesso mi ostacolate? Ritiratevi”, se tu Ferdinandò ci mandi quella lettera di Levi, nella quale lui esprime il desiderio di essere pubblicato da Gallimard, ci aiuti”. Mando una fotocopia della lettera, e la questione si chiude, Primo Levi esce da Gallimard. C'è un piccolo strascico: quando esce in Francia “I sommersi e i salvati”, l'Istituto Italiano di Cultura organizza una giornata di presentazione, lei conosce la sede dell'Istituto, è in Rue de Varenne 50, pubblica anche una rivista che si chiama col nome della via e numero del civico, è una sede magnifica, ampia e sontuosa, le stanze sono piene, tutta la Parigi colta aspetta, io arrivo e un signore che non conosco mi s'accosta mormorando una cantilena: “Monsieur Camon, io non la benedico, io non la benedico”, il Direttore dell'Istituto accorre e mi trascina via, io gli chiedo: “Chi è questo signore? E perché non mi benedice?”, “Non ci badi – fa il Direttore -, è il traduttore che Albin Michel aveva già assunto, gli dispiace molto di non tradurre Levi, e pensa che la colpa sia di Camon”. Ecco, le cose andarono così. La mia conclusione è questa: “Levi è troppo”, al primo impatto (Natalia Ginzburg, Hector Bianciotti…) ispira un rifiuto che è un gesto di autodifesa, un istinto di sopravvivenza. Levi non commuove il lettore, non lo turba: lo tramortisce. 

 

E' una vicenda quasi da vaudeville e non a caso il teatro è la Francia; dispiace molto che Levi non ne abbia visto la conclusione e che la morte l'abbia colto anzitempo. Al riguardo, potrebbe essere stato un incidente, un malore improvviso, o anche un subitaneo sconforto; di certo non lo sapremo mai, ma in fondo poco importa, perché la morte è uno di quegli eventi che prima o poi accade a tutti, quella morte a cui era sfuggito quasi miracolosamente ad Auschwitz; mi sembra che questa “fortuna” (ma il termine è probabilmente improprio) gli sia tuttavia pesata, un po' come per il protagonista di Diceria dell'untore. Poi, come emerge dall'intervista, qualcuno addirittura ha voluto vedere un disegno superiore in questa sua salvezza, circostanza che ha indignato Levi perché, come dice lui stesso, sembrerebbe che Dio avesse concesso dei privilegi, salvando qualcuno e condannando qualcun altro. Con questo arriviamo alle ultime righe della conversazione, al punto in cui Lei domanda: “Cioè Auschwitz è la prova della non esistenza di       

Dio?” e Levi risponde: “ C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio.” (Sul dattiloscritto, a matita, ha aggiunto: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo).  

Credo che queste ultime righe, oltre a concludere una conversazione di estremo interesse, siano molto emblematiche; personalmente vedo un Levi certamente non ateo, e tantomeno agnostico, però è un uomo che cerca di capire, ricorre alla razionalità per cercare il trascendente, in un percorso senza sbocco. E allora arrivo alla domanda: secondo Lei, Levi credeva in un'Entità superiore, o comunque era alla continua ricerca di una risposta al perché della morte e soprattutto al perché della vita?

 

È lui stesso che risponde, nella conversazione. Dice che aveva ben ricevuto un'educazione religiosa, ma che Auschwitz l'ha spazzata via. La sua conclusione è: “C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. La mia impressione è stata allora, e torna ad essere ogni volta che rileggo questo passo, che Levi volesse proprio introdurre nel pensiero filosofico una prova della non-esistenza di Dio, da contrapporre ai sistemi dei filosofi che sostengono l'esistenza, per esempio Sant'Anselmo d'Aosta. “Dio c'è per questa e questa ragione”, dicono questi filosofi. “Dio non c'è, perché c'è Auschwitz” obietta Levi. Per me, la conversazione si chiudeva lì. Quando gliel'ho mandata, per un'ultima approvazione, mi aspettavo che lui correggesse qualche parola, ma non un concetto così essenziale, così fondamentale. Ci ho ragionato molto.  Dopo le prime edizioni, a partire dalla traduzione francese, ho aggiunto una prefazione con cui chiarisco ciò che per me significa quell'aggiunta: Levi aveva espresso una negazione assoluta dell'esistenza di Dio, ma se ne pente e riapre la questione: afferma che Dio non c'è, dunque il problema è chiuso, questa è la soluzione, ma subito corregge che “non trova una soluzione”, dunque il problema resta aperto, chiarisce che il non-trovarla non mette fine alla ricerca, infatti aggiunge ancora “la cerco ma non la trovo”: il messaggio finale è quello di una continua ricerca continuamente esposta allo scacco. La conclusione “c'è” o “non c'è” sarebbe comunque pacificante, la conclusione “non trovo ma cerco” resta aperta a un'angoscia che non ha fine.

 

Secondo me questa continua ricerca dimostra che in fondo Levi credeva che esistesse qualche cosa; la sua non era una negazione assoluta, anzi partiva da una deduzione personale quando diceva: “Dio non c'è, perché c'è Auschwitz.”  In fondo in lui era inconcepibile che Dio avesse consentito l'olocausto e se fosse stato ateo il problema non si sarebbe posto, anzi il fatto stesso della Shoah sarebbe stato un rafforzamento della sua convinzione. Comprendo che per lui questa ricerca sia stata un problema angosciante, ma solo perché ha voluto fare di una deduzione un ragionamento logico e senza dimenticare che l'essenza stessa di chi crede è il persistere del dubbio.

Siamo alla fine di questa conversazione, che per fortuna non ci ha impegnato per tutto il tempo che ha caratterizzato la Sua con Primo Levi e credo che questo sia il momento di tirare delle somme, di azzardare dei giudizi.

So che non è facile e so pure che parlare di quest'uomo Le riesce difficoltoso, ma è proprio per questo che la domanda che segue ha il suo senso.

Che cosa ha rappresentato e continua a rappresentare per Lei Primo Levi?

 

Il rapporto tra me e Primo Levi è il rapporto tra uno scrittore “minore” e uno non soltanto “maggiore”, ma “massimo”. Levi era come dev'essere uno scrittore, e come, nel mio piccolo, tento di essere io: uno scrittore “separato”, che si presenta al mondo con i libri, non in tv, non nei giornali, non nei premi. Perciò era uno scrittore dimenticato. Si stampavano storie della letteratura, in cui Levi non c'era. Ricordo che il manuale di storia letteraria più diffuso allora nei licei e nelle università, cioè quello di Natalino Sapegno, era giunto alla 43esima ristampa, e a Primo Levi non dedicava neanche una riga. Ne ho parlato col direttore del supplemento letterario della “Stampa”, che allora era Luciano Genta, e lui mi ha consigliato: “Scrivi un ‘Parliamone'”. Il “Parliamone” era una rubrica-jolly, firmata ora da un collaboratore ora da un altro, in cui si esponeva un problema letterario-culturale-editoriale del momento. Scrivo il “Parliamone”. La mia domanda era: “Si può ristampare 43 volte una storia letteraria, e dimenticare sempre Primo Levi?”. Alla 44esima edizione, Natalino Sapegno include Primo Levi con queste parole: “È forse il più grande scrittore italiano del secolo”. Allora la mia domanda diventa: può una storia letteraria italiana dimenticare per 43 edizioni il più grande scrittore del secolo? Da che cosa nasceva questa dimenticanza? Dal fatto che Levi viveva rintanato, non andava a convegni, non partecipava a dibattiti, non si faceva notare in nessun modo; se pubblicava un libro, l'editore mandava le copie alla stampa, ma non sollecitava nessuna risposta. Si comportava come deve comportarsi uno scrittore: scrive i libri e sparisce. Sono convinto che fargli avere il Nobel sarebbe stato possibile e facile. Questa mia “Conversazione”, della quale stiamo parlando qui, è uscita in Svezia, sono andato a presentarla a Stoccolma, all'Istituto Italiano di Cultura e all'Università: c'erano molti ascoltatori, studenti, docenti, giornalisti, scrittori (a Stoccolma, se vien presentato all'Istituto di Cultura Italiano un autore, gli intellettuali svedesi accorrono perché sanno che lì si trova il vino italiano; non è che nei negozi e nei ristoranti il vino italiano sia introvabile, ma è carissimo, perché è gravato da una pesante tassa che non va al Fisco ma alla Casa Reale), c'erano anche membri dell'Accademia di Svezia, votanti al Nobel, e parlando con loro ho avuto la netta sensazione che, se Levi fosse stato presentato al Nobel, gliel'avrebbero dato. Ma questa è un'operazione strana, che non dipende per niente dal Ministero della Cultura o dell'Istruzione, ma solo dal Ministero degli Esteri. I nostri Istituti Culturali all'estero sono gestiti dalla Farnesina. Anche questa è un'assurdità. Ma parliamoci francamente: cosa aggiungerebbe il Nobel, a Primo Levi? Nulla.




giovedì 12 novembre 2015

Un sicario alla corte dei Gonzaga, di Tiziana Silvestrin



Un sicario alla corte dei Gonzaga

di Tiziana Silvestrin

Scrittura & Scritture Edizioni

Narrativa romanzo giallo
Pagg. 320
ISBN 9788889682722

Prezzo € 14,50




Un trittico riuscito



E così, dopo aver letto I leoni d’Europa e Le righe nere della vendetta, mi sono dedicato all’ultimo dei tre romanzi fino ad ora pubblicati, Un sicario alla corte dei Gonzaga, stesso protagonista il capitano di giustizia Biagio Dell’Orso, medesima epoca (il XVI secolo) e identica ambientazione nella Mantova ducale di quello che fu probabilmente il più famoso della dinastia, Vincenzo. L’intreccio giallo non fa una piega, con un misterioso sicario che attenta più volte alla vita del duca, sempre scampato miracolosamente, ma in vece sua sono perite altre persone. L’indagine si presenta particolarmente difficile, perché mancano sia l’identità dell’assassino, sia quella del mandante e di conseguenza Biagio Dell’Orso annaspa nel buio, anche perché il sicario, se fallisce nel suo incarico, non lascia altre tracce, se non il veleno a cui è ricorso e, in un’occasione, la prima, quando perde, nello scassinare una porta, uno zaffiro che, insieme ad altre pietre grezze, tempestava l’elsa di un pugnale utilizzato nell’occasione come un grimaldello.  Se la caccia allo sconosciuto assassino si presenta di estrema difficoltà, ancor più arduo è determinare il mandante, perché, come tutti i signori dell’epoca, il duca Vincenzo ha più di un nemico. Che siano i Turchi contro i quali si appresta a battersi in Ungheria a difesa della Cristianità, e soprattutto dell’Impero? Che si tratti di Ferruccio Farnese, la cui sorella è rinchiusa in un convento a Parma dopo l’annullamento del matrimonio con Vincenzo, per l’impossibilità di lei di poter congiungersi con il marito e quindi di procreare? Che c’entrino i Medici e soprattutto Bianca Capello, cortigiana veneziana, poi amante di Cosimo e infine diventata sua moglie, sul conto della quale i Gonzaga avevano non poco spettegolato? Insomma, di possibili interessati alla morte del Duca ce ne sono diversi, ognuno dei quali per ragioni le più disparate. Come venirne a capo? Non intendo svelare altro, perché la trama avvincente e incalzante di questo giallo storico, che vede di volta in volta la sua ambientazione a Mantova, a Parma, a Venezia, a Praga e a Vienna è una di quelle che invitano a scorrere velocemente le pagine, ansiosi di arrivare alla soluzione, che puntuale troviamo alla fine, logica in tutti i suoi aspetti.  Certo c’è il rischio che, a lasciarsi prendere dalla smania di sapere chi siano il colpevole e il mandante, non ci si soffermi sullo stile fluido dell’autrice, sulle descrizioni essenziali e in funzione dello scopo, su aspetti che possono apparire secondari, ma che contribuiscono non poco alla gradevolezza dell’opera. Mi riferisco ai colloqui, mai banali, fra il consigliere ducale Marcello Donati e Biagio dell’Orso, alla storia d’amore fra quest’ultimo e la bella veneziana Rosa, che ci si augura di vedere finalmente sotto lo stesso tetto non saltuariamente, all’atmosfera della piccola città cinta dai laghi che quasi miracolosamente si svela ai nostri occhi negli scorci più suggestivi, nella variopinta folla che ogni giorno vi vive.
Tiziana Silvestrin è veramente brava e sono certo che meriterebbe un consenso assai superiore a quello attuale, peraltro non marginale. Mi chiedo se stia procedendo a scriverne un quarto; è un sospetto e una speranza, visto che il libro si chiude con una frase che Donati dice a Dell’Orso: “C’è qualcosa che devi vedere, qualcosa …dispaventoso.”. Insomma, per quanto ovvio, anche il lettore brama vedere cosa ci sia di così spaventoso, una frase che se non è una certezza di un seguito, lascia però ben sperare.  Al riguardo, e la notizia è recentissima, Tiziana Silvestrin mi ha confermato che fra non molto uscirà un quarto romanzo, con il bravo capitano di giustizia impegnato in un’altra difficile indagine.
Nell’attesa, la lettura di Un sicario alla corte dei Gonzaga è più che consigliata, anzi è vivamente raccomandata.

Tiziana Silvestrin ha scritto i seguenti romanzi, tutti pubblicati da Scrittura & Scritture Edizioni: I leoni d’Europa (2009), Le righe nere della vendetta (2011), Un sicario alla corte dei Gonzaga (2014).



Intervista di Renzo Montagnoli alla narratrice TizianaSilvestrin, autore dei romanzi I leoni d’Europa, Le righe nere della vendetta e Un sicario alla corte dei Gonzaga, tutti editi da Scrittura & Scritture



Tiziana Silvestrin è una narratrice mantovana che ha scritto tre riusciti romanzi ambientati nel XVI secolo a Mantova quando vi regnavano nel periodo del loro maggior splendore i Gonzaga e imperniati sulla figura del capitano di giustizia Biagio dell’Orso; si tratta di gialli storici in cui, nell’ambito di vicende realmente accadute, vengono inseriti anche dei personaggi di fantasia. La commistione fra realtà e inventiva é perfettamente in equilibrio e ciò non poco contribuisce alla qualità delle opere. 

D: Quale è la genesi di questo trittico? In pratica Le chiedo come è venuta l’idea di scrivere questi tre originali gialli storici.

R: Quello che mi colpisce è il mistero che avvolge un avvenimento oppure un dipinto ed anche il fatto clamoroso spiegato in maniera poco convincente. Ad esempio nelle Righe nere della vendetta sono stata colpita dalla pianta raffigurata nel ritratto di Giulio Romano, un edificio a base circolare che nessuno storico è mai riuscito a identificare. Nelle mie ricerche ho scoperto che a quell’epoca di edifici a pianta circolare a Mantova ce n’erano due, di cui uno era la Rotonda di San Lorenzo, che ha però una struttura diversa, e l’altro una chiesa costruita su un antico tempio romano che si trovava nel lazzaretto di San Lorenzo: un nascondiglio perfetto.  Nei Leoni d’Europa a colpirmi è stata la figura dell’Ammirabile Critonio e la sua strana scomparsa. Questo bellissimo giovane era il figlio del Lord Advocate di Maria Stuarda, aveva parentele influenti e non riuscendo a capire cosa ci facesse alla corte di Guglielmo Gonzaga, che certo non brillava per generosità, ho studiato la sua vita e ho scoperto le tracce di un complotto internazionale che coinvolgeva le corti di Mantova, Venezia, Milano, Parigi, la Spagna e Londra, oltre ovviamente al Vaticano. E nell’ultimo, Un Sicario alla corte dei Gonzaga, non mi convinceva il processo a carico del Pantara, un ladro di bestiame accusato di essere un emissario del duca Ranuccio Farnese, proprio nel periodo della guerra fredda tra lui e Vincenzo I. Ho quindi immaginato che dovesse esserci una spia ben addestrata, come sarà sicuramente avvenuto, con il compito di uccidere il duca di Mantova. 

D: Capisco che esistono arcani misteri, elementi che possono colpire e far nascere quel processo di elaborazione inconscio che è proprio della fantasia. Nei suoi romanzi c’è però qualche cosa di più, c’è un profondo desiderio di ricerca della verità, e questo mi viene anche confermato dalla sua risposta. Dov’é, cosa significa quell’edificio a pianta circolare, che cosa ci faceva esattamente a Mantova il Critonio, è mai possibile che Ferruccio Farnese, spietato, ma anche scaltro si avvalesse di un sicario di infimo ordine? Sono tutte domande che si pone lo storico, il quale, a posteriori, cerca la verità. Sono libri, i suoi, che possiamo definire romanzi storici, ma che hanno anche caratteristiche di saggio storico. E così, anziché la ricerca dell’autore in prima persona, la missione viene demandata a un personaggio di fantasia, a un investigatore che ha tutte le caratteristiche per destare simpatia e interesse. Come è nato Biagio dell’Orso?

R: In effetti dietro ogni romanzo c'è un grande lavoro di documentazione e di ricerca, anche d'archivio; molto spesso le lettere rivelano più di quello che dicono, sui fatti storici. Inoltre curo sempre molto l'ambientazione, ho visitato tutti  i luoghi in cui si svolgono le vicende di cui narro e quando non esistono più mi documento attraverso i quadri, le stampe o le piante degli edifici. Il convento dei domenicani dove si trovava il tribunale dell'Inquisizione a Mantova non esiste più, nemmeno la chiesa che è stata distrutta agli inizi del secolo scorso, solo il campanile è stato risparmiato; ma ne ho trovato la pianta in un libro dell'ottocento e servendomi di quella ho descritto il  percorso seguito di notte dal figlio del boia per entrare e uscire.
Biagio dell'Orso era il capitano di giustizia al tempo di Guglielmo Gonzaga, un nome su alcune lettere conservate all'archivio storico, la persona comunque che aveva indagato sul "caso dell'ammirabile Critonio" e l'ho fatto diventare il protagonista dei miei romanzi. Il capitano di giustizia nel ducato di Mantova, così come in quelli di Milano o di Ferrara non era un'autorità indipendente, ma era un funzionario costretto suo malgrado a obbedire agli ordini del duca. Ne è uscito un personaggio tormentato che non si adatta ai rituali della corte e non si limita a eseguire gli ordini, ma segue il suo istinto e cerca la verità in tutte le sue indagini. Biagio è sopratutto un personaggio che prova una profonda compassione, adesso diremmo empatia, per tutti gli sfortunati, per coloro che non possono ribellarsi alle ingiustizie che subiscono. Nonostante il suo carattere, o forse proprio per quello, gode delle stima e dell'amicizia di molti, a cominciare dai consiglieri ducali che fanno di tutto per evitargli gli strali del duca quando prende a calci qualche nobile prepotente.

D: Quindi Biagio dell’Orso non è un personaggio inventato, è esistito veramente; frutto della creatività è la sua personalità di uomo insofferente alle ingiustizie e naturalmente propenso a prendere le difese dei deboli, degli sfortunati, insomma di chi non ha potere. Per certi aspetti assomiglia un po’ al famoso commissario Maigret, con la differenza che quest’ultimo non fa mai uso della forza. È d’accordo con questo paragone? Questa è una domanda, ma colgo l’occasione per porne un’altra: quanto c’è di lei in Biagio dell’Orso?

RGrazie per il paragone più che lusinghiero; direi che per certi aspetti lo ricorda; anche Biagio nelle sue indagini riesce a cogliere i particolari che servono a collegarlo al colpevole, a capire i motivi che hanno portato al delitto e come lui non è molto socievole. Nell'epoca in cui è vissuto per far rispettar l'ordine l'uso della forza era praticamente inevitabile, le guardie avevano spesso di fronte banditi di strada e tagliagole, gente che non aveva nulla da perdere e che doveva evitare la prigione a ogni costo, viste la condizione delle carceri di allora e le punizioni inflitte, di solito corporali, inoltre  negli scontri venivano usate soprattutto spade e pugnali, le pistole erano ancora molto imprecise e sparavano uno o due colpi al massimo, per cui si passava subito alle armi bianche. Anche le città erano molto di diverse da come sono ora, di notte le porte venivano chiuse, nessuno poteva entrare o uscire e data la presenza dei banditi che infestavano le strade era assolutamente impensabile uscire dalle mura senza avere una scorta armata. Per le persone comuni era anche molto difficile ottenere giustizia, se non si incontrava qualcuno come Biagio dell’Orso.
Quello che più mi accomuna al mio personaggio è l’insofferenza per i soprusi, le prevaricazioni e dato che sono un’ambientalista la lista delle cose che non sopporto si allunga con i reati contro gli animali e l’ambiente. Parafrasando un famoso film direi che “Questo non è un paese per idealisti”.

D: Purtroppo le ingiustizie sono di questo mondo, poi ci può essere il paese in cui sono più frequenti, ma direi che nessun stato ne è immune. Fino ad adesso abbiamo parlato di Biagio dell’Orso, protagonista principale dei tre romanzi, ma poi ci sono altri personaggi sempre presenti: mi riferisco al Donati, consigliere del duca, e allo speziale, di cui ora non mi ricordo il nome, e senza dimenticare il bargello. Questi tre individui sono resi molto bene nello loro caratteristiche, al punto che mi viene il sospetto che siano realmente esistiti. È così, oppure si tratta di un pregevole lavoro di cesello della fantasia?

R: Sono esistiti tutti e tre, ma solo di uno ho potuto reperire la biografia.
Di  Gio Morisco è rimasta qualche relazione sulle risse che si  è ritrovato a sedare, di Hyppolito Geniforti si conosce il suo coinvolgimento nel "caso dell'Ammirabile Critonio" e grazie, a un testamento,  il  contenuto della sua spezieria, compresa una stampa con l'insegna della sua bottega dove le foglie e i frutti della castagna d'acqua che fanno da cornice a una piccola Sirena. 
Del prima medico di corte e poi consigliere ducale Marcello Donati ho avuto la fortuna di poter leggere la sua biografia con tanto di ritratto e da questa, oltre che da altri episodi in cui è stato coinvolto alla corte ducale, sono riuscita a dedurne  il carattere.  Il Donati aveva una straordinaria passione per la medicina e deve aver sofferto molto quando il duca Guglielmo gli ha chiesto di diventare suo consigliere; non si è opposto alla decisione del Gonzaga perché era un uomo estremamente tremebondo, ma credo di essere riuscita a farne un personaggio simpatico nonostante la sua vigliaccheria.

D: Direi che tutti e tre sono delle caratterizzazioni che riescono a renderli simpatici. Marcello Donati è certamente un pavido, ma non mi sentirei di definirlo vigliacco, perché non ha mai tradito Biagio dell’Orso, di cui è sincero amico. E la bella ostessa veneziana, la fidanzata che il capitano di giustizia vede solo quando ne ha l’occasione, è esistita pure lei? E già che ci sono, il simpatico vescovo del Monferrato non è di fantasia?

R:  Rosa è uno dei pochi personaggi di fantasia, anche se sarebbe potuta esistere e forse è veramente esistita una donna così, rimasta vedova a causa della peste e costretta a portare avanti da sola l'attività del marito. Le vicende della peste le ho tratte da un manoscritto inedito conservato nella biblioteca di Verona di un notaio, Rocco de Benedetti, che racconta cosa succedeva a Venezia durante la peste del 1576, lo stato d'animo delle persone, l'impegno dei medici, la vita nei due lazzaretti. Lo Zibramontiinvece è realmente esistito e dato che  ha avuto il cattivo gusto di morire nel 1589 ho  dovuto, con molto dispiacere, separarmene a metà di un romanzo. Adoravo le sue battute, riusciva a sdrammatizzare anche le situazioni più tese e riusciva a tenere testa anche al duca Guglielmo, cosa non facile assicurano i contemporanei.

D: Direi che il genere è il giallo, ma più che altro si tratta di romanzi storici particolari in cui gran parte dei personaggi e delle vicende sono realmente esistiti e accadute. Viste le ricerche effettuate e nonostante la taccagneria del duca Guglielmo la Mantova dell’epoca può essere considerata un’isola felice, o comunque dove si stava meglio, rispetto ai territori delle Signorie attigue? Se non vado errato c’erano perfino un ospedale e un ospizio.

R: Ospedali o comunque posti in cui potevano trovare rifugio derelitti di ogni tipo si trovavano in tutte le città, a volte erano palazzetti riadattati, come nel caso dell'ospedale del lazzaretto di Mantova, a volte erano invece edifici costruiti appositamente come ad esempio l'Ospedale degli Innocenti  edificato dal Brunelleschi dove venivano accolti gli orfani. Anche a Mantova c'era un orfanotrofio "Al misericordia" posto sotto la diretta protezione dei Gonzaga; in quell'edificio ora si trova l'Università, e c'era anche un rifugio per le "donne perdute"che decidevano di cambiare vita dedicato ovviamente a Maria Maddalena. Se fosse un'isola felice non so dirlo, essendo un piccolo ducato i rapporti tra i Gonzaga  ed i sudditi erano più stretti rispetto ad altre corti e questo li induceva ad intervenire prontamente in loro aiuto. Ricordo le lamentele di Francesco II che dalla sua prigione di Venezia si lamentava del fatto che la moglie, Isabella d'Este, si preoccupasse più del benessere dei mantovani che delle sua liberazione; del resto lui l'aveva tradita con una contadina, come darle torto? Anche Vincenzo era generoso, quando si ebbe una inondazione del Po, fece tutto quanto era in suo potere per aiutare chi era stato danneggiato.  

D: Sì, probabilmente le ridotte dimensioni del ducato facevano sì che la vita fosse meno incerta, soprattutto in occasione di carestie e di altre calamità naturali.
È un trittico che mi è piaciuto molto e credo di poter dire che gli altri che leggeranno questi tre romanzi finiranno con l’appassionarsi, come me, a questi personaggi che destano un’immediata simpatia. Il ritmo costante, non veloce, ma comunque non lento, l’intreccio ben congegnato, l’atmosfera dell’epoca in cui ci si immerge, le descrizioni dei luoghi che sembrano materializzarsi davanti agli occhi sono tutti elementi positivi che, perfettamente fusi, portano a un rasserenante appagamento. Purtroppo, giunto al termine di Un sicario alla corte dei Gonzaga, mi è sorto un timore: che fosse l’ultimo. Ma, a pensarci bene, c’è una speranza che non lo sia e sta nell’ultima frase di Marcello Donati a Biagio dell’Orso: “   C’è qualcosa che devi vedere, qualcosa …di spaventoso.”.
Mi pare logico che una simile conclusione lasci spazio a un seguito e di questo gradirei avere conferma.

R: Certo, c'è un quarto romanzo  in cui i lettori ritroveranno tutti i personaggi dei libri precedenti, compreso l'illusionista Colorni e la sua giovane figlia che dopo averne combinate di tutti i colori vengono costretti ad aiutare Biagio dell'Orso per evitare di essere arrestati. Anche per Colornimi sono ispirata a un ebreo mantovano che è realmente esistito. Il titolo che gli ho dato è L'oscura ombra della magia, ma sui titoli io e le editrici bisticciamo sempre. Non so cosa anticipare di questo nuovo romanzo perché  è un susseguirsi di colpi di scena e non vorrei rovinare la sorpresa, posso solo raccontare che il capitano di giustizia e il povero Marcello Donati si ritroveranno a dover sventare  una congiura dell'oscuro ordine cavalleresco del Cigno Nero. 

D: A proposito di nomi di personaggi che risultano effettivamente esistiti, la stessa cosa può dirsi per attività commerciali? Per esempio la “locanda del cane che abbaia alla luna", un nome così poetico, é di sua invenzione ?

R: La "locanda del Cane che abbaia alla luna"  era aperta sino a  metà degli anni sessanta, ero a una trasmissione televisiva per presentare "Le righe nere della vendetta" quanto ci telefonò in diretta proprio la proprietaria che la gestiva. Tutte le locande e le osterie che  cito nei miei romanzi come Il pavone, dove va spesso Biagio dell'Orso, la Croce Bianca, i Tre scaliniesistono dal quattrocento se non da prima ancora, come possono testimoniare in qualche caso gli affreschi che ancora decorano le loro pareti. A casa ho un ingrandimento di  una pianta di Mantova disegnata all'inizio del XVII secolo, la stendo sul  tavolo della cucina e quando devo  scrivere verifico il percorso che i miei personaggi avrebbero potuto fare all'epoca tra le antiche contrade ed edifici che non esistono più, come purtroppo la spezieria alla Syrena distrutta ad una bomba durante la seconda guerra mondiale.



Grazie per la piacevole intervista e allora non ci resta che attendere l’uscita del quarto romanzo e, per ingannare il tempo e non solo, il mio consiglio, questa volta rivolto a chi legge, è di prendere in mano i precedenti tre per immergersi in un’atmosfera unica e in una lettura particolarmente avvincente.