martedì 4 febbraio 2014

L'americano, di Renzo Montagnoli



L’americano
di Renzo Montagnoli



Così all’improvviso come se ne era andato, altrettanto inaspettatamente Cosimo Gasparini riapparve in paese, uno dei primi giorni di agosto del 1950, dopo ben 15 anni di assenza.
Scese dall’autobus, ritirò dal bagagliaio la valigia e si guardò intorno: nulla sembrava cambiato. Stava respirando a pieni polmoni l’aria umida, olezzante del putridume del vicino fiume quasi in secca, quando un’esclamazione lo fece trasalire.
- Ma sì, sei proprio tu, Cosimo! E’ ritornato, gente, è ritornato! 
Si volse a guardare chi lo chiamava e vide un uomo in tuta da meccanico, sulla porta di un’officina da fabbro, che gli si faceva incontro. Gli sembrò che il viso non gli fosse nuovo, ma c’era qualche cosa che non quadrava in quel volto, che un tempo doveva essergli stato familiare: una benda nera infatti copriva l’occhio sinistro.
- Non mi riconosci, cavolo. Non vedi che sono io, il Guercio.
- Il Guercio?
- Ah sì, è vero che tu mi puoi ricordare con tutti e due gli occhi; uno l’ho perso quandonon c’eri ed è stato in guerra. Però non puoi esserti dimenticato delle nuotate che facevamo nel Po, io nudo e tu pudico con le mutande tutte scucite.
Cosimo si portò la mano alla fronte, fissò il suo interlocutore ed esplose:
 – Ma certo! E quando andavamo a rane di notte con la lampada ad acetilene e tu riempivi il sacco e poi ti divertivi a guardare quelle che cercavano di saltar fuori? Sì, ti riconosco, sei il mio vecchio amico Annibale!
- Sei vestito come un damerino, da gran signore.  Hai fatto fortuna via e io ci avrei scommesso perché, anche se non hai studiato, hai sempre avuto una mente sveglia. Senti, facciamo un salto all’osteria, che lì troviamo senz’altro qualcun altro che ti conosce, e poi, detto fra noi, questo caldo, la polvere di ferro e l’urlata mi hanno fatto venir sete.
Nell’osteria erano in pochi ma, come si suol dire, di quelli buoni, cioè tutta gente che era in paese da una vita e che, avendo già udito l’urlata del Guercio, non poteva che riconoscere subito in quel signore elegante il Cosimo di tanti anni prima.
- Offro da bere a tutti, così da brindare al mio ritorno.
Inutile dire che questa frase fu accolta con tripudio e tutti gli si fecero intorno a chiedergli dove fosse stato, che cosa avesse fatto, se fosse sposato o avesse figli, una domanda dietro l’altra che non lasciava spazio alle risposte.
- Sono stato all’estero, perché in paese ero stufo di far la fame e di dover inghiottire anche l’olio di ricino dei fascisti; dove ero non c’era l’olio di ricino e non c’era la fame, tanto che come vedete ho messo su un po’ di pancia.
Il Carruba, l’oste, anche per ingraziarsi l’uomo, esclamò:
- L’America è l’America, e là chi vuol darsi da fare diventa un uomo di successo!                      
La frase non piacque per nulla al Guercio, che nell’America vedeva il principale nemico del proletariato, ma, pur rabbuiandosi, preferì non replicare e anzi intervenne:
 – Scusa Cosimo, come sai in paese ognuno ha un nomignolo: tu sarai l’Americano.
L’interessato sembrò voler puntualizzare qualche cosa, ma poi preferì desistere, spiegando solo che non era ritornato definitivamente, ma per un periodo di ferie di un mese, anche troppo per i pressanti affari che imponevano la sua presenza in ditta.
E che fosse arricchito lo dimostrò anche nei giorni successivi, con altre offerte di bevute, con la promessa che l’anno dopo sarebbe ritornato con un’automobile.
A chi gli chiedeva di che si occupasse rispondeva laconicamente, come uno che preferisse non parlare di lavoro durante le ferie, dicendo che lavorava nel mondo della finanza.
Dato che in paese non c’erano alberghi, si era offerto di ospitarlo a casa sua proprio il Guercio, ma lui aveva rifiutato, ringraziandolo, e aveva preferito stare dall’Annina, la bidella, che, per arrotondare il bilancio, era usa affittare una stanza della sua abitazione.
La circostanza non passò inosservata al Guercio che ricordava ancora il debole che Cosimo, anni prima, aveva avuto per questa donna, rimasta ora sola con un figlio, dopo che il marito, partigiano, era stato ammazzato dai tedeschi.
In paese, tuttavia, più d’uno era a conoscenza di questa lontana simpatia e in breve cominciarono a essere ricamate le chiacchiere.
Anche il Guercio decise di prendersi un po’ di ferie e di trascorrere del tempo, nonostante gli impegni di partito, con il caro vecchio amico Cosimo.
La mattina presto, spesso i due si trovavano davanti l’osteria, con canne e lenze, e andavano a pescare lungo i numerosi canali di bonifica del circondario.
La pesca però era un pretesto per rivisitare insieme i luoghi della giovinezza e per discutere.
- Quella là in fondo mi sembra la vigna del Tula; quanti bicchieri di quello buono ci siamo fatti con lui. Un grande affarista, però un compagno di bisboccia ineguagliabile. Parlami di lui, di cosa ha fatto in tutti questi anni e se  è cambiato.
- Per lui gli affari sono sempre stati il vero senso della vita e durante la guerra ne ha fatti ancora di più; poi, dopo l’8 settembre del ‘43, ha fiutato il cambio del vento, ma dato che non c’erano certezze è stato contemporaneamente con i piedi in entrambe le parti. Gli ho detto più volte che era un gioco pericoloso, una volta aiutare i partigiani e l’altra i repubblichini, ma non mi ha voluto ascoltare e alla fine qualcuno si è stufato. Una notte le camicie nere hanno bussato alla sua porta, l’hanno caricato su un autocarro e il giorno dopo l’abbiamo trovato sull’argine del Po coperto dalle mosche.
- E don Zeffirino, il parroco, che ha fatto durante la guerra?
- Ha fatto il prete e l’ha fatto bene: né con l’uno, né con l’altro, ma ha usato per entrambi la stessa misericordia. Forse può apparire sbagliato, ma io lo rispetto: fossero come lui tutti gli altri preti!
- E questa tua passione per la politica?               
- Arriva un giorno in cui devi fare una scelta, giusta o sbagliata che sia, purché in buona fede: con l’arrivo dei tedeschi sono andato alla macchia e sono entrato nelle formazioni garibaldine; qualcun altro è andato con i repubblichini, molti per sete di potere e di guadagno, qualcuno perché credeva in quello che faceva e, fascista o no, questi ha tutto il mio rispetto. Finita la guerra, l’esperienza partigiana, che mi aveva insegnato a fare delle scelte, mi ha imposto di trovare un’idea che cambiasse questo mondo, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Mi è sembrato che l’unica via fosse il partito comunista e vi ho aderito con entusiasmo, un entusiasmo che non si smorza mai di fronte anche a certe voci che vengono dall’Unione Sovietica.
Rimase un attimo assorto, come in imbarazzo, e proseguì:
 - Sì, perché io credo a queste voci; là dove l’idea è sostituita dalla politica i sogni si infrangono, ma non i miei, segretario locale di un gruppo di cenciosi che sperano che qualcosa cambi e che danno tutto perché ciò avvenga.
- Lo sai che io sono un apolitico; eppure, questo non è bastato per sfuggire alle bastonature e all’olio di ricino dei fascisti, e questo solo perché osavo parlare, dire ciò che non andava.
Un’altra volta andarono in barca sul Po che, benché molto ridimensionato dalla magra estiva, restava tuttavia un fiume maestoso, non ancora ridotto a una cloaca come invece sarebbe avvenuto di lì a non molti anni.
Il Guercio, in piedi, remava e Cosimo stava seduto a prua, immergendo le mani nell’acqua.
Ogni tanto dalle rive si alzavano in volo gli aironi cinerini, rispecchiandosi nell’acqua lenta.
Cosimo li guardava, inebriandosi di quella natura, anche lei sempre uguale, se pur diversa.
- Sai Annibale…
- Chiamami Guercio.
- Non ci riesco, mi sembra di offenderti; mi vuoi dire com’è successo, insomma come in guerra hai perso l’occhio?
- Un’altra volta; è una storia lunga.
- Va bene e allora parliamo d’altro. Che fine ha fatto Luigi Marchetti?
- Disperso in Russia.
- E suo fratello Aldo?
- Imboscato, sempre insieme ai fascisti, solo per opportunità; alla fine della guerra è sparito, tanto che pensavamo che fosse scappato in Sudamerica.
- E invece?
- E invece ce lo siamo ritrovati in Parlamento con i democristiani; in primavera è tornato al paese per una visita ufficiale. Era il 25 aprile e ha commemorato la Liberazione; ha parlato, ma che dico, ha dato a tutti un lezione di antifascismo, tanto che quasi quasi mi ha fatto diventare simpatici i fascisti.
Si ammutolì, guardò l’acqua increspata, il solco aperto dalla  prua  che subito si richiudeva dopo la poppa.
- Cosimo, finita la guerra, ma non so se ci crederai, tanto sembra impossibile, non c’erano più fascisti; tutti, dico tutti, dal podestà al Ludron, lo sporco usuraio, erano diventati antifascisti e noi che avevamo rischiato la pelle alla macchia ci siamo trovati fianco a fianco con chi avevamo combattuto.
Passi per il medico condotto, il Dr. Chesi, un fascista che non avrebbe fatto male a una mosca, ma anche quel bastonatore di Guerra era finito con il passare con i partigiani negli ultimi giorni di guerra.
- E come avete potuto sopportare una cosa simile?
- Ordini superiori dei politici, di qualsiasi colore: la parola d’ordine è stata la riappacificazione nazionale, come se la Resistenza fosse stata una schermaglia di parole, e non una lunga serie di  battaglie, di morti, di torture.    
Anche il giorno prima del Ferragosto, i due si trovarono per una battuta di pesca e il Guercio, mentre appoggiati a un salice guardavano le lenze flosce sull’acqua, colse l’occasione per togliersi un sassolino dalla scarpa.
- Come va con l’Annina?
- Bene, è una gran brava donna, così com’è, da sola, a mandare avanti la baracca.
- Non evitare la risposta alla domanda; ricordo bene la simpatia che avevi per lei che, del resto, tutti in paese sanno.
- Non ci crederai, ma non l’ho nemmeno sfiorata; è ancor più bella di allora, ha messo su un po’ più di carne e anche il seno ci ha guadagnato. Però, mi sono accorto che io per lei, come allora, non rappresento nulla e mai lo rappresenterò.
 E’ ancora innamorata di suo marito e questo amore lo riversa tutto sul figlio: è un piacere vedere la tenerezza di una madre, quando gli accarezza i capelli, quando lo lava. No, per me non c’è posto nel suo cuore.
- Dici la verità?  
- Sì, Annibale, e perché dovrei dirti il contrario? Siamo entrambi liberi, io e lei, e nulla vieta che possiamo vivere insieme, tranne la mancanza di un amore reciproco. Lei mi ha detto che l’hai aiutata molto, soprattutto appena finita la guerra, quando stava in città e non aveva di che vivere…
Il Guercio quasi arrossì e troncò il tutto con un secco:
 – Sciocchezze, cose da niente.
Verso sera, sulla via del ritorno, decisero di passare a trovare un comune amico, che aveva casa in golena. Non fu una decisione saggia, perché l’uomo, compagno di tante avventure di gioventù, non disse parola quando li vide, anzi rimase assorto, con occhi vuoti, a fissare il tramonto.
Una vecchia correva all’intorno a raccogliere le galline, imitandone il verso con suoni sgraziati.
La luce bassa del sole, quell’uomo dallo sguardo assente e la donna che s’affannava intorno al pollaio sembravano fuori ruolo nel panorama del fiume su cui i pioppi della riva protendevano una lunga fila di ombre
Si allontanarono alla svelta e Cosimo non poté fare a meno di chiedere al Guercio una spiegazione per quel comportamento.
- Caro mio, la guerra è una gran brutta cosa; lui era in marina e quando la sua nave fu affondata fu l’unico superstite di tutto l’equipaggio. Lo raccolsero in mare dopo ben dieci giorni, più morto che vivo, ma riuscirono a salvarlo. Purtroppo da allora non c’è più con la testa; come hai potuto vedere vive con la vecchia madre, perché la moglie, poveraccia, è scappata via con un tedesco alla fine della guerra.
Passò il Ferragosto e si avvicinava sempre di più il giorno in cui l’Americano sarebbe ritornato da dove era venuto.      
Una sera, mentre passeggiavano sull’argine, smanacciando per le troppe zanzare, Cosimo, quasi fra sé e sé, mormorò:
 – In questi giorni ho osservato tanto e nulla è cambiato: le stesse abitudini, la medesima atmosfera di allora. Eppure, tutto mi sembra diverso, come un’immagine sfocata; forse, sono io che sono cambiato, che non riesco più a ritrovarmi nel mio paese.
- E dai, Cosimo, non fare il piagnone: è la malinconia per il giorno che si avvicina.
- No, è la certezza di un passato che non ritornerà.
- Senti, cambiamo argomento; dimmi un po’ da dove vieni e che cosa fai.
Cosimo si fermò, guardò l’amico negli occhi, si lasciò sfuggire un sospiro, poi si decise a parlare.
- Mi hai chiamato l’Americano, ma chi mai l’ha vista l’America?
Quando ho lasciato il paese sono andato in Francia da mio cugino e là ho lavorato per un paio d’anni nelle vigne di un conte, con una paga da fame simile a quella che prendevo qua; allora sono scappato in Belgio a lavorare in miniera e quando ci sono state le prime avvisaglie della guerra sono emigrato nuovamente.
- Magari hai pensato di andare in America?
- Macché; volevo andare in un posto che non c’entrasse con le guerre e già allora si sapeva che l’intervento americano era solo una questione di tempo… Ho sempre odiato la guerra, quell’atmosfera greve che accompagna la gente, quell’angoscia che corrode l’animo giorno dopo giorno.
- E allora?
- Allora sono andato in Svizzera, a Zurigo; ho fatto lo sguattero, lo spaccalegna e infine mi sono trovato con altri tre italiani, poveracci come me; abbiamo fatto una piccola società, un’impresa di pulizie di uffici e lavoriamo per alcune banche di quella città.
Il Guercio si lasciò sfuggire una risata, scusandosene immediatamente.
- E pensare che tutti sono convinti che tu lavori nella finanza! Beh, in un certo senso, sì.
- Caro Annibale, è un lavoro duro e in tutti questi anni ho risparmiato centesimo su centesimo per mettere da parte un gruzzoletto che mi possa permettere di vivere dignitosamente al mio paese; però, prima, e anche perché la somma non è ancora sufficiente, ho voluto vedere se è ancora il mio paese.
- E lo è?
- Non lo so, ma spero di sì.
Un giorno che stavano facendo un giro in bicicletta, su una strada polverosa e tutte buche, Cosimo si rivolse all’amico.
- Mi devi togliere una curiosità: perché a volte usi la benda e altre hai l’occhio di vetro?
- La benda è per l’officina, perché non entri la polvere di ferro; l’occhio di vetro, che fra l’altro non riesco mai a fissare bene, è per tutte le altre volte, compreso quelle in cui faccio all’amore, perché mia moglie dice che si impressiona a vedere l’occhiaia vuota e va a finire che si blocca sul più bello.
- Già che ci sono, ricordo l’Annibale dei miei tempi ,,,, gran bestemmiatore, e che parlava come un bifolco; adesso sei diverso, sembri quasi uno che ha studiato.
Il Guercio fece una risatina:
 – E’ vero, ma tutto questo è merito di Trepassi, un vecchio che non puoi aver conosciuto perché è ritornato dall’estero, dove lavorava, quando tu eri già andato via. Lui mi ha insegnato più di ogni maestro e di ogni commissario politico. E’ un anarchico, un uomo libero da tutto e da tutti e, prima o poi, se capiterà l’occasione, te lo faccio conoscere. 
- Certo che per noi è stata la vita la nostra scuola.
- E che scuola!
- Ricordi la prima volta che siamo andati al casino?
- E come no.
- Ci sembrava di compiere un’impresa, pensavamo a chissà quali follie e poi per la tensione e l’emozione tu hai fatto cilecca.
Il Guercio esplose in una risata sguaiata:
 – Pensa che credevo di essere un finocchio!
- Sì, è vero, mi ricordo bene che ti ho detto anche che avremmo ritentato un’altra volta.
- Ma non c’è stata un’altra volta, almeno con le puttane. In verità ho imparato il vero significato della parola amore solo con mia moglie. E tu, ce l’hai una donna?
- No, ci potrebbe essere, l’ho sempre amata, ma per lei, come sai, sono poco più che un amico.
- Non disperare. Chissà che con il tempo l’Annina non ci ripensi; ne sarei felice per entrambi.
Cosimo non rispose, anzi si mise a spingere con più forza sui pedali, gridando:
 – Facciamo a chi arriva primo alla casa cantoniera?
  
A fine agosto partì, con la promessa che sarebbe ritornato.
       
Passarono alcuni anni senza che se ne avessero più notizie e ormai quasi tutti lo avevano dimenticato quando un giorno il sindaco chiamò il Guercio; gli comunicò, imbarazzato, che dal Municipio di Zurigo gli avevano scritto che il Sig. Cosimo Gasparini era morto e che la salma sarebbe ritornata il giorno dopo con il treno delle 15; gli consegnò una lettera indirizzata all’Annina e, a parte, un assegno di 5.000 Franchi svizzeri con un'altra lettera, questa volta indirizzata al Sig. Annibale Chiocchetti.
Strinse la mano al Guercio e gli porse le condoglianze.
- So che eravate molto amici; non ho parole.
Il Guercio rientrò alla svelta all’officina, si chiuse nel suo ufficetto e aprì la busta destinata a lui.
Gli tremavano le mani e appena cominciò a leggere gli si inumidirono gli occhi.
Caro Annibale,
prima di tutto ti chiedo di spendere bene i 5.000 franchi svizzeri dell’assegno; è un piacere grosso quello che ti chiedo, ma sarebbe un mio grande desiderio se tu con il denaro provvedessi ai bisogni più urgenti di Annina e suo figlio, cercando di farlo studiare, in modo che abbia un avvenire. Annina però non lo deve sapere; mi raccomando di non dirle nulla.
Per le spese del funerale ho già provveduto in Svizzera e mi basta una semplice sepoltura in terra e una croce.
E’ bello il nostro paese e spero che resti tale.
Il Guercio si asciugò l’occhio con la manica della tuta e si strinse forte la fronte con la mano.
Speravo di tornare in un altro modo, ma si vede che non ero destinato; ho avuto una vita difficile, senza affetti, ma quel mese che ho passato da voi è stato il più bel regalo che potessi avere, più di ogni fortuna in denaro, più di ogni successo.
Un caro abbraccio
Cosimo
E il Guercio, che pur in vita sua ne aveva viste e provate tante, si mise a singhiozzare come un bimbo, poi si asciugò e fu preso dall’irrefrenabile curiosità di leggere la lettera indirizzata all’Annina. Con pazienza certosina scollò la chiusura, prese il foglio  e lesse.
Grazie di tutto.
Cosimo   
Solo quelle tre parole e la firma; si fermò un attimo a pensare e alla fine si rese conto di aver capito come in così poco Cosimo avesse detto così tanto.
Il giorno dopo tutto il paese partecipò ai funerali, e più d’uno che non sapeva - perché il Guercio non disse mai nulla in proposito - ebbe a commentare che l’Americano, se aveva avuto fortuna negli affari, non ne aveva avuta altrettanta nella vita.

Da Storie di paese


     
     
     

      





                                                                


La catastròfa, di Paolo Di Stefano



La catastròfa
Marcinelle 8 agosto 1956
di Paolo Di Stefano
Sellerio editore Palermo
Narrativa romanzo
Collana La memoria
Pagg. 249
ISBN 9788838925511
Prezzo € 13,00



Una tragedia da non dimenticare



«Ma alla fine abbiamo mandato giù papà al cimitero, mentre noi abbiamo rimasto qui in Belgio e non ce l'ho mai domandato alla mamma, che ora ha novantasei anni, perché ha voluto prendere questa decisione di non muoversi più dal Belgio».

È l’8 agosto 1956 a Marcinelle, nei pressi di Charleroi, il turno di giorno è da poco iniziato alla miniera di carbone del Bois du Cazier; in profondità c’è poca luce che stranamente invece non manca in superficie, perché la giornata non è, come quasi sempre, grigia, ma c’è un bel cielo azzurro. All’improvviso dense volute di fumo si sprigionano all’uscita del pozzo numero 1: è da poco iniziato un disastro che condurrà alla morte 262 dei 274 uomini impegnati al lavoro e di questi 262 ben 136 sono immigrati italiani. È lacatastròfa, una parola metà dialetto e metà francese, con cui verrà ricordata questa tragedia e di essa parla Paolo Di Stefano in questo libro, frutto di ricerche, di interviste ad alcuni dei pochi superstiti e ai familiari delle vittime, un coro di voci che, se non reclama più giustizia, però si leva affinché non si dimentichi, non cada nell’oblio, come del resto stava accadendo, a tanti altri fatti luttuosi accaduti e che hanno riguardato nostri connazionali all’estero e in patria.  
Non dimentichiamo questi poveri emigranti, partiti dai loro paesi dove facevano la fame, per avere un futuro meno nero e che invece non ebbero futuro.
Fra l’altro, non andarono all’avventura, ma in base a un accordo italo-belga che prevedeva l’invio di lavoratori in cambio di carbone, di braccia, di cui il Belgio aveva disperatamente bisogno,  contro una fonte di energia indispensabile a un‘Italia che cercava di risorgere dalle rovine della guerra.
Come sempre accade in caso di disastri in ambienti di lavoro le cause non furono mai esattamente determinate, anzi quasi tutto venne messo a tacere, con un processo farsa che punì, moderatamente, forse il meno colpevole. Sta di fatto che, indipendentemente da chi e come provocò l’incidente, questo avvenne in una miniera vecchia, dotata di scarse misure di sicurezza, e per di più ci fu anche disorganizzazione nei soccorsi, insomma un insieme di concause che si tradusse in una vera e propria strage. Le interviste sono state semplicemente trascritte da Di Stefano, salvo una sua breve introduzione, e nel loro italiano scorretto e stentato hanno la forza della verità, trasmettono al lettore un senso di dolore che a distanza di tanti anni non si è placato. Sono donne ormai anziane, quelle stesse che hanno affollato per giorni e giorni l’area antistante la miniera, chiusa da cancelli, che hanno pianto, che si sono disperate, che a volte si sono rifugiate in una temporanea speranza, che hanno vissuto la tragedia con l’angoscia di non poter rivedere, come poi accadde, i propri cari.
Ma ci sono anche uomini, alcuni superstiti, minati spesso dalla silicosi, che con un filo di voce gridano la loro tristezza per gli amici scomparsi e per una verità che non è venuta e non arriverà mai.
E poi ci sono gli orfani e tutti  in pratica lo divennero, anche le mogli e i pochi superstiti, orfani di uno stato, quello italiano, che si disinteressò completamente della loro sorte, che non fu mai presente, nemmeno con un ministro, nei giorni angosciosi che seguirono l’incidente. Lo stato fu loro distante come lo fu sempre, anche quando quasi benedisse che il numero dei nostri emigranti era in crescita. Non una grande e affiatata famiglia, quindi, bensì un padre dispotico pronto sempre a fuggire dai propri doveri, allora come anche oggi.
A fronte di questa umanità dolente troviamo i freddi verbali, le perizie, le parole vuote, pregne di retorica,  dei nostri politici, fra i quali Giuseppe Saragat e Giovanni Leone.  
Braccia contro carbone, schiavi contro l’energia per le fabbriche dei nostri industriali, gente che partiva dal paese senza aver nemmeno nulla da mangiare durante il viaggio, in fuga dalla miseria verso le fauci della miniera.
Dobbiamo ricordarci di questi nostri emigranti, l’Italia deve a loro molto di più di quanto - in pratica nulla -ha fino ad ora loro dato; con il loro duro lavoro, con il loro sacrificio, hanno fatto ritrovare alla loro nazione quella dignità che una guerra insensata aveva cancellato.
Da leggere, per riflettere, ma soprattutto per non dimenticare.



Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, inviato del "Corriere della Sera" è stato capo delle pagine culturali. Laureato con Cesare Segre all'Università diPavia, ha debuttato nel giornalismo come responsabile del ‟Corriere del Ticino” di Lugano. Ha lavorato per l'Einaudi, e per il quotidiano ‟La Repubblica”. Attualmente è giornalista culturale del "Corriere della Sera".
Ha scritto, fra l’altro:
Minuti contati (Scheiwiller, Milano 1990, Premio Sinisgalli), Baci da non ripetere(Feltrinelli 1994, Premio Comisso); Azzurro troppo azzurro (Feltrinelli 1996, PremioGrinzane Cavour); Tutti contenti (Feltrinelli 2003, Superpremio Vittorini, Superpremio Flaiano, Premio Letterario Chianti), Aiutami tu (Feltrinelli 2005, SuperMondello), Nel cuore che ti cerca (Rizzoli 2008, Premio Campiello e Premio Brancati),   Per più amore(Manni Editore), La catastròfa (Sellerio 2011, Premio Volponi), Giallo d'Avola (Sellerio 2013, Premio Viareggio-Rèpaci 2013).

Recensione di Renzo Montagnoli



MondoBlog del 4 febbraio 2015

MondoBlog

Le segnalazioni:

lunedì 27 gennaio 2014

Il giorno della Memoria

Oggi, 27 gennaio, è il Giorno della Memoria, data scelta non a caso, visto che fu appunto il 27 gennaio 1945 che venne liberato dalle truppe sovietiche il campo di concentramento di Auschwitz, mostrando al mondo quello che già si sapeva dell’immensa tragedia dell’Olocausto. Ma non si trattò solo del genocidio di una razza, perché i nazisti rinchiusero e soppressero nei lager centinaia di migliaia di soldati russi, di altre genti inermi, che furono anche massacrate  nei territori occupati.
Di seguito riporto alcuni scritti che trattano di questo orrore.



                                                 Foto da web

Sant’Anna 12 Agosto 1944
di Renzo Montagnoli


C’era quell’alba un’aria di vetro
gente svegliata con grida di belva
ammassata nella piccola piazza
e poi il latrato feroce dei mitra tedeschi
i corpi segati da raffiche intense
e il fuoco a divorare ogni cosa
a incenerire quei poveri morti
donne vecchi e bambini
immolati nel comune destino
e le fiamme alle case
i bimbi arrostiti nel forno del pane
i fuggitivi rincorsi e massacrati di botte.
Dense nuvole di fumo salivano il monte
in un girone d’inferno i diavoli neri
l’elite della razza
a sporcarsi le mani
a bere quel sangue
a gioire nel portare le offese.
E infine fu notte
e un buio pietoso scese
a celare l’orrore del giorno.

Ero a Sant’Anna quel 12 agosto
e ancora vi sono e sempre resterò
uno dei nomi di un lunghissimo elenco
incisi su una lapide segnata dal tempo
affinché di orrore e di morte
di ogni ignominia che l’uomo può fare
non venga mai persa questa memoria.

Da La pietà

Alle 560 vittime dei carnefici nazi-fascisti.


                                              Foto da web


HOLOCAUST
von Esther Rind in Russo

Grauverhangener Himmel über Güterzüge,

überquellende Menschenmassen an der Rampe,

rufende, schreiende Kinder, Frauen, Männer,

in Reih und Glied mit scharfen Befehlen,

einer links einer rechts, Selektion über Köpfe, Leiber,

verzweifelte, fragende, nicht verstehende Augen,

Rauch aus Schloten, spiegelnd in Wasserpfützen

Erinnerungen, die nicht vergehen wollen!!



OLOCAUSTO
di Esther Rind in Russo

Un cielo grigio e incombente sopra i treni da trasporto,

dove una massa enorme di esseri umani sostava sulla rampa,

bambini, donne, uomini che gridavano, piangevano,

soldati allineati davano ordini precisi e inevocabili,

uno a sinistra, uno a destra, selezione fatta a caso,

occhi sgomentati, non comprendenti, richiedenti,

camini fumanti, rispecchianti nelle pozzanghere.

Ricordi che non vogliono scomparire!!

(Traduzione di Lorenzo Russo)





Il giorno della memoria
di Renzo Montagnoli

Oggi, 27 gennaio, è il giorno della memoria, ricorrenza introdotta dal nostro paese con una legge del 2000 in adesione a una proposta internazionale volta a ricordare le vittime del nazismo e del fascismo, con particolare riguardo a coloro che furono eliminati sistematicamente solo per il fatto di appartenere a una razza, oppure di avere un diverso credo religioso o un orientamelo sessuale particolare.
Infatti, nel corso della seconda guerra mondiale, ma anche negli anni immediatamente precedenti, la Germania adottò un piano volto a sopprimere ebrei, omosessuali, zingari, testimoni di Geova, Pentecostali, Untermenschen (cioè sottouomini, come venivano considerati i russi). Nel girone infernale rientrarono anche i disabili e i dissidenti politici.
Quante furono le vittime? E’ difficile quantificarlo con esattezza, ma la stima è di circa 16 milioni di esseri umani uccisi con esecuzioni sommarie o periti per stenti. Di questi circa sei milioni furono ebrei, oggetto di persecuzioni anche in passato.
E’ giusto ricordare perché un simile orrore non abbia più a ripetersi, ma secondo me non si possono tacere tutti quelli eliminati unicamente perché componenti di un’altra razza, e allora preferisco pensare che oggi vengano ricompresi anche il milione e trecentomila armeni che i turchi in vario modo soppressero, nonché i milioni di nativi americani uccisi dai conquistadores spagnoli e dai coloni degli Stati Uniti e del Canada, sempre dimenticati, ma erano genti che vivevano sulla loro terra, avevano tradizioni, delle civiltà che finirono per soccombere alle violenze degli invasori. 
La storia dell’uomo è purtroppo costellata da genocidi, fin dai suoi primordi, e il fatto che l’ultima grande strage sia accaduta non più di una settantina di anni fa lascia dei dubbi sull’evoluzione della specie.
Del resto, fino a quando ammetteremo le guerre per risolvere i contrasti, gli olocausti saranno sempre possibili, a riprova che l’uomo, a volte, riscopre in se stesso una bestialità non riscontrabile nemmeno fra gli animali.
Se oggi è un giorno della memoria, questa è corta per alcuni, individui che si affidano a un negazionismo farneticante per difendere il loro concetto aberrante di supremazia della razza. Non sono casi sporadici, anzi stanno diventando sempre più frequenti; questi signori, ma signori è un termine troppo rispettoso nei loro confronti, cercano il mito della superiorità per ovviare alla loro debolezza, per riscattare ai loro occhi le inesistenti qualità umane che li contraddistinguono.
Il razzismo serpeggia nell’ignoranza e purtroppo questa si sta espandendo in un mondo in cui gli interscambi sono sempre più frequenti; la paura del diverso poi viene abilmente giocata da governi per distogliere l’opinione pubblica dai veri problemi. E’ come una calunnia che poco a poco fra presa sugli individui, alimentando nei più l’indifferenza e in altri la violenza, due miscele esplosive che, combinate, possono giustificare qualsiasi azione, anche la sistematica eliminazione di esseri umani.
Occorre quindi vigilare, non prestare facilmente ascolto a campagne più o meno larvate che inducono l’insorgenza di un concetto razziale, perché oggi può toccare ad altri, ma domani potrebbe toccare anche a noi di essere vittime di un genocidio.




P.S.:

L’immagine fotografica è una scultura in materiale refrattario opera di Mara Faggioli e dedicata all’olocausto. Rappresenta uno dei tanti bimbi dei lager sottoposto alle crudeli sperimentazioni del famigerato Dr. Menghele. Chi era costui?
Così lo descrive Mara:
Il Dott. Josef Mengele fu certamente tra i peggiori criminali nazisti.
Ad Auschwitz effettuò atroci, orribili ed agghiaccianti esperimenti sui bambini, in particolare sui gemelli.
Prelevava, senza anestesia, parti di fegato o di altri organi vitali, praticava iniezioni di virus e trasfusioni incrociate, iniettava metilene blu negli occhi, al fine di mutarne il colore, ma l’unico risultato, dei suoi folli e insensati esperimenti, era quello di procurare la cecità dopo atroci e inutili sofferenze.
Ed altro ancora……..
Penso che si possa notare in quella posizione fetale tutto il dolore di un bimbo a cui è stata negata la vita così atrocemente.


A un bimbo del lager
di Renzo Montagnoli

Non più lamenti
né sofferenze.
Finalmente libero
da un mondo
senza futuro
ritorno a te,
mamma,
puri spiriti
nella pace
dell’eternità.


(Liberamente ispirata
alla scultura di Mara Faggioli)


                                                Foto da web


Primo Levi, dire l'indicibile
di Ferdinando Camon


"Avvenire", 1 aprile 2007


Primo Levi è morto di sabato, il martedì dopo m'è arrivata una sua lettera. Mi viedeaddosso una tristezza infinita e mi dico: "Ecco, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi". Mi aspetto la confessione che vivere gli è impossibile, che dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c'è spazio per le vittime dello Sterminio e per chi lo nega, che lui si uccide adesso ma doveva farlo quarant'anni prima, e che dunque le spiegazioni non vanno cercate in quel che succede adesso, ma in quel che era successo 45-40 anni prima. Questo m'aspetto, aprendo la lettera, che dev'essere stata l'ultima che ha scritto e imbucato. Se m'è arrivata al martedì, doveva averla imbucata il sabato: dunque durante la passeggiata che faceva ogni mattina. La apro: un inno alla vita, un vortice di programmi, speranze, attese, da riempire settimane, mesi e anni. In quei giorni stavo cercando di farlo tradurre in Francia da Gallimard: a Gallimard suggerivo ogni tanto dei libri italiani, l'editore li faceva leggere ai suoi consulenti, che erano tre, e ognuno emetteva un voto, che poteva essere 1 o 2 o 3. Se il libro otteneve tre 3, passava. Se otteneva due 2, era bocciato. Se otteneva due 3 e un 2, lo prendeva in mano l'editore in persona. Con mia enorme sorpresa, il libro di Levi, il suo capolavoro assoluto: "I sommersi e i salvati", non era passato. Da Parigi mi chiamava al telefono il direttore della Gallimard, Hector Bianciotti, grande scrittore argentino di origine italiana, ora membro dell'Académie Française, e mi diceva: "Ferdinando, non ci piace". Non potevo crederci. Chiamai il quotidiano "Libération" e concordai di scrivere un intero paginone, per spiegare ai francesi perché dovevano tradurre Primo Levi. E' in questo frattempo che Levi muore. Nella sua ultima lettera, mi chiede se Gallimard vuole un'altra copia de "I sommersi e i salvati", mi chiede una copia di "Libération" quando esce l'articolo che lo presenta ai francesi, si mette a disposizione per tutto quel che può servire. L'articolo è uscito due giorni dopo la morte di Levi, e da quel momento il destino delle sue opere in Francia ha avuto un andamento grottesco: chiama la Gallimard, m'informa che l'editore Albin Michel ha preso "I sommersi e i salvati", anche loro vogliono "I sommersi e i salvati", gli farei un piacere se avvertissi la signora Levi, Lucia. Dopo una settimana richiamano: Albin Michel prende tre libri, anche loro prendono quei tre libri. Una settimana dopo sono a Brescia, sto tenendo una conferenza alla libreria Ulisse, chiamano per dirmi che loro "sono disposti a prendere di Primo Levi tutti i libri che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di nessun altro". Non è finita. Albin Michel protesta: "Lo avevate rifiutato, io l'ho preso, perché mi ostacolate?". Per chiudere la faccenda, mi chiedono una fotocopia della lettera di Primo Levi: quella è la prova che Primo Levi voleva Gallimard. E così la faccenda s'è chiusa. Primo Levi rifiutato in Francia è la ripetizione di Primo Levi rifiutato in Italia. "Se questo è un uomo" era stato letto, nella casa Einaudi, da Natalia Ginzburg, e respinto. Quando Levi morì, Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così: "E' morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale". Come possono due editori importantissimi non capire opere che varranno fino al Giudizio Universale compreso? La risposta che mi viene è che c'è "troppo", in quelle opere. Questa risposta è legata a mia valutazione di Primo Levi scrittore, che è la seguente: Primo Levi ha vissuto la massima colpa della storia, non al grado massimo in cui la colpa fu commessa, ma al grado massimo in cui poteva essere raccontata. Levi era un chimico. Un chimico studia le reazioni nel contatto tra elemento ed elemento. Levi ha osservato e descritto le reazioni nel contatto tra l'uomo più potente e il più debole. Il primo fa della propria volontà la legge della storia. La volontà "propria" è propria del popolo ma anche del singolo individuo dentro il popolo. Se il potente uccide, il delitto è giusto perché il potente lo vuole. Questo sistema è riassunto nell'incontro fra Levi e il dott. Pannwitz. Il dottore sta esaminando Levi, è proprio un esame di Chimica. A un certo punto alza gli occhi e lo guarda. Anche Levi lo guarda. Levi cerca di capire il proprio pensiero e il pensiero dell'altro. L'altro pensa: "Questo essere davanti a me merita certamente di morire. Ma prima vediamo se contiene qualcosa di utile". Nel proprio cervello, Levi sente formarsi questo pensiero: "Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono intimamente malvagi". (Cito a memoria, con possibili imprecisioni). Levi doveva rendere quel che di utile conteneva, e morire. Non doveva né sopravvivere né scrivere. Nella sua sopravvivenza e nella sua scrittura c'è stato un doppio fallimento del sistema Lager. Il sistema Lager non ha agito su Levi con tutta la sua forza. Perché Levi era un chimico, perché ha imparato il tedesco, perché non si è mai ammalato, e perché ha avuto la fortuna di ammalarsi negli ultimi giorni, evitando la marcia della morte, l'evacuazione dal Lager (raccontata da Elie Wiesel). Claude Lanzmann ha incontrato superstiti del lager che hanno sofferto di più, sono stati torturati o hanno lavorato ai forni. Davanti alla macchina da presa, si torcono, piangono, o svengono. Dicono qualche parola, non di più. Hanno passato il limite del dicibile. Levi è arrivato a quel limite. Forse non lo ha retto, e questo potrebbe spiegare la sua morte. Sono andato a trovarlo più volte, e ho raccolto in un librino i nostri dialoghi. Nell'ultima risposta dice: "C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio". Era una negazione drastica dell'esistenza di Dio. Quando gli ho mandato il testo per le correzioni, ha aggiunto, a matita: "Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo". Era una riapertura: non c'è, lo cerco, non lo trovo, lo cerco ancora. Rigirandomi la sua ultima lettera fra le mani, mi dicevo: Spero che l'abbia trovato.






Se questo è un uomo
di Primo Levi
Postfazione di Cesare Segre
Copertina di Fabrizio Farina
Einaudi
Narrativa romanzo
Pagg. 209
ISBN: 9788806176556
Prezzo: € 9,80

Ancor oggi, anzi ora più che in passato, ci sono non pochi che dubitano che vi sia stato effettivamente l’olocausto. Accanto a quelli che per ideologia lo negano ci sono molti scettici e, purtroppo, tanti, troppi agnostici che si disinteressano completamente del problema.
I giovani, poi, nati molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, ne hanno una vaga conoscenza, spesso maturata visionando pellicole sull’argomento, con il risultato che un’immane tragedia sta per venire sepolta dalla polvere del tempo e dell’indifferenza degli uomini.
I campi di sterminio, i famigerati lager non sono purtroppo una leggenda, ma una realtà che non deve essere dimenticata.
In questo senso la lettura di libri come Se questo è un uomo di Primo Levi non solo è opportuna, ma indispensabile e dovrebbe essere oggetto degli studi scolastici, per sapere, per capire, per evitare che un giorno ci siano nuovi olocausti.
Ogni volta che lo apro, che ne scorro le pagine soffermandomi su un punto o sull’altro, ritrovo l’emozione provata nel corso della prima lettura, perché il pregio della narrativa di Levi è di essere non romanzata, ma la descrizione della pura e semplice verità. L’autore, che racconta in prima persona essendo stato rinchiuso ad Auschwitz, non ricorre all’enfasi, né va alla ricerca della facile commozione, ma, con tono quasi distaccato, parla della sua esperienza e, pur descrivendo sofferenze e patimenti, ha il pregio di effettuare riflessioni che donano all’opera una valenza generale, non limitandola a una dolorosa esperienza personale.
In lui c’è pacatezza, desiderio di comprendere per rendere partecipe il lettore di una grande tragedia che supera ogni umana immaginazione.
Le lunghe giornate invernali, coperti da abiti che non riparano dal freddo, l’alimentazione insufficiente, i carichi di lavoro eccessivi, la spersonalizzazione dell’individuo che perde il suo nome, sostituito da un numero tatuato sul polso, portano in pochissimo tempo a un generale abbrutimento, in uno stato quasi vegetativo, dove ciò che conta è solo il presente, essendo il futuro anche prossimo del tutto inimmaginabile. E’ in queste condizioni che all’eccesso emergono le caratteristiche degli individui.
I deboli si lasciano andare, sono le vittime designate delle prossime selezioni fra chi ancora potrà vivere e chi invece sarà avviato alle camere a gas.
I raziocinanti rafforzano il loro spirito di conservazione e operano per sopravvivere giorno per giorno, per lavorare meno, per mangiare un po’ di più, arrivando perfino al punto di collaborare con l’aguzzino. E se fra questi la quasi totalità cerca di instaurare un rapporto con il carnefice che gli consenta di tirare ancora un po’ avanti, ce ne sono altri che, per attitudini, diventano simili alle crudeli SS e questi sono i Kapò, indispensabili peraltro nella gestione del campo di concentramento, vigilato da un ristretto numero di militari nazisti.
Levi ci descrive così una varia umanità, per lo più cenciosa, spettri che si agitano nelle tormente di neve, che s’impantanano nel fango primaverile, che boccheggiano nell’arsura estiva, tutti figuranti di una danza macabra che porterà all’annientamento della dignità umana e alla distruzione del Terzo Reich.
Ci sono pagine che non si possono dimenticare, sopra tutte le ultime, con i russi ormai alle porte e con i nazisti che eliminano gli ultimi prigionieri rimasti, fatta eccezione, per un motivo che non si saprà mai, per i ricoverati nell’ospedale da campo, forse perché ritenuti insanabili. Fra questi c’è l’autore che, questa volta con una commozione che passa dalla pagina all’animo del lettore, ci racconta delle giornate di ritrovata libertà nell’attesa dell’arrivo dell’Armata Rossa. E’ forse l’unico momento in cui, ipotizzando un futuro, l’uomo non è più così pragmatico e l’essere consapevole di esistere ancora, nonostante tutto,  lo porta a scrivere della penosa fine di alcuni suoi ultimi compagni di sventura. Riaffiora così, se pur frenata, la pietà “Somogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione.”
Se questo è un uomo è un capolavoro?
Lo è, per lo stile narrativo, per il modo di affrontare il tema trattato, per la capacità dell’autore di raccontarci la pura e semplice verità, pur essendo parte della vicenda.


Primo Levi (1919 – 1987). Ha scritto anche La chiave a stella, I sommersi e i salvati, Se non ora, quando?, Il sistema periodico, I racconti, L’altrui mestiere, La ricerca delle radici, La tregua, L’ultimo Natale di guerra e Dialogo (con Tullio Regge).   



Recensione di Renzo Montagnoli  




                                                 Foto da web 

Il superstite
di Primo Levi


Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’è.
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni.