domenica 8 giugno 2014

I giorni e le strade, di Carla De Angelis



I giorni e le strade
di Carla De Angelis
Prefazione di Stefano Martello
Fara Editore
Poesia
Collana Sia cosa che
Pagg. 70
ISBN 978 88 97441 41 0
Prezzo € 11,50

 Il valore della parola 

L’uomo cominciò a essere cosciente con l’uso della parola, prendeva in mano un sasso e così sapeva a che corrispondeva quella “cosa” magari trovata per terra. E come la realtà all’intorno assumeva i nomi delle sue componenti, i nostri progenitori iniziarono a parlarne. La parola rappresentava quindi la realtà tangibile e solo più avanti nel tempo, con l’avvento della poesia, la parola cominciò ad andare oltre la concretezza che era sotto gli occhi di tutti. Essa, opportunamente congegnata, cominciò a identificare anche ciò che non si vede, ma si percepisce, si avverte, come nel caso delle emozioni. E la scelta della stessa per identificare uno stato d’animo divenne oggetto di ricerca, finendo con l’impreziosire i versi delle poesie.
Un touch e scompare un volto, ove quel touch è certo un tocco, ma non lo è solo per somiglianza di vocaboli, poiché è fortemente d’impatto sotto l’aspetto fonetico; Il poeta sa farsi pastore del destino, ove quel pastore richiama greggi condotte da un uomo, colui che accudisce alle pecore, e nel caso specifico il poeta diventa l’essere che non accetta supinamente il corso delle cose, ma vuole essere libero di scegliere la vita che desidera, divenendo così un pastore, magari illudendosi, del destino che gli è riservato.
Questa ricerca della parola più appropriata è una delle caratteristiche di I giorni e le strade, l’ultima raccolta poetica di Carla De Angelis. 
In effetti il ricorso a termini mirati impreziosisce l’opera, costituendone comunque solo un aspetto sartoriale, per quanto di pregio, mentre invece la presenza pressoché costante della metafora rafforza queste poesie non legate da un tema comune, bensì frutto di occasionali emozioni prontamente salvate, con uno stile senz’altro scarno e non aulico e che solo in questo sembra ripercorrere le vie dell’ermetismo.
No, Carla De Angelis cerca di ritagliarsi un angolo poetico tutto suo, in cui, pur sotto l’influsso di correnti e dello spirito di poeti, per lo più moderni e ormai defunti, scava, come lo scultore nel marmo, un suo personale modo di esporre con cui portare avanti quel messaggio che, consciamente o inconsciamente, di volta in volta frulla all’improvviso nella sua mente, imponendole la necessità di immediatamente fissarlo su un foglio.  
Ed è così che si trovano in questa raccolta liriche messe lì, senza un ordine logico, un flusso di emozioni che è il più disparato (Non ho radici / sosto dove sto bene / rubo all’istante il suo significato /…; Potavo lacrime agli alberi / imparavo a usare  il verbo / delle radici / il pensiero germogliava /…; Il sorriso si arresta sull’orlo della gioia /….).
Per quanto non unite da un unico tema, tuttavia c’è un comune fil rouge, che le caratterizza e che sta evidentemente a cuore all’autore, e questo filo conduttore è la vita, in tutti i suoi aspetti, nelle gioie e nei dolori, una serie di riflessi che, incisi nell’animo, si affacciano allo scoperto quasi con pudore.
Se non c’è un retrogusto di gioia, non ce n’è però uno di malinconia, anzi si evince un certo pragmatismo, che non vuol dire materialità, né accettazione supina, bensì presa di coscienza dei nostri estremi limiti, entro i quali possiamo, nonostante il poco tempo, effettuare una continua ricerca in noi stessi, onde approdare a una conoscenza, e non alla conoscenza, perche di questa ce ne sono tante quanti sono gli uomini. Eppure, benché ci sia chi cerca in questo modo in Italia come all’estero, queste individualità avvicinano anziché allontanare, e concorrono a formare tasselli del grande mosaico del sapere, un’opera che è sempre in progresso e che mai sarà terminata.
Leggete questa raccolta di poesie e cercherete di scoprire gli angoli più reconditi del vostro animo, soffermandovi, di tanto in tanto, sulla valenza delle parole, perché queste non sono solo alcune lettere artatamente combinate, sono invece l’essenza di un concetto.
    
     

Carla De Angelis è nata a Roma nell’ottobre del 1944. Nel 1962 ha pubblicato i primi versi nella rivista internazionale «Pensiero ed Arte» e collaborato all’antologia dedicata a Dante Alighieri nel VII centenario nella nascita. Ha partecipato ad attività artistiche nel sociale, allestito mostre di ceramica in varie librerie di Roma, al Museo del Folklore e alla mostra dei Cento presepi che si svolge a Roma, in Piazza del Popolo, Sala del Bramante. Nel 1995 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro le ha conferito l’onorificenza di “Cavaliere al merito della Repubblica Italiana”. Poesie e racconti sono presenti in diverse antologie edite da Perrone, Estroverso, David & Matthaus, Limina Mentis, Delta 3, Pagine, Aletti che l’ha inserita nel 2009 nell’Antologia dei poeti italiani contemporanei. 
Con Fara ha pubblicato: Salutami il mare (poesie), il libro dialogato con Stefano Martello Diversità apparenti (i due libri sono risultati vincitori e finalisti in vari premi), sillogi nelle antologie Il silenzio della poesia (2007), Poeti profeti (2008) e Chi scrive ha fede? (2013). Sempre con Fara ha curato con Stefano Martello Il resto (parziale) della storia e nel 2010 pubblica la raccolta
poetica A dieci minuti da Urano (anche questi due libri sono risultati vincitori in vari premi). Nel 2011 esce Mi vestirei di mare per i tipi di Progetto Cultura. Nel giugno 2012 ha curato con Brigitte Cordes Corviale cerca Poeti (edizioni youcanprint). Collabora con la Biblioteca “Renato Nicolini” ex Corviale (Roma).


Intervista di Renzo Montagnoli a Carla De Angelis, autrice della raccolta poetica I giorni e le strade, edito da Fara



La poesia ha pochi appassionati, tant’è che molti scrivono in versi, ma pochi sono quelli che li leggono. È un ben triste destino per una forma artistica che è stata la prima, soprattutto quando ancora non esisteva la stampa e l’opera veniva trasmessa oralmente e proprio per questa particolarità doveva avere caratteristiche sue peculiari che ne rendessero possibile la diffusione. Con l’avvento del libro stampato poco a poco ha preso piede la narrativa e oggi è senz’altro preponderante. Ci si chiede allora quale possa essere l’avvenire della poesia e quanto e cosa si debba fare per salvarla.
Lei, che è una poetessa, probabilmente si è già posta una simile domanda e forse ha trovato anche delle risposte. Se è così, mi piacerebbe conoscere la sua opinione in merito.

La natura umana non può prescindere dalla poesia che a mio parere, avrà sempre un posto vitale; per i pochi che leggono? forse non è proprio così, nella Biblioteca, per esempio,  “Renato Nicolini” ex Corviale dove ogni secondo mercoledì del mese si svolge l’evento “Poesia a Corviale” molte persone di qualsiasi età  partecipano con entusiasmo. E’ vero, aspettano di leggere la loro poesia, comunque sono presenze importanti e interessate ad ascoltare. Oggi si scrive molto, c’è un grande bisogno di apparire e anche se si tratta di una vetrina in continuo movimento,  va bene lo stesso perché è importante scrivere il tempo farà la sua distinzione e salverà ciò che vale.
 La poesia ha bisogno di tempo per essere compresa e la velocità della  rete non permette di soffermarsi il tempo necessario per abbracciarla. Il verso libero, va bene, ma non deve mancare la musicalità.
Non so dove va la poesia, questi tempi sono troppo volgari, tempi di sconti e offerte anche per imparare a scrivere, spero si torni al bello, alla poesia che pur trattando temi attuali non sia oscura, perché la bellezza e la limpidezza non sono solo formali hanno sostanza intrinseca che migliora chi scrive e chi legge.

Concordo. Una poesia, anche se a verso libero, è necessario che abbia una sua struttura armonica, perché altrimenti diventa prosa, magari una prosa poetica, ma pur sempre prosa. Personalmente dico sempre che si può nascere poeti, intendendo in tal modo una dote naturale, ma che scrittori di poesie si diventa, in quanto un talento, se non è coltivato, con esercizi e studi approfonditi, rimane sempre tale, ovvero una potenzialità inespressa.
Avevo già notato il suo modo di scrivere poesie in A dieci minuti da Urano, che infatti è stato oggetto di mia recensione più che positiva. Ed è proprio per questo che mi ha incuriosito I giorni e le strade, una raccolta non tematica, frutto probabilmente di poesie scritte in epoche diverse, e tuttavia caratterizzate da una ritmicità, da un’armonia che è possibile cogliere soprattutto leggendole a voce. Sarebbe peraltro ingiusto limitare la valenza solo alla struttura, perché a parte i pensieri di volta in volta esposti presentano sovente delle invenzioni poetiche di quella che si potrebbe definire la capacità di esprimersi in modo inusuale, ma assai piacevole e indubbiamente razionale (Una  vita senza l’oltraggio di una storia / è strada senza impronte /…).
E’ senz’altro vero che la poesia è piacere, ma anche fatica e tenacia. Mi dica, per cortesia, come nascono le sue poesie, si soffermi un attimo e magari si chieda la ragione del suo procedere che non di rado è invece inconscia. Insomma, può sembrare una curiosità, ma non c’è di meglio di sapere da chi le crea come si formino questi gioiellini, come si sviluppa l’idea, come si arrivi a produrre, in veste definitiva, questi versi.

So che può far sorridere , la verità è pur  stando bene insieme agli altri, dialogo molto con me stessa, così accade che un avvenimento, una parola o anche una gita in autobus mi colpisca , e alcuni versi mi girino in testa fino a quando non li ho (a parere mio) perfezionati per scriverli. Poi  per completare la “poesia” il tempo è più lungo; la chiusa invece arriva quasi senza cercarla. Di questo  mi stupisco sempre. Leggo ciò che scrivo a voce alta, non è raro che un testo di molti versi si riduca alla metà. E’ un lavoro di ricerca della parola che mi fa star bene, al quale mi piacerebbe dedicare molto più tempo,  per questo chiamo i miei lavori timidamente “poesia”.
Dopo aver scritto una poesia, la mattina seguente al risveglio ho la stessa sensazione che avevo da bambina quando ricevevo un regalo.

Non so se sia un caso, ma capita così anche a me. Non ricerco mai una poesia, direi anzi che meno si pensa a scrivere qualche cosa, più facilmente viene l’idea, magari anche solo osservando il particolare di un’opera d’arte, o dopo lo svago di una gita. Nella mente frullano pochi versi, anzi in genere solo uno ed è da questo che, messo nero su bianco, seguono gli altri, come se fossero già stampati nella mente. E’ ovvio che quella che appare sul foglio non è la versione definitiva, ma una sorta di brutta copia, su cui di tanto in tanto ritornare per delle modifiche, per dei tagli o delle piccole aggiunte.
Mi scuso per la curiosità, ma mi è sembrato logico conoscere il metodo, se così si può chiamare, con il quale un’altra persona crea e confeziona le sue opere.
E così, se poeti si nasce, scrittori di poesie si diventa, e a ciò contribuisce in modo determinante la lettura e lo studio di poesie di altri autori. Al riguardo ognuno di noi ha i suoi preferiti, spesso per i motivi più vari. Io per esempio stimo molto Giovanni Pascoli, un uomo che alla sua epoca è riuscito a dare un’impronta nuova alla poesia, prima influenzata in modo considerevole da Leopardi; inoltre mi ci ritrovo in non poche tematiche, senza dimenticare la capacità di esprimersi in modo coinvolgente (tanto per fare un esempio, L’aquilone, pur richiamando il tema ricorrente della morte, finisce con l’essere il canto disperato del peso insopportabile della vita, esposto così bene che viene quasi spontaneo dire, a proposito del compagno di collegio morto, era meglio morire da piccoli). Sono sicuro che lei abbia letto tanto e in proposito mi viene un’altra curiosità: qual è l’autore preferito e che più ha contribuito alla sua formazione artistica e per quali motivi?

La poesia è anarchia: E’ libertà individuale./ Le sue leggi non sono quelle (False  e gesuitiche) degli uomini volgari. Un poeta/che va d’accordo con il can-can degli uomini/comuni non è un poeta, è un impostore. (Luigi Bartolini). Ho conosciuto il poeta, pittore e scultore Luigi Bartolini quando avevo già la passione per la lettura e la scrittura, grazie a lui continuai a scrivere e iniziai a pubblicare. Ho sempre presente questi suoi versi come una guida.
Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli erano i miei preferiti. Della poesia che lei ha citato, mi ripetevo ininterrottamente i primi tre versi e l’ultimo; poi la lettura del Fanciullino mi  tranquillizzò e l’amore per la poesia  continuò e continua  a farmi compagnia. Quasi per caso in una libreria sulla via Appia a Roma conobbi i testi di Lalla Romano e i classici latini (ho un diploma di ragioneria). Continuando a leggere, mi chiedevo il perché della poesia così approfondii questa mia curiosità e mi stupirono le ricerche degli psicologi e le considerazioni di  Friedrich Nietzsche sui poeti.
Giacomo Leopardi ha contribuito alla mia formazione e mi sono trovata spesso a essere  bastian contrario, perché affermavo e ne sono tutt’ora convinta che il suo non sia  pessimismo, ma  realtà pura. Non ho un autore preferito, oltre a quelli citati amo Salvatore Quasimodo, Walt Whitman, David Maria Turoldo e altri, molti contemporanei.
Ha ragione lei, c’è un autore preferito, torno sempre a rileggere Giacomo Leopardi. Molte cose che ha scritto si adattano anche a questi tempi!.

Non conosco Bartolini, mentre gli altri sono oggetto di miei studi ricorrenti (di Whitman ho tradotto anche qualche poesia). Mi sembra di comprendere che ami anche i classici latini e al riguardo devo dire che mi sono dimenticato di mettere fra i miei preferiti anche un mio concittadino: Virgilio. Se è più noto per l’Eneide, il Virgilio che amo di più è quello giovanile, con un’opera non commissionata come le Bucoliche, che per me è il suo capolavoro. E poi ha anche poesie singole, splendidamente tradotte da Salvatore Quasimodo. Sì, Leopardi non è un pessimista, ma un realista, visto come sono sempre andate e sempre andranno le cose a questo mondo.
Ma veniamo alla sua raccolta, non tematica e per questo forse più interessante, in quanto svincolata da quei lacci e laccioli che un autore inconsciamente si pone quando vuole appunto svolgere un tema. Di Leopardi c’è qualcosa, non il suo cosiddetto pessimismo, ma una presa di coscienza che la induce a guardare la vita per quel che è, bella nella misura in cui gli altri non ce la rovinano. Direi così che il suo più che un pessimismo è un pragmatismo, cioè il vedere le cose come effettivamente sono e comunque cercare di vivere, perché l’esistenza è un’occasione purtroppo irripetibile. C’è vita e vita, o meglio ci sono tante vite quanti sono gli esseri animati e concorrono a formare la quotidianità, e poi c’è la nostra vita, la mia, la sua. Può sembrare filosofia spiccia, ma credo che anche lei cerchi di considerare l’esistenza come un cerchio chiuso in cui si raccolgono la sua presenza e quella dei suoi familiari più stretti, anche se indubbiamente ciò che accade al di fuori di questa immaginaria circonferenza condiziona il nostro modo procedere e ciò accade in maggior misura per il poeta, la cui accentuata sensibilità gli impedisce di fatto un distacco dai fatti e dagli eventi che, pur non toccandolo direttamente, generano in lui una naturale e comprensibile reazione. Non siamo di legno e per quanto cerchiamo di procedere sordi nel mondo ristretto che ci siamo dati, stragi e disastri che accadono anche in zone così lontane dalla nostra non ci possono lasciare indifferenti. E questo è un dramma da cui spesso finisce per scaturire una poesia, che diventa, oltre che messaggio, sfogo liberatorio, pur restando latente un vago senso di colpa, una malinconia interiore che ravviso in più di una sua poesia, come per esempio in Le stagioni passano, oppure come in Il poeta sa.
E’ d’accordo?

Amo la vita e la gente per quello che mi offre e per quello che riesco a dare. Sono d’accordo con lei i mali del mondo non possono restare fuori la porta e quando mi sento oppressa da notizie come mancanza di cibo, omicidi stragi sento il bisogno di scrivere; riconosco che questo aiuta solo me e solo nel momento in cui scrivo, perché poi l’impossibilità di fare qualcosa di concreto  mi immalinconisce.
La mia raccolta non è tematica raccoglie le emozioni del giorno. Ho cercato la musicalità nel verso; mi  piacerebbe riuscire a scrivere  poesie in rima, credo che  sia come il tocco finale che il ceramista ricerca per dare armonia al suo lavoro.
 Continuo a leggere e a studiare i poeti latini: Virgilio, Catullo e Tito Lucrezio Caro, ma anche  contemporanei.

Scrivere poesie in rima non è certo facile, ma credo che per ottenere musicalità non sia strettamente necessario ricorrere alla metrica classica. In fin dei conti la poesia armoniosa è frutto di un equilibrio strutturale per pervenire al quale non è indispensabile che sia, per esempio, sotto forma di sonetto. A tal riguardo, per quanto generalmente non legga subito le prefazioni nel timore di esserne influenzato, questa volta ho fatto uno strappo alla regola, anche perché l’autore, Stefano Martello, è critico costruttivo e senza eccessi. Dico subito che concordo con quanto ha scritto in ordine al ricorso alla parola. Infatti, parafrasando una pubblicità, si potrebbe dire che basta la parola, quando la stessa riassume con la massima incisività e forza un concetto; non solo questo, però, poiché il termine appropriato può contribuire a creare quell’armonia che deve essere propria della poesia. Tanto per fare un esempio, la poesia di pagina 75 ( Questa borsa è troppo pesante da portare /  occorre una scelta / la capovolgo sul tavolo / conserverò ciò che è importante /…) è sì indubbiamente una metafora di quel momento della vita in cui siamo chiamati a scelte irrevocabili, ma senza il ricorso a una terminologia idonea e ricercata non solo rischierebbe di essere incomprensibile, ma potrebbe scivolare in un discorso prosastico. E una felice scelta è quel portare – verbo all’infinito – che, oltre a evidenziare come l’esistenza sia un fardello, offre dinamicità e continuità al verso.
A questo punto una domanda mi è d’obbligo:  la ricerca della parola avviene in automatico, cioè la stessa già nasce con la poesia, o è frutto di ponderazione successiva, e quindi degli inevitabili ritocchi?

Il mio desiderio di scrivere in rima è una sfida alla ricerca della parola che deve comunque restare legata al significato che intendo dare. Forse è una ricerca legata a una sfida con me stessa, chissà!
Affido volentieri i miei lavori all’occhio critico di Stefano Martello perché non si perde in frasi di circostanza, note critiche, ma va dritto al centro della parola.
Credo di essere fortunata perché le parole quelle, per me, essenziali nascono con la poesia; successivamente rileggo il testo e faccio dei ritocchi fin quando le sento  scorrere una accanto all’altra come in abbraccio di note.
Accade che cambio di posto ai versi e aggiungo o tolgo (questo spesso) tutto quello che è ridondante  o non serve.
E’ strano come i versi nascano  nei momenti più impensati. Tempo fa, molto tempo fa, avevo la certezza che  una parola o una frase   venuta in mente,  avrei potuto richiamarla in qualsiasi momento, e invece no, così ho imparato a scrivere in tutte le circostanze: mentre preparo il pranzo o la cena, al bar ecc. Mi piace scrivere con la penna su carta; solo in macchina sono costretta a fissare sul cell.
Amo la lettura e la scrittura, credo sia quanto di più bello e gratificante la vita mi abbia regalato. La famiglia è comunque sempre al primo posto.
A leggere che quando le viene in mente qualcosa la scrive subito, dove capita, onde non dimenticare l’idea creativa, mi sono ricordato che Ungaretti faceva così e iniziò questo metodo proprio durante la prima guerra mondiale, nel fondo di una trincea, fra un combattimento e l’altro. Sembrerebbe così che questi versi, a volte anche non riletti e non corretti, nella loro spontaneità ed essenzialità abbiano dato vita a quella grande corrente letteraria che risponde al nome di ermetismo. E in effetti, per quanto risulti comprensibile di primo acchito, la sua poesia ha caratteristiche proprie dell’ermetismo, da cui tuttavia si discosta per una innata, o forse voluta, necessità di essere chiara prima per se stessa e poi per gli altri.
Ho rilevato una comunanza di approccio alla scrittura con Stefano Martello, che mi sembra un suo grande estimatore. In effetti, in un’epoca come la nostra, in cui si tende a precorrere il tempo, l’essenzialità e l’incisività sono basilari, né potrebbe aver senso scrivere come D’Annunzio, con tanti svolazzi e voli pindarici. Direi che il poeta contemporaneo è più che un sognatore un pragmatico e tale risulta pure lei, per quanto ogni tanto ci sia il verso frutto di un’invenzione poetica, sfondo tonificante di un discorso più approfondito,  quasi una necessità per indurre il lettore a sostare un po’. Vede, versi come questi, riferiti all’acqua, “ …/che scenda a curare le / ferite come il canto/ del fiume per il mare /…,”costituiscono quello sfondo, di cui ho prima ho scritto, che senza nulla togliere all’idea tematica la rendono assai più gradevole da assimilare. Insomma, non abbiamo degli spot pubblicitari, né dei proclami, ma poesia che va dritta allo scopo senza dimenticarsi che per essere tale deve avere una struttura armonica a cui non poco contribuisce una sensibilità espressiva non fine a se stessa, ed è proprio questo che la rende interessante e gratificante.
Lei cosa ne pensa?

Come ho già detto nel tempo ho capito di non poter richiamare quella frase quando volevo, perché l’emozione dura lo spazio di un istante; sentivo come  inganno lo sforzo di ricordare e scrivere.
Cerco di rendere comprensibile le mie poesie a me e agli altri perché lo ritengo un fatto etico. Cambio di posto alle parole o addirittura a tutto il verso,  in modo che risulti più fluido e acquisti limpidezza e armonia. Quasi mai sostituisco le parole,  non posso fare a meno della fantasia, mi affeziono alle parole che mi rappresentano e su quelle costruisco il resto.
La verità è che ho sempre la testa piena di sogni, poi la realtà personale e del mondo prende il sopravvento e se da un lato ho imparato a vivere con quello che ho, il mondo della  fantasia non mi abbandona mai, scrivo  su due binari che ogni tanto faccio incrociare.

Considerato che pure io mi diletto a scrivere poesie, con il massimo impegno e con risultati che tuttavia non sono in linea con le mie aspettative, spesso mi chiedo se questo stilare versi non sia una facile via per analizzarmi, per scoprire quanto c’è ancora in me che non conosco. In buona sostanza, finisco con il chiedermi perché scrivo poesie e la risposta, o meglio le risposte, che variano di volta in volta, hanno più il sapore di un alibi che di un’effettiva realtà. Capita anche a lei questo e se sì, quale è la risposta più plausibile e logica alla domanda?

Per me scrivere è un impulso al quale non so resistere. Ogni volta la motivazione è diversa, non è sempre tutto amore è anche rabbia, risentimento, pentimento e divertimento. Scrivo perché mi fa stare bene, mi piace la pagina bianca che si riempie delle mie parole, è la stessa sensazione che provavo quando modellavo la creta, non sapevo quello che avrei fatto. Con la scrittura è la stessa cosa non sempre mi fermo quando i sentimenti si fanno più intimi, più forti, vengono fuori senza volerlo, poi mi chiedo: perché condivido sentimenti che sono miei? allora mi assale il timore che chi legge possa capire di me più di quanto io desideri. E’ un rischio che infine  corro volentieri, forse perché la lettura degli altri mi offre  un’altra possibilità per capirmi.
Però insisto la motivazione più vera è che sto bene quando scrivo.

Forse è vero che gli umani si pongono tanti, troppi problemi  e che certe domande possono e forse devono essere superflue; la vita forse sarebbe migliore se ci lasciassimo un po’ andare a quell’atavico istinto che nell’evoluzione della specie è stato invece soffocato.
“Dum loquimur fugerit invidia aetas: carpe diem, quam minimum credula postero” scriveva già Orazio e quel concetto di vivere il presente è rimasto valido e sempre sarà così, ma è anche vero che il poeta è artefice e vittima della sua arte, tanto che finisce con il condizionargli l’esistenza. Al riguardo la sua naturale e accentuata sensibilità lo espone più degli altri alle circostanze del tempo, lo fa di volta in volta sentire parte integrante dell’umanità, oppure in un limbo da cui guardare il mondo e anche se stesso con occhio critico, gli impone di cercare di dare un senso alle cose e così è forse inconsciamente un po’ filosofo.
Quel “carpe diem” lo attrae e lo respinge al tempo stesso, perché chi scrive poesie è un essere senza tempo, in cui presente, passato e futuro si confondono, per lui la parola non è parte di un discorso, ma è il flusso della vita stessa, in un rapporto spesso d’amore, a volte anche d’odio.
Nel suo fondo c’è sempre un velo di malinconia che mitiga l’emozione che lo coglie quando rilegge quel foglio prima bianco e ora ricamato con le parole che in versi sono quasi esplose dal suo intimo all’improvviso ed è solo questo il suo “carpe diem”, quel saper cogliere sensazioni che di volta in volta scopre in sé, quasi un latente istinto a cui è indispensabile dare sfogo.
Di tutte le motivazioni del perché scrivo poesie questa è la più ricorrente, ma non credo che sia personale; in fondo forse è comune, magari aggiunta ad altre. Del resto non mi piacerebbe che il senso della vita fosse limitato a un semplice “carpe diem” e questo senza voler considerare gli altri dall’alto in basso. Se l’esistenza ha un senso, e lo ha, è probabilmente diverso per ognuno di noi. Personalmente sono dell’idea che questo nostro breve cammino dall’alba al tramonto debba essere compiuto assieme in armonia, cercando di conoscere gli altri attraverso una sempre più approfondita conoscenza di noi stessi e in questo la poesia è di grande aiuto.
Per lei, quale è il senso della vita?

Il senso della vita è la vita;  il suo significato si rivela strada facendo; da bambina forse era vitale l’attenzione della mamma, le coccole, il mondo era  circoscritto, via via che il tempo è passato ho preso  coscienza della limitazione dell’ esistenza attraverso la morte, questo è stato il momento della comprensione e valutazione del senso della vita. E’ diventato  importante scrivere, riempire quel tratto tra la vita e la  non vita; riempirlo di parole e di gente, occuparmi di sapere di conoscere non solo quello che accade intorno. Leggere, fare domande, la curiosità è essenziale alla vita.  Mi sento parte di quello che accade, a volte come attore a volte come spettatore, per questo mi piace prendere parte e organizzare eventi, ascoltare  gli altri. Dalla   lettura dei poeti latini  ho imparato che la poesia dà un senso di continuità al tempo che passa; a volte mi sembra che la mia vita sia troppo breve a volte troppo lunga, ho un’attenzione estrema alle parole e a tutto ciò che mi circonda. Mi piace dire la verità, ma non ferire, c’è sempre un modo per dire senza offendere, la lettura di “La persona e il sacro” di Simone Weil ha accentuato la mia riflessione.
Il senso della vita è conoscersi e realizzare quanto più possibile la ragione per cui siamo al mondo, essere in armonia con tutti gli altri essere viventi, nonostante i condizionamenti esterni.

Rilevo con piacere che in ordine al senso della vita siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Il mio timore, tuttavia, è che siamo non in molti a porci questa domanda e a darci una risposta che tenga conto non solo della nostra esistenza, ma anche di quella degli altri. Credo che se tutti procedessero analogamente il mondo risulterebbe senz’altro migliore e invece ogni giorno che passa mi spiace rilevare come imperi il trionfo dell’edonismo, la ricerca a ogni costo del successo e del potere, e questo ovviamente a discapito degli altri. Mi è rimasta in mente una poesia della silloge, Il sonno ( Mi assale spesso senza annuncio / avanza a ritroso / veste abiti antichi collane e pietre preziose / danza intorno a suoni e magiche armonie / nutre abilmente il sogno / mi sottrae al risveglio / Vuole la vita?). Vede mi sembra che il sonno, pura esigenza fisiologica, sia addirittura desiderato come una condizione alternativa e forse migliore del periodo in cui invece si è svegli. Nel sonno più che mai siamo noi stessi, sottratti alle mille influenze della quotidianità, e i sogni, che sempre l’accompagnano, sono un’inconscia riflessione sul nostro “io”. Ma il sonno vuole la vita o il sonno è la vita stessa? E qui mi viene un’opera di Pedro Calderon de la Barca, La vita è sogno, in cui la vita è intesa come un percorso verso l’autentica conoscenza, in pratica una riscoperta in tragedia della teoria della conoscenza, esposta da Platone in Repubblica. Come si vede, porsi effettivamente il problema del senso dell’esistenza è cosa antica e forse e del tutto naturale nell’uomo qualora esso voglia rifuggere dalla sua originaria animalità. Mi scuso per la divagazione e ancora riallacciandomi alla poesia sopra riportata le chiedo un’interpretazione autentica, in pratica il significato del verso di chiusura, quel Vuole la vita?, poiché credo che possa riassumere un suo pensiero fondamentale e generale.

Vuole la vita? Ho terminato con questo verso e ho tenuto per me la risposta, il lettore fornirà la sua personale. Da parte mia ritengo che nel sonno il sogno ci appartenga come vita reale e ci restituisca qualcosa di noi, quel qualcosa che i condizionamenti esterni ci tolgono. E’ difficile sottrarsi alla smania di avere, alle malattie ai dolori nostri e degli altri, all’altalenare di notizia buone e  notizie e cattive che subito prendono il sopravvento.
Amo comunque la vita,  l’amore, il piacere e le soddisfazioni che ognuno di noi trae da quello che fa.
 Vivere  è pagare un biglietto, non so per cosa e perché, sono in una ricerca continua. Vivo il sogno nel sonno come una guida appagante, così  quando la sveglia suona mi girerei volentieri dall’altra parte per continuare a sognare.  

Vivere  è pagare un biglietto”. In un certo senso sì e mi pare sia stato Leonardo Sciascia a scrivere che la morte si sconta vivendo, una frase indubbiamente di effetto, ma anche notevolmente pessimista, al pari di Giovanni Pascoli che, in L’aquilone, lascia chiaramente capire che la morte in giovane età del suo compagno di collegio non è stata in fondo una sfortuna, poiché così non ha dovuto affrontare i dolori di tutta una vita. Benché in più di un individuo sia riscontrabile la fatica di vivere, sta di fatto che tutti, in prossimità della morte, cercando di restare attaccati a quella condizione di cui tanto ci si lamenta, intessuta spesso di delusioni, di insoddisfazioni e anche di dolori, ma capace, a volte, di essere gratificante di gioie, sia pure momentanee e fugaci. Poi è ovvio che ognuno è libero di interpretare come crede quel Vuole la vita?, perché non è così infrequente che lo stesso poeta si meravigli di ciò che ha scritto, frutto di un vero e proprio momento di estasi in cui quell’Io latente è riuscito a emergere.
Ci stiamo avviando alla fine di questa intervista e devo dire che mi spiace, ma d’altra parte le esigenze di Internet, la necessità di avere approcci rapidi e di leggere senza affaticarsi impone di pervenire a una chiusura. Non voglio però che sia brusca, anzi mi piacerebbe che fosse solo una pausa, sia pur non breve, e del resto, come la poesia è in continua evoluzione, così è anche parlarne di essa. Se mi consente, l’ultima domanda, che in fondo si riallaccia alla precedente, concerne una poesia della raccolta: Valico il muro ogni notte / il respiro armonizza con il corpo / che non trattiene nulla / cementa mattoni per / il futuro (o per domani?). Sembrerebbero i versi di un muratore e in effetti ognuno di noi è un muratore che costruisce la propria esistenza, ma non mi è del tutto chiaro cosa sia quel muro, che potrei interpretare come la linea di demarcazione fra realtà e sogno, oppure quella naturale difesa che ci precostituiamo quando siamo e operiamo nel mondo, difesa che con il sonno della notte viene a cadere.
Spererei che fosse in grado di darmi una risposta chiara, che quel muro che io e lei abbiamo cercato d’infrangere in questa discussione non rimanesse invece un ostacolo insuperabile.
E allora mi dica, me ne parli senza remore e laccioli.

La notte, il buio come protezione, così la divisione tra il giorno e la notte è netta; la notte il respiro obbedisce ai bisogni del corpo, segue il ritmo più giusto e si adagia, giusta ricompensa per il giorno trascorso. Il muro che valico è la divisione fra due realtà; al risveglio i mattoni servono a rendere meno profondi gli  avvallamenti sulla strada e a riparare quello che si può.
“Vivere è pagare un biglietto”, lo pago volentieri, perché la conoscenza del mondo, la libertà che sento quando vado in bicicletta o mi lascio nuotare dall’acqua, (è in una poesia) l’amore, sono sensazioni irrinunciabili, per questo scrivevo che i primi tre versi de “L’aquilone” li ripetevo fra me molto spesso, anche l’ultimo, ma questo lo trovavo ingiusto nei confronti del bambino e mi metteva molto ansia.
 C’è il dolore che si insinua sempre anche quando mi sento felice, è come un battito stonato che mi rabbuia e deglutisco per scacciarlo.  So che fa parte del gioco, posso sempre richiamare anche una gioia provata , anche  se solo nel ricordo.
Spero di aver chiarito il mio pensiero, mi mancheranno la sua bella scrittura e i suoi pensieri, mi hanno aiutato e continueranno ad essermi d’aiuto nella comprensione di me, di quello che scrivo che spesso non so nemmeno dove porta.
La ringrazio.

Ringrazio pure io, per l’interessante e piacevole scambio di opinioni.
La saluto con un arrivederci e con l’augurio di successo di questa sua ultima fatica.



Recensione e intervista a cura di Renzo Montagnoli

MondoBlog dellì8 giugno 2014

MondoBlog

Le segnalazioni odierne:

mercoledì 28 maggio 2014

Sentieri di guerra, di Renzo Montagnoli



Foto da web



                                                               
Sentieri di guerra
di Renzo Montagnoli


L'auto si fermò dove terminava la strada militare e iniziava una pietraia scoscesa.
Ne scesero quattro uomini; tre si guardarono all'intorno, mentre il quarto rimase con gli occhi abbassati.
- Signori, siamo arrivati; da qui in avanti vedremo solo trincee, scavate a forza di mani nella roccia carsica, a volte abbastanza profonde, ma altre niente più che dei modesti avvallamenti dove era necessario restare sempre sdraiati. Vi faccio strada.
- Grazie, vada pure avanti lei colonnello; io, il dottore e il mio povero fratello le verremo dietro, ma mi raccomando di procedere piano. Non alza mai gli occhi, ma chissà che con il ricordo di questi luoghi di dolore non possa rinsavire.
Si incamminarono su per l'erta, lungo una traccia di sentiero che procedeva tutto a curve brevi e secche, in un paesaggio quasi lunare e totalmente arido, senza nemmeno il più piccolo filo d'erba.
Arrivarono così a un  rialzo di modesta altezza e dimensione, ma pianeggiante.
- Ecco, vedete dove siamo ora c'era il posto di pronto soccorso, una cosa alla buona, niente più di una baracca, dove il chirurgo e i suoi assistenti prestavano le prime cure; per i feriti lievi non c'era nessun problema, perché bastava un leggero bendaggio e poivenivano rispediti in prima linea. Per gli altri le cose erano diverse: se c'erano speranze di sopravvivenza, venivano un po' rattoppati e successivamente inviati all'ospedale vero e proprio nelle retrovie; se invece erano spacciati, venivano sistemati fuori, distesi sulla barella, insieme agli altri che attendevano la diagnosi del medico, e lì…lì morivano.
- Posso immaginarmi, colonnello, le scene di dolore e di disperazione, a cui avrà forse assistito anche mio  fratello.
- No, signor Fabbri, per quanto si possa sforzare non potrà mai farsi un'idea esatta di quello che era e pure io che combattevo un po' più in là non ho potuto provare l'angoscia della disperazione nell'attesa del verdetto come quando mi ci sono ritrovato con il mio braccio sinistro maciullato, con il sangue che usciva a fiotti dalla ferita e si mischiava a quello degli altri che erano distesi vicino a me. In quei momenti si è fortunati se si è in stato di incoscienza, altrimenti, in mezzo ai pensieri più cupi, si avverte chiaro il gelido respiro della morte, un soffio lieve, ma costante, che passa su quei poveri diavoli per fermarsi sui prescelti.
- Mi vengono i brividi a sentirla dire queste cose e non vorrei mai essere venuto se non fosse per quel tentativo che il Dr. Marra vuol fare per far tornare in sé mio fratello. A proposito, dottore, lei che è esperto e che conosce già il problema per averlo in cura da tanto tempo, si è accorto se ha avuto qualche reazione? 
Il Dr. Marra, luminare di psichiatria dell'Università di Padova, un uomo che aveva evitato la tragedia della guerra perché avanti con gli anni, si limitò a scuotere la testa.
- Andiamo avanti, verso le trincee vere e proprie che disteranno non più di una cinquantina di metri, subito dietro quello sperone roccioso.
Ripresero il cammino e in effetti, dopo nemmeno una decina di minuti, arrivarono a superare il costone di roccia e lì si aprì alla vista uno scenario apocalittico. La guerra era finita da appena un anno e tutto era rimasto come prima, con l'unica differenza che non c'erano soldati, ma i reticolati, in più punti divelti, i cavalli di frisia più avanti se ne stavano ancora là, come un sinistro arredo a dimostrare che i solchi nel terreno erano stati l'opera di centinaia di uomini, che le voragini che si aprivano ovunque erano il risultato dell'impatto dei proiettili d'artiglieria, che le migliaia di bossoli sparsi ovunque costituivano la prova degli altrettanti colpi sparati.
- Queste sono le nostre trincee, poi c'è un tratto semipianeggiante di un centinaio di metri e in fondo ci sono quelle del nemico, talmente vicine dal poter udire a volte il parlottare dei soldati austriaci, ma talmente lontane da raggiungere quando si andava all'attacco che si aveva l'impressione di correre fino in capo al mondo.
Il colonnello si fermò un attimo, guardò meglio il paesaggio come a farsi tornare in mente quel che una volta c'era e ora non esisteva più, poi riprese – Proprio alla vostra destra c'era la compagnia mitragliatrici. Ricorderò sempre quella notte del settembre del1917 quando fu spazzata via in un sol colpo da un proiettile di bombarda: uno solo, senza nessun preavviso, e quelli che stavano là non si risvegliarono più e nemmeno riuscimmo a trovarli. Erano come svaniti nel nulla, scavammo, ma senza risultato: di cinquanta uomini l'unico segno che rimase fu uno scarpone insanguinato. Per ironia della sorte ci fu un superstite, che si era da poco allontanato per raggiungermi al comando, ma che fu ugualmente investito dallo spostamento d'aria, sbattuto di qua e di là, ma senza danni apparentemente gravi: il tenente Mario Fabbri.
Si fermò e guardò l'uomo dagli occhi bassi – Sì, sei stato l'unico superstite, ma da allora non sei più stato tu. Ricordi, Mario?
Non rispose, sempre chiuso in se stesso, ma si poté scorgere chiaramente un battito di ciglia, come se all'improvviso qualche cosa fosse apparso nella sua mente, per poi scomparire pressoché immediatamente.
- Del problema se ne sono subito accorti i medici dell'ospedale militare che l'hanno mandato per le cure del caso alla clinica di Padova, dove appunto lei Dr. Marra l'ha preso in consegna. Non ci sono stati cambiamenti nel suo stato?
- No, mai. Sempre apatico, insensibile al suono delle voci, alle carezze di una mano amica.
Il colonnello si riavviò e, sempre seguito dagli altri, superò la trincea e cominciò a procedere in quella che, in gergo militare, viene chiamata la terra di nessuno.
- La chiamano la terra di nessuno, ma non è così: è la terra dei tanti che l'hanno calpestata, che, dall'una e dall'altra parte, hanno cercato di farla propria, dissodandola con i proiettili di cannone, bagnandola con il loro sangue, seminandola con i loro corpi.
Si gridava “Avanti, Savoia!” e si correva come impazziti, con l'angoscia che ormai aveva vinto ogni umana resistenza e con l'unico scopo di vincere la morte. Qua e là, in questa terra martoriata, affioravano putridi i corpi dei caduti, mani scheletriche uscivano dal suolo quasi a volerci ghermire.
- Mi meraviglio di sentire un militare del suo grado parlare in questo modo e con questi toni.
- Ha ragione, signor Fabbri, perché un soldato di professione deve essere abituato alla guerra e alla morte, ma sotto la divisa c'è sempre un essere umano, con le sue contraddizioni, con le speranze, con le paure, che lo differenziano dalla bestia.
All'improvviso si udì la voce del Dr. Marra – Fermatevi! Mario si è chinato e ha trovato qualche cosa.
Il fratello e il colonnello corsero subito: Mario era in ginocchio, stringeva nella mano qualche cosa e singhiozzava.
- Buon segno - disse il Dr. Marra – Vediamo che cosa ha trovato.
Gli prese la mano e con non poca fatica riuscì ad aprirla, scoprendo una targhetta metallica arrugginita, ma non tanto da non poter leggere quello che vi era impresso:Albert Kaufmann 01256344.
Il colonnello spiegò il significato di quell'oggetto: - E' una piastrina militare di un soldato austriaco; serve a identificare meglio la vittima.
Mario rinserrò il pugno e si asciugò il volto con il bordo della manica, si alzò e sempre a occhi bassi, senza profferir parola, si avviò lunga il percorso donde erano venuti. Superò la trincea, il posto di pronto soccorso, arrivò all'auto e vi salì.
Gli altri, mentre lo seguivano, si interrogavano sul suo comportamento.
Il fratello, in particolare, chiese al Dr. Marra se c'era stato l'auspicato ritorno della coscienza.
- E' troppo presto per dirlo, ma nutro dei dubbi. Almeno avesse parlato, avesse spiegato l'importanza per lui di quella piastrina, si fosse messo a cercare… E invece si è girato ed è quasi corso all'auto. Signor Fabbri, temo che Mario non ritornerà più in sé.
Il colonnello decise di intervenire – Io non mi intendo di queste cose, ma penso che il nostro disgraziato amico abbia ormai lasciato qui da tempo il suo cuore e la sua mente e che quell'oggetto di uno sconosciuto, ma che ha combattuto dove c'era anche lui, rappresenti il legame materiale con questo luogo. Posso sbagliarmi, ma invece è un inizio, è la prova tangibile del ritrovamento della memoria. Certo che lei dottore dovrà lavorare molto e, soprattutto, dovrà esser per lui ciò che da quella notte gli è mancato: la fiducia nel futuro.
- Può essere, colonnello, e se sarà così faremo il possibile per farlo tornare a vivere, lavorando sulla sua memoria e facendogli accettare una realtà che è già passata, un brutto sogno da cui dovremo risvegliarlo.
Arrivarono all'auto e vi salirono, il signor Fabbri e il colonnello davanti, il Dr. Marra dietro accanto a Mario.
L'auto ripartì, sobbalzando sull'acciottolato, in una nube di polvere impalpabile.
Mario, sempre stringendo la piastrina, appoggiò il capo sulla spalla del medico e singhiozzando mormorò – Mai più guerre.
            


Amore lontano, di Sebastiano Vassalli



Amore lontano
di Sebastiano Vassalli
Edizioni Einaudi
Saggistica letteraria
Pagg. 192
ISBN 9788806171322
Prezzo € 16,50


Ti amo, o poesia


"La poesia è vita che rimane impigliata in una trama di parole. Vita che vive al di fuori di un corpo e quindi anche al di fuori del tempo. Vita che si paga con la vita: le storie dei poeti che ho raccontato in questo libro stanno a dimostrarlo."

Che cosa accomuna personaggi come Omero, Qohélet, Virgilio, Jaufré Rudel, Villon, Leopardi, Rimbaud, vissuti in epoche diverse e molto lontane fra di loro?
Li accomuna la poesia, poiché si tratta di sette poeti di cui Sebastiano Vassalli traccia una biografia sostanziale che li coglie soprattutto negli ultimi periodi della loro esistenza, fuochi che si spengono lasciando tuttavia un’indelebile traccia nella letteratura, artisti che per la loro genialità hanno saputo dare all’umanità assai di più di ciò che hanno ricevuto dalla stessa. Sono, a loro modo, dei miti e qualcuno lo è più degli altri, come Omero, di cui abbiano notizie talmente limitate che ci dicono solo che era cieco e che perciò poteva vedere più di ogni altro uomo, grazie alla capacità di andare oltre la realtà tangibile; Virgilio, il più grande poeta latino, stretto negli abiti di artista di stato, visto che sia le Georgiche che l’Eneide gli furono commissionate, libero di scrivere solo in gioventù, quando compose quel sommo capolavoro che sono le Bucoliche;  Rudel, il cavaliere provenzale, che tanto aveva cantato dell’amore lontano; Villon, ladro, scapestrato, irriverente, di cui si perderà ogni traccia con l’esilio; Leopardi, la cui salute tanto influì sulla sua produzione poetica, in un ritratto che ce lo descrive talmente bene che sembra di essere lì con lui, e infine il decadente Rimbaud, sempre controcorrente, compagno per un certo periodo e in tutti i sensi di Verlaine,  che bruciò tutto il suo genio in età giovanile, per poi ritirarsi a fare il mercante e a morire ancora nel fiore degli anni.
Sono sette, se includiamo anche l’ebreo Qohélet, sette, come i magnifici dell’omonimo film, e questi sono veramente magnifici, anzi sono unici e pietre miliari nella storia del genere umano.
Vassalli ama la poesia, la considera come un qualche cosa di immenso a cui tendere senza poterla mai completamente raggiungere, e così essa rappresenta per lui un amore lontano, un sogno che porta al tormento e all’estasi, una condizione che è unica ed è possibile ritrovare solo agli inizi di un forte innamoramento, quando la passione travalica ogni forma di ragionamento.
Con questo libro, parlando di poeti, finisce con l’illuminarci sulla poesia, che cosa essa sia veramente e come possa essere considerata che  più si approssima alla parola di Dio.
Credo che la lettura sia raccomandata anche a chi non si interessa normalmente di poesia, perché il testo, più che di carattere tecnico, è veramente impregnato di un’alta spiritualità.

Sebastiano Vassalli è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata,Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni, Le due chiese e Comprare il sole.


Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 28 maggio 2014

MondoBlog

Le segnalazioni odierne:




mercoledì 21 maggio 2014

Andar per colli, di Renzo Montagnoli

Andar per colli
di Renzo Montagnoli


Quando s’apre la bella stagione e la primavera irradia di luce cristallina tutta la natura sorge spontaneo il desiderio di fare una gita fuori porta. Per i mantovani una meta quasi obbligata, anche per la vicinanza, è costituita dalle colline moreniche del Garda, una serie di rilievi, per lo più modesti, frutto del lavoro di erosione del ghiacciaio che milioni di anni fa occupava quello che attualmente è senza ombra di dubbio uno dei più bei laghi del mondo. L’importante è non avere una meta precisa e procedere sorretti dal piacere di riscoprire il risveglio della natura, di ammirare il nuovo verde che ricopre i declivi, di respirare l’aria fresca, ma pura che scende dal non lontano Monte Baldo. E quindi questo andar per colli diventa il varo di una nuova stagione, l’avvio di un percorso di altre gite sia primaverili che estive. Si può andare in auto, ma anche in bicicletta, benché le distanze e le pendenze, pur non essendo proibitive, richiedano un preventivo allenamento che l’inverno ha di fatto reso impossibile.
Raggiunto Goito, l’ultimo paese in pianura, attraversato dalle acque veloci del Mincio e impreziosito da Villa Giraffa, una delle residenze gonzaghesche, si procede verso Volta Mantovana. Il borgo é incastonato in cima a una collina, a cui si giunge con una comoda strada che tuttavia è caratterizzata da un paio di tornanti. Da lassù la vista sulla fertile pianura mantovana che si va risvegliano dal torpore dell’inverno è di sicuro effetto, ma c’è altro da vedere in questo luogo: il palazzo Gonxaga-Guerrieri, fatto erigere alla metà del XV secolo dal Marchese Ludovico III Gonzaga e l’antico castello, risalente all’XIsecolo, voluto assai probabilmente dalla famosa Matilde di Canossa.
Si procede verso Nord e si arriva a Ca’ Piccard, dove all’incrocio si gira a destra per scendere a Borghetto sul Mincio, il più bel borgo d’Italia, risalendo poi a Valeggio sul Mincio, dove, avendo tempo a disposizione, si può visitare lo splendido Parco Sigurtà. Lasciato alle spalle il Castello Scaligero del XIII secolo, ci si dirige verso Custoza, a cui si arriva attraversando dei vigneti, da cui si ricava il pregiato vino bianco di Custoza. Li è quasi d’obbligo fare una visita all’ossario eretto nel 1879 e che raccoglie le spoglie dei soldati piemontesi e austriaci caduti durante due grandi battaglie: quella del 25 luglio 1848 in cui Radetzky sconfisse l’esercito di Carlo Alberto e quella del 24 giugno 1866 che si concluse ancora con la sconfitta degli italiani guidati dal Generale La Marmora, mentre gli avversari erano condotti dall’arciduca Alberto d’Austria. Fra tutte quelle povere ossa non si può fare a meno di pensare quanto la guerra sia terribile, oltre che inutile.
Poi si torna indietro, fino a Valeggio, per portarsi, con una strada che costeggia il Mincio, a Monzambano, caratterizzato dal bel Castello fatto erigere nell’XI secolo da Matilde di Canossa. Da lì, si piega verso ovest e lungo belle stradine, in continui saliscendi, si entra nel cuore delle colline moreniche. Mete irrinunciabili sono Castellaro Lagusello, uno dei più bei borghi italiani, ma anche altre testimonianze delle nostre guerre di indipendenza, fra le quali San Martino della Battaglia (da visitare la sua celebre torre inaugurata nel 1893 ed eretta in memoria vi Vittorio Emanuele II  e di tutti quelli che hanno combattuto nelle guerre che hanno portato all’unità d’Italia), Cavriana, dal bel castello dell’XI secolo e Solferino, su cui ritengo sia necessario soffermarsi un po’.  Ivi sorge una rocca alta 22 metri, eretta nel 1022 e obiettivo della più importante battaglia della II Guerra d’Indipendenza. Il 24 giugno 1959, infatti, sulle colline di Solferino i franco-piemontesi si scontrarono con gli austriaci, in tutto 230.000 uomini; il combattimento si concluse con la vittoria dei primi, ma con perdite enormi, superiori a quelle della ben più nota battaglia di Waterloo.  Al termine di 14 ore di scontro rimasero a terra, cadaveri, ben 29.000 soldati. Se questa battaglia significò di fatto la fine della II Guerra d’indipendenza, con l’annessione al Piemonte della Lombardia, ad eccezione di Mantova, fu anche l’occasione per un altro evento straordinario: la nascita della Croce Rossa. Infatti, era presente lo svizzero Henry Dunant, che lì accorse richiamato dalle voci della carneficina; nell’organizzare un minimo di soccorsi alle migliaia di feriti gli venne l’idea di fondare questa meritoria istituzione, tesa a soccorrere tutti, indipendentemente dalla divisa. A Dunant nel 1901 fu conferito il Nobel per la pace.
Siamo al termine di questo viaggio storico-geografico, un itinerario fra i più  belli nell’Italia settentrionale, su queste colline un tempo insanguinate e su cui ora si sviluppano vigneti che danno vini di elevata qualità, fra i migliori al mondo, bianchi, rossi e rosati, fermi e mossi, in una varietà notevole, pur a fronte di produzioni di modeste quantità.
Qui, dove si avviò l’unità d’Italia e tanti giovani conclusero sanguinosamente la loro esistenza, si compie di fatto un vero pellegrinaggio, un ritorno al passato che testimonia le origini del nostro presente.   Vorrei ricordare questi caduti e queste colline con una mia poesia, che credo possa concludere nel migliore dei modi questo articolo.

Colline risorgimentali

Qui, colline ridenti dai ricchi vigneti,
campi ordinati di bionde messi,
l’aria del lago a mitigare l’arsura estiva,
a lenire il freddo nebbioso dell’inverno.

In altri tempi clamori d’arme,
cozzi di cavalli nell’impeto dello scontro,
sudore misto a sangue profuso a volontà,
in nome di un’Italia che ora queta riposa.

San Martino, Solferino, Custoza,
nomi che s’imparano a scuola,
ricordi di risorgimentali battaglie,
francesi, austriaci e piemontesi
a scannarsi per l’altrui gloria.

Il rosso dei campi è ora solo quello dei papaveri,
gli unici suoni sono quelli dei trattori,
o le voci di teneri innamorati
che camminano pensando solo al futuro,
senza memoria di un passato lontano,
di un tempo finito.

Maestose steli sui colli ricordano
morti senza nome,
ossa senza nazionalità,
poveri teschi dalle occhiaie vuote,
un monito per chi ancora non sa vedere
l’inutilità e la bestialità di una guerra.

E nelle notti d’estate la brezza del Garda
sembra portare voci sommesse di un coro,
un sussurro,
un anelito di vita,
il rimpianto di chi qui ha lasciato
per sempre la speranza nel futuro.









Le foto di questo articolo, tutte reperite su Internet,
sono relative alle località visitate e per la precisione,
nell’ordine dall’alto in basso, Goito, Volta Mantovana,
Custoza, Monzambano, San Martino della Battaglia,
Cavriana e Solferino.


La mia casa, di Gabriele Oselini



La mia casa
di Gabriele Oselini
Prefazione di Gino Ruozzi
Fara Editore
Poesia
Collana Sia cosa che
Pagg. 64
ISBN 978 88 97441 43 4
Prezzo € 11,00


Amarcord


Di Gabriele Oselini avevo già letto Piove, una silloge che mi aveva positivamente impressionato per il languore che lentamente mi avvolgeva nello scorrere quei versi che così efficacemente descrivevano un paesaggio, quello padano, da cui, pur essendo abituato, mi è ancor oggi impossibile non restare attratto.
Questa nuova raccolta, dall’emblematico titolo La mia casa, mi fa sprofondare nell’essenza di una natura e di un modo di vita che va scomparendo, in una sorta di Amarcord che dolce scende dal cervello al cuore. Più che una riscoperta, più che una poesia del ricordo, mi sembra di essere presente al canto di una civiltà che mi ha cullato e che ora vuole abbandonarmi, anche se non è così, perché l’abbandono è solo, pur inconsciamente nostro.
Sono visioni che si ripetono di una tradizione agreste, di un’epoca in cui la famiglia aveva un diverso significato, in cui le ricorrenze assumevano quasi una sacralità che assai presto non potremo che rimpiangere (  da Gnolini: sulla bianca tovaglia / in fila / sinfonia / di forme rotonde / giallo caldo / pieno /…). Sembra di vedere questi agnolotti appena creati dalle abili mani della massaia, ben allineati, in modo da non incollarsi, dalle forme, dal colore e dal profumo invitante, in tacita attesa del brodo in cui andranno a cuocere per la delizia del palato.
Ma é tutta un’atmosfera che si viene a ricreare, quella di un mondo che assai probabilmente i prossimi nati non conosceranno, mentre gli altri, quelli già con un po’ di anni sulle spalle, hanno inconsciamente disconosciuto, schiavi dell’avidità per un denaro che non basta mai e continuamente desiderosi di un effimero nuovo (da Donna dei ricami: quale sia / il tuo pensiero / seduta / sulla sedia di paglia /vicino ai girasoli / assetati d’agosto / non so / donna dei ricami /…). È un’immagine ieratica, di un tempo lento, mai fuggente, una perfetta integrazione di un essere umano con la natura, una visione che ormai non è che un ricordo.
Mi permetto di evidenziare come questi versi non siano aulici, ma nello loro scarna brevità riescono a coinvolgere il lettore, immergendolo in un’atmosfera accogliente e rarefatta. Il prefatore addirittura fa un richiamo a Ungaretti per questa concreta capacità espressiva, non disconoscendo tuttavia che un po’ d’influsso del Pascoli è presente, e in effetti è così. L’abilità di Oselini è stata quella di amalgamare in pressoché perfetto equilibrio la capacità di sintesi del padre dell’ermetismo con la malinconica dolcezza del decadente Giovanni Pascoli, e questo è indubbiamente un merito e fa di questa raccolta un qualche cosa di nuovo nel panorama letterario italiano, ed é quindi anche per questo meritevole della massima considerazione. E’ inutile che dica che in questo mondo mi piace ritrovarmi, amo riassaporare i gusti di un tempo che è stato, riandare a semplicità di vita ormai sconosciute, e in questo avverto anche lo spirito di un grande poeta, per non dire grandissimo, mantovano come il sottoscritto e come l’autore, quel Publio Virgilio Marone che nelle sue esemplari Bucoliche seppe così bene parlarci di una realtà, in cui uomo e natura si integravano alla perfezione, ideale e perfetto rifugio dagli sconvolgimenti, anche drammatici, di cui gli umili, unici autentici validi rappresentanti del genere umano, sono spesso vittime incolpevoli.
E La mia casa, che dona il titolo all’intera raccolta, bene rappresenta, nel suo esemplare equilibrio formale, fatti ormai irripetibili (…/ e cancelli aperti / su filari / di mele cotogne / pesche / e ciliegie / per il rito / sacro a mia madre / della mostarda / di Natale).
La mia casa è una gran bella raccolta, di rara elevata qualità.    

Nato a Viadana in Provincia di Mantova il 19 settembre 1953 ed ivi residente, Gabriele Oselini  si è laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Parma. Negli anni ’70 ha conosciuto Daniele Ponchiroli, viadanese, caporedattore della casa editrice Einaudi, dal quale ha avuto stimoli importanti e utili alla propria formazione culturale e umana e col quale ha intessuto un rapporto di profonda amicizia. È insegnante di Italiano e Storia presso l’Istituto Tecnico Scientifico “Ettore Sanfelice” di Viadana. Sposato con due figlie, impegnato in politica, ha ricoperto per anni l’incarico di Assessore alla Cultura, Pubblica Istruzione e Politiche giovanili del suo Comune. È appassionato di letteratura e di poesia, con particolare attenzione per quella
latinoamericana del Novecento. Ha partecipato a diversi concorsi locali e nazionali: è stato segnalato alla III edizione del concorso “Pubblica con noi” di 
Fara Editore, con cui ha pubblicato nel 2005 una selezione di poesie all’interno di Abtologia Pubblica  e, successivamente, le sillogi Specchio (2006),Finito (2008) e Piove (2011). Ha collaborato con Fuoco fuochino (la casa editrice più povera del mondo) diretta da Afro Somenzari.

Recensione di Renzo Montagnoli



MondoBlog del 21 maggio 2014

MondoBlog

Le segnalazioni odierne: