L’altra
faccia dell’unità d’Italia
1860 –
1862
di Pietro Zerella
Copertina di Wenzel
Franz
Marco Del Bucchia
Editore
Narrativa romanzo storico
Collana Vianesca/Poesia
e narrativa
Pagg. 196
ISBN 88-471-0550-8
Prezzo € 15,00
Controstoria
E’ un’epoca la nostra in cui è in corso un generale revisionismo
dei fatti storici, anche recenti, come accade per il fenomeno della Resistenza,
da cui è nata la nostra repubblica. Non sempre questa rivisitazione è
disinteressata e tesa alla ricerca della verità, ma spesso sottende motivi di
carattere politico che spesso sono alla base di una diversa visione soprattutto
per fatti abbastanza prossimi. Maggiore sincerità, invece, si riscontra quando
lo storico torna indietro parecchio nel tempo; le passioni e le tensioni sono
sopite e allora si cerca esclusivamente di raggiungere la verità, o comunque di
avvicinarla. Così accade per quel lungo processo che nel XIX secolo ha portato
all’unità d’italia, descritto a scuola con toni trionfalistici e comunque
secondo le esigenze di quello che allora fu
il potere egemone. I Savoia tenevano a dimostrare che vollero recepire
il grido di dolore degli italiani, soggiogati dallo straniero, per unirsi in un
unico stato che poi si sarebbe chiamato Regno d’Italia. Non fu proprio così,
anzi mai come in quella occasione fu costruita una storia di comodo, e non è
solo un’opinione mia, ma è suffragata da tanti studi, come questo di Pietro
Zerella dall’emblematico titolo L’altra faccia dell’unità d’Italia. In questo libro, che l’autore definisce
romanzo storico perché ricorre allo stratagemma di far raccontare i fatti dal
fantasma del bisnonno, viene esaminata la famosa spedizione dei Mille e i primi
tre anni (1860 – 1862) dell’ex Regno delle Due Sicilie, inglobato nel nuovo
Regno d’Italia. Pietro Zerella è meridionale e non è certo un nostalgico dei
borboni, ma riesce a essere piuttosto imparziale in questa revisione, dando
spazio anche a chi la contesta.
Premetto che lo storico mai potrà arrivare alla verità assoluta,
ma se le fonti sono varie e attendibili, se riuscirà a essere equidistante, di
certo vi si potrà avvicinare. Zerella si è impegnato nell’arduo compito con
zelo e con il suo libro fornisce una visione nuova degli anni di cui tratta, peraltro
suffragata da studi, piuttosto recenti, di storici assai più noti.
Gli elementi salienti che emergono sono questi, in contrasto con
la storia studiata a scuola:
la
massoneria, soprattutto quella inglese, decretò il successo della spedizione
dei mille, fornendo denaro per corrompere i comandanti militari borbonici e
anche i maggiori politici napoletani. Dunque, il merito di Garibaldi viene
ampiamente e, giustamente, ridimensionato. Il Regno delle Due Sicilie, per
quanto inetto fosse il suo re, era pur sempre una realtà non dissimile dal
Regno di Piemonte, che, nel cosiddetto risorgimento, non si interessò di
liberare gli italiani (e del resto nemmeno loro presero la cosa a cuore), ma di
annettere nuovi territori. Insomma, fu una guerra di conquista e non di
liberazione. E ciò è tanto più vero ove si consideri quanto avvenne dopo
l’annessione del Regno delle Due Sicilie, considerato una vera e propria
colonia, con un marcato impegno a depredarla e a trattare i suoi abitanti alla
stregua di selvaggi incivilizzabili. Ci fu indubbiamente un tentativo di
restaurazione della precedente monarchia, ma furono anche la fame e le promesse
disattese ad accendere quel fenomeno che troppo sbrigativamente, e per celarne
la natura, fu chiamato “brigantaggio”. Fu una guerra per bande, sanguinosa e
feroce, che costò ai meridionali un numero imprecisato di vittime, ma che
alcune fonti fanno ascendere a più di centomila, se non addirittura a
duecentomila. Si venne a determinare così una generale sfiducia verso lo stato
che diede inizio a quel fenomeno, tuttora in essere, denominato più
genericamente “La questione meridionale”.
E come precisa Zerella i protagonisti, ormai ombre, perdono molto
dell’alone di luce mistica con cui si è voluto avvolgerli.
Di tutto il Risorgimento italiano vi
sono personaggi che vanno messi sugli altari della gloria ed altri che sono
stati delle meteore che hanno seminato solo morte e miseria.
Garibaldi l’idealista, l’eroe del
tempo, la star europea, l’uomo che entusiasmava i giovani, li faceva sognare,
fu utilizzato e spremuto come un limone e poi messo da parte e confinato nel
suo eremo di Caprera, a volte sorvegliato a vista dalla flotta piemontese.
Cavour intelligente e cinico, vero uomo di
stato senza scrupoli e senza anima, Mazzini il filosofo, l’educatore ma con
mancanza si senso pratico. Vittorio Emanuele l’uomo di facciata, lontano dai
meridionali, anzi li disprezzava.
Francesco II, troppo ingenuo e “
fesso” per il suo ruolo, anche se onesto.
Il generale Cialdini l’uomo che ha
sulla coscienza migliaia di vittime e soprusi.
Nel
bene e nel male, si ottenne l’unità d’Italia, ma a un prezzo decisamente
insopportabile. I garibaldini, comparse della sceneggiata della spedizione dei
mille, furono ben presto scaricati dai Savoia, tranne alcuni, che vi parteciparono
da infiltrati e che poi entrarono a far parte del nuovo esercito del Regno
d’Italia. Garibaldi, quasi paralizzato dall’artrosi, divenne un mito, ma ben
isolato, e in quanto tale non pericoloso. Fu definito un grande stratega, ma
non lo era, né per preparazione, né per indole; andava bene per attività di
disturbo, di guerriglia, ma non aveva le capacità per comandare e dirigere un
grande esercito. Cavour ottenne quel che voleva ed è ricordato come il grande
tessitore, ma non lottò mai per l’unità d’Italia, bensì per l’arricchimento del
Regno di Piemonte. Vittorio Emanuele II, il re galantuomo, era tutto il
contrario, ottuso e venale. Francesco II, l’ultimo re delle Due Sicilie, era
una persona seria, ma inetta, tuttavia si difese fino a quando poté a Gaeta.
Come al solito la storia è scritta dai vincitori e infatti non parla dei
soldati borbonici, fedeli fino all’ultimo, che non vollero passare ai
piemontesi e che furono mandati a morire a migliaia nel lugubre forte di
Fenestrelle. Se i sudditi di Francesco II sperarono in un nuovo corso, furono
subito delusi: nuove ingenti tasse, la ferma obbligatoria per cinque anni che
toglieva le migliori braccia all’agricoltura, il progressivo depauperamento del
sud a vantaggio del nord furono le cause maggiori di un’ostilità che si
manifestò con vere e proprie rivolte, sbrigativamente definite con il termine
di brigantaggio. Furono anni di dolore e di orrore, da ambo le parti, ma chi
ebbe più a patirne fu l’inerme popolazione civile e, se anche le cifre contrastano
a seconda delle fonti, alla fine risultò un numero di vittime spropositato,
quasi da genocidio.
Il
libro di Zerella non ha la pretesa di svelare la verità assoluta, ma intende
gettare luci dove la storiografia ufficiale ha oscurato i fatti. E’ un passo
verso la verità, un piccolo passo per comprendere perché Massimo d’Azeglio ebbe
a dichiarare “Ora che s’è fatta l’Italia, s’hanno da fare gli italiani.”.
Appunto, sapere se siamo fratelli per volontà nostra o per imposizione d’altri
nulla toglie all’evidenza che ormai siamo una nazione, ma molto aiuterebbe per
averne la consapevolezza, per giungere a quella forte identità comune che
sancisce e legittima un popolo.
L’altra faccia dell’unità d’Italia è un libro da leggere e da meditare, passo dopo
passo invita alla riflessione su quanto ci è sempre stato insegnato e che in
cuor nostro ci ha fatto dubitare.
L’autore,
saggiamente equidistante, merita ogni plauso, perché non ha voluto stupire o
scandalizzare, ma richiamare l’attenzione su fatti ed eventi non proprio
conformi alla storiografia scolastica.
Quindi,
più che un consiglio, il mio è una raccomandazione a leggere un libro di
estremo interesse e peraltro scritto in modo esemplare e coinvolgente.
Nato a Beltiglio di Ceppaloni,
Pietro Zerella vive a San Leucio
del Sannio. Laureatosi in scienze politiche e
sociali, è stato ispettore capo della polizia di stato. Oggi in pensione,
svolge attività di promozione culturale. Vincitore di premi letterari, negli
ultimi anni si è dedicato con particolare passione alla ricerca storica.
Intervista di Renzo
Montagnoli a Pietro Zerella, autore del romanzo storico L’altra faccia dell’unità d’Italia 1860 -
1862, edito da Marco Del Bucchia
Ho letto con grande piacere questo romanzo che
parla effettivamente di un’altra faccia dell’unità d’Italia, ben diversa da
quella che abbiamo studiato sui banchi di scuola e scritta a uso e consumo
della classe dominante, in questo caso la monarchia sabauda.
Mi è piaciuto anche l’equilibrio dello svolgimento
e, per quanto tu sposi una visione che in buona parte condivido, non porti mai
avanti il discorso in modo assolutistico, nel senso che non vuoi essere la
fonte di ogni verità, e, a testimonianza di ciò, riporti in calce due
capitoletti dedicati rispettivamente al revisionismo di natura politica e alle
critiche al revisionismo sul risorgimento. Preciso, anche per i lettori, che le
teorie revisioniste a livello storico sono abbastanza recenti e risalgono più o
meno a una ventina di anni fa, cioè quando ormai da tempo la monarchia era
caduta e la repubblica era già ben consolidata.
Secondo te, perché è occorso così tanto tempo per
una ricerca della verità che non fosse quella pontificata a livello scolastico?
La
nostra giovane entità di Monarchia, prima, di dittatura e Repubblica poi, e di
come abbiamo vissuto queste drammatiche fasi storiche, ci hanno precluso di
guardare indietro e giudicarci. Nella ricerca della verità gli studiosi
trovavano spesso gli archivi sbarrati da “segreti di Stato” e questo è
continuato fin quasi agli anni ’80. La nuova cognizione storica, l’importanza
delle piccole storie locali, ricerche di nuovi appassionati di scrittura e il
rafforzarsi della Democrazia e della Repubblica hanno tolto ogni velo di
reticenza sulla Storia d’Italia. La storia scolastica serviva a formare e
modellare la giovane Italia, far conoscere certi personaggi e ignorare gli
altri, descrivere un’Italia perfetta fatta solo di eroi, di monumenti e di
tanti sacrifici. Insomma un’italietta di “brava gente”. Poi il cadere di tante
barriere, la scoperta di documenti impolverati ci farà conoscere quanto sangue
fraterno ha inondato i sentieri di questa bella Italia.
E’
strano che gli storici non si siano sentiti in dovere di riscontrare se quanto
da sempre insegnato trovava una corrispondenza con la realtà dei fatti. Non è
improbabile che qualcuno di loro abbia avuto più di un sospetto, ma che si sia
lasciato attrarre dal quieto vivere, dimenticando però che solo con la corretta
ed esatta conoscenza delle basi è possibile iniziare a porre rimedio alle
storture di uno stato che rischia di implodere. E’ ipotizzabile, quindi, che la
grande sfiducia nello stato delle popolazioni meridionali, all’origine della
famosa “questione”, risieda proprio nel trattamento ricevuto con l’unificazione
dell’Italia che, anche con i corposi aiuti economici successivi, ha considerato
sempre il Sud una colonia e non una parte integra e indispensabile della sua
struttura.
Al
riguardo, qual’é il tuo pensiero?
La questione meridionale è un
problema che nasce subito dopo l’Unità d’Italia. Si potrebbe cavillare,
cercando di capire le cause più profonde che giustifichino la decadenza di un
popolo e di un Regno andando ha ritroso della storia che ha vissuto il sud.
Tre sono stati i periodi di massimo
splendore per il Meridione: l’impero Romano con la parentesi dei Sanniti, il
dominio Longobardo e l’impero di Federico II scomparso con la sconfitta di
Manfredi a Benevento (1266). Dopo vi sono state dominazioni straniere,
Angioini, Aragonesi… e infine i Vice re spagnoli che hanno portato fame, rovine
e “camorra” fino a Carlo III di Borbone che diventa re delle Due Sicilie. Sotto
il suo breve governo si ha la rinascita del mezzogiorno proseguita dai suoi
avi, magari con soprusi e cannonate. La negatività dei Borbone è stata sempre
una politica chiusa e autarchica isolando il suo popolo tra “l’acqua salata e
l’acqua benedetta”. Vero è, che nel Regno si pagavano poche tasse e pur nella
miseria il popolino non emigrava.
Il 1860-61 è il periodo più
travagliato della storia meridionale. Subito dopo la proclamazione dell’unità,
il Regno delle due Sicilie è subito sottoposto all’uniformità legislativa e
amministrativa dell’Italia unita. Il passaggio dai Borbone ai Savoia avviene
attraverso una serie di convulsi esperimenti, dove il paese è travagliato da
una profonda crisi, caratterizzata dalla dissoluzione dell’apparato
amministrativo, dalla stagnazione dell’economia, dalle agitazioni dei contadini
per la quotazione dei demani comunali, dal brigantaggio e dall’opposizione del
clero al nuovo regime. Nei nuovi governanti manca la visione unitaria e la
conoscenza delle effettive condizioni delle società meridionali e di
conseguenza era emanare seri e concreti programmi governativi per unire le due
Italie (allora mancava l’esempio dell’unificazione delle due Germanie). Il
nord, più evoluto, anche perché più aperto all’influenza dei paesi d’oltre Alpe
e meglio governati dagli Asburgo e dai Francesi, ha percepito prima l’idea
dell’Illuminismo, ma non ha saputo applicare nei confronti dei meridionali i
codici di Napoleone, non ha usato la penna, anzi per i cervelli pensanti del
nord, come la scuola del criminologo Lombroso, Garafalo e altri, l’uomo del
sud, per le sue caratteristiche fisiche, era ritenuto un criminale nato e l’
intelligenza simile a un beduino e quindi per correggerlo aveva bisogno di
punizione (fucilazione, deportazione e incendi di interi paesi), massima
repressione e tasse fino all’osso (Quintino Sella). Naturalmente, il popolo del
sud sentendosi colonizzato, privato delle poco industrie e iniziative, il
mercato aperto alla concorrenza del nord, non protetto in alcun modo dal nuovo
stato, fu costretto ad armarsi, a difendersi, a guardare i campi dei
proprietari terrieri e dei nobili, a costituire società segrete (mafia e
camorra). facendo finta di assoggettarsi ai nuovi padroni. (Tutto cambia
affinché nulla cambi).
Gli storici, pur di sopravvivere,
hanno ignorato gli eventi o hanno trovato gli archivi sigillati. Purtroppo il
problema meridione esiste ancora e forse, con gli attuali politici, che non
sono delle “Aquile”, ma delle “Gazze ladre” esisterà ancora. Terminerà con le
nuove generazioni che dimenticando la retorica, capiranno alla fine, che la
penisola sarà grande quando sarà tutta una con un grande popolo.
Hai scritto bene “nei
nuovi governanti mancava la visione unitaria” ed è da questa mancanza che sono
nati i problemi. Per dirla francamente, a Vittorio Emanuele II e a Cavour non
interessava liberare gli italiani e farne, dapprima un’unica nazione e poi un
unico stato. A loro importava semplicemente mettere le mani su terre ricche
d’industrie e d’agricoltura, e guarda bene che anche il resto d’Italia si trovò
più assoggettato che unificato, e così quasi subito ebbe inizio quel grande
flusso migratorio che interessò anche il Meridione. La leva obbligatoria di
cinque anni, che sottraeva le braccia migliori alle famiglie, le tasse
spaventose sul macinato e un’infinità di altre gabelle si abbatterono sugli
italiani “liberati” peggio di una grandinata, con effetti senz’altro più devastanti
al sud, le cui popolazioni avevano già dapprima un tenore di vita inferiore a
quelle del nord. Non intendo andar oltre, perché altrimenti si corre il rischio
che l’intervista si allunghi fino a livelli intollerabili e passo quindi ad
altro. E’ stata originale la scelta della figura del bisnonno, un fantasma che
viene dall’aldilà a raccontare al nipote come sono andati i fatti e anche se il
tutto viene esposto da uno che c’era, ma che non era addentro ai gangli vitali,
il ricorso agli articoli di giornali dell’epoca offre un senso di immediatezza,
oltre che costituire il supporto tecnico-storico. Presumo, comunque, che tu ti
sia basato anche su testi specifici, che non hai indicato nelle fonti
bibliografiche, ma che mi interesserebbe sapere, quale appassionato di storia,
magari per poterli leggere pure io. Li puoi indicare?
Sarebbe interessante proseguire
questa lunga disamina storica sul nostro passato, ma è meglio per ora rimanere
nel testo altrimenti maturiamo un’altra pensione! L’idea di coinvolgere il mio
bisnonno, mi venne qualche anno dopo aver scritto un libro ambientato sul mio
paese: “ San Leucio del Sannio, ho conosciuto il nonno del mio bisnonno”
(1997). Pazientemente ho ricostruito l’esistenza di tutti i nuclei familiari
(fuochi) del paese indicando se proprietari o meno. Questo lavoro l’ho tratto
dalle visite pasquali che il parroco faceva annualmente e fotografava lo stato
della famiglia. Tante persone, maschi, femmine, servi, nati, morti ecc… e con
appunti per casi particolari, come carestie e morti in particolari condizioni.
Partendo dal 1606, i primi dati certi
delle nostre radici, seguendo tre censimenti fino al 1890, ho ripercorso la
vita di un nucleo familiare. Alla fine ogni famiglia ha scoperto, andando a
ritroso negli anni, il suo casato e nuove parentele che ignoravano. E’ stato un
lavoraccio perché ho dovuto copiare dai registri parrocchiali, scritti con
calligrafie incerte e abbreviazioni da far perdere il senno.
Il lavoro è durato circa due anni e
alla fine il comune (io come assessore alla cultura) ha pubblicato e
distribuito gratuitamente alla comunità. Il mio libro fu premiato in un
concorso dei comuni italiani a Montecelio Romano, classificandosi 5^ su alcune
centinaia.
Per qualche anno in paese si parlò
solo di questo libro e dei nonni, molte copie furono richieste dagli
emigranti in Australia e degli Stati
Uniti.
Con queste ricerche e con le
testimonianze degli anziani ho potuto ricostruire il nostro modo di vivere
fatto da tanta miseria e tanti soprusi dei piccoli proprietari e dai preti (su
2900 abitanti vi erano 11 sacerdoti).
Per quanto concerne le fonti
principali delle mie ricerche, oltre ai giornali citati, di Dumas e altri, mi
sono avvalso di quelle del mio primo libro sul brigantaggio “Preti contadini e
briganti…”.
Nella presentazione del volume, il
Prof. di Storia Antonio Gisondi dell’Università di Salerno mi faceva rilevare
che molto avevo parlato della classe misera ma poco della classe dirigente del
tempo.
Forse fu una giusta osservazione, ma
immedesimandomi in due poveracci, uomini di paese e del popolo, questi non
avrebbero mai avuto l’opportunità di conoscere o confrontarsi con nobili,
proprietari terrieri o l’alto clero. Il loro mondo, per le loro condizioni,
legati da una vita e per generazioni alla terra, era distante dai palazzi anni
luce. Per quanto concerne le fonti specifiche, vale a dire la bibliografia e
gli archivi da cui ho attinto le notizie per scrivere questo romanzo, è
piuttosto corposa, di autori dell’epoca e di storici recenti, senza contare le
ricerche dirette presso vari archivi.
Ha
ragione il prof. Gisondi, ma hai ragione anche tu, perché il basso ceto,
soprattutto all’epoca, non avrebbe mai potuto avere uno scambio di opinioni con
chi lo dominava. Tuttavia, il quadro che ne è sortito è più che esauriente,
oltre a essere esposto in modo scorrevole e accessibile. Nel leggere le pagine
di questo romanzo, che più che storico, definirei di didattica storica, mi sono
sorti alcuni dubbi, che ti pregherei di fugarmi.
Il
tenore di vita della popolazione prima dell’avvento dell’Unità d’Italia
com’era? Era più o meno a livello con quello degli abitanti del settentrione?
Esisteva
una borghesia rampante, insomma un ceto medio abbastanza corposo ed influente?
La
malavita organizzata (leggasi mafia e camorra) aveva un peso pari all’attuale?
Il tenore di vita della popolazione
meridionale prima dell’Unità doveva essere leggermente inferiore a quello del
nord, in particolare nelle campagne e nei comuni.
Invece nelle città si doveva
equivalere sia nella cultura sia nel vivere quotidiano. Napoli, Bari, Palermo,
erano tre grandi città a livello europeo. Non dico Napoli che godeva di molti
primati, con il maggior numero di tipografie di altre città, il Teatro S. Carlo
e aveva studiosi ed economisti a livello europeo, ma anche altri grandi centri
non erano da meno.
In alcuni paesi del nord si moriva di
“pellagra”, da noi si moriva d’inedia per il poco pane. Le novità da voi erano
percepite prima, da noi molto più in ritardo.
Le famiglie per progredire facevano del
tutto per avere un figlio prete o avere qualche umile lavoro dal signorotto del
paese, il Marchese, il Conte… che per un pezzo di pane seduceva la povera donna
e poi magari la faceva sposare con un po’ di dote a qualche suo contadino (I
promessi sposi).
Non esisteva una borghesia rampante
perché costoro si accontentavano di vivere intorno alla nobiltà. Quest’ultima
abituata a non lavorare ma ha vivere di rendita proveniente dalla terra
(coltivazione dell’ulivo, uva, grano …) o dai latifondi, ha vissuto bene quando
la rendita di stato era solida e costante negli anni; in seguito con l’Unità e,
la svalutazione, dalla terra non ha ricevuto più nulla, non ha saputo capire i
tempi e investire in altro come al nord i conti Baroli, Ricasoli…
Al sud, come ancora oggi, non abbiamo
la cultura dell’industria, ma quella dell’artigianato e della piccola
imprenditoria.
Mafia, Camorra…hanno da sempre
condizionato l’Italia e ancora la condizionano. Purtroppo, sia prima che oggi,
lo Stato è stato sempre debole e a volte se n’è servito (Vedi Rep. Napoletana
(1799) con il cardinale Ruffo, il ministro dell’interno L.Romano, nella seconda
guerra mondiale gli Stati Uniti con Luky Luciano, i vari sequestri eccellenti e
l’altro ieri… il patto scellerato…
Oggi poi la malavita si è evoluta
talmente che sta lasciando il sud per espandersi nell’opulento nord: “i camici
bianchi”, sparano di meno ma uccidono di più.
Presto questo primato sarà superato
con l’arrivo della mafia russa e cinese e dalla crudeltà dei popoli slavi.
Al sud finché esiste il problema
della “monnezza” (l’oro della malavita), la mancanza dello Stato e una politica
sociale moderna, la criminalità fiorirà sempre, ora più che allora, in cui
regnava la miseria.
E
veniamo al triste fenomeno della corruzione, ora più che mai dominante nel
nostro paese. Si dice che siano stati i Savoia e Cavour a introdurre la
corruzione nel Regno delle Due Sicilie, pagando ministri, generali e anche
nobili, al fine di agevolare l’impresa di Garibaldi. Al riguardo, ci sono prove
incontrovertibili. Questa politica di ungere le ruote era una costante del
Regno di Piemonte, tanto quasi da essere un marchio di fabbrica.
La
domanda: in precedenza, il livello di corruzione era notevole o modesto?
La
corruzione è stata per sempre il male dell’uomo, antica come le donne di
malaffare. I romani ne fecero largo uso comprandosi re e condottieri.
Tutta
la spedizione dei mille fu organizzata non da principianti o semplici volontari
sprovveduti, ma da gente raffinata, intelligente e da gradi politici di ampio
respiro.
Chi
non era al corrente di nulla,ma credeva nella giusta causa della libertà erano
Garibaldi e i suoi volontari.
Nel
XVIII e il XIX secolo la massoneria mondiale era una grande realtà che influiva
sulla politica delle nazioni, sull’economia e sul modo di pensare dell’uomo (V.
nascita degli Stati Uniti, diritti dell’uomo e altri eventi ancora sconosciuti
al popolo).
Anche
i problemi della penisola furono influenzati e diretti dalla massoneria inglese
che finanziò la spedizione di Garibaldi con tre milioni di franchi francesi in
piastre d’oro turche per corrompere i ministri e i generali borbonici.
Altri
finanziamenti provenivano dalle offerte private e dai comitati, disseminati in
cento città, allo scopo di raccogliere denaro per l’acquisto di un milione di
fucili. I proventi a favore di Garibaldi venivano puntualmente registrati dal
responsabile della cassa, lo scrittore Ippolito Nievo e dai suoi collaboratori.
Guardo
caso, la contabilità scomparve nel misterioso affondamento del vapore “Ercole” che
da Palermo era diretto a Napoli.
Nella
disgrazia perirono duecentocinquanta garibaldini e andarono persi i registri
della contabilità e la cassa della spedizione. (Nievo portava con sé l’intera
contabilità dell’intendenza per la gestione dal giorno 8 giugno 1860 fino al 31
dicembre).
Si
parlò di sabotaggio perché non si voleva far conoscere l’intervento della
massoneria inglese.
Il
generale Franceso Landi, quello dello scontro di Calatafimi, fu uno dei tanti
che per soldi tradì e mise in crisi l’esercito borbonico. Da tener presente
che, anche senza corruzione, i maggiori ufficiali dell’esercito di Francesco II
avevano una certa età e abituati più agli agi della corte che a vivere tra i
soldati.
In
breve l’episodio:
“Dopo
una giornata di duri combattimenti a Catalafimi il settantenne generale
Francesco Landi, con quattromila soldati e l'artiglieria, senza aver subito
gravi perdite, ordinava la ritirata, davanti a mille uomini male armati e
quasi privi di munizioni, lasciando libera ai Garibaldini la strada per
Palermo (per questo comportamento fu accusato di tradimento e di essersi
venduto a Garibaldi per 14.000 ducati).
La
corruzione ormai si era propagata in tutto l’esercito borbonico. La truppa in
Calabria era forte di 12.000 uomini, ma nessun Generale prese l'iniziativa di
affrontare Garibaldi. I soldati non condividevovano l'atteggiamento codardo di
chi li guidava, tanto che in un sussulto d'orgoglio, durante la ritirata su
Monteleone, i militari uccisero il generale Briganti, indignati di dover fuggire
davanti ad un nemico inferiore per uomini e mezzi. Il fatto curioso è che
alcuni gallonati dell'esercito garibaldino si recavano giornalmente nel campo
dei rivoltosi per parlamentare con gli avversari. In questa situazione, dove
la maggior parte degli ufficiali tradiva o passava al nemico, con soldati
sbandati, con un esercito demoralizzato, fu facile l’avanzata delle camicie
rosse. Da Reggio Calabria non vi furono più combattimenti; interi corpi
dell'esercito si arrendevano senza sparare un colpo, come a Severia Manneli,
dove si arresero 10.000 uomini . La propaganda piemontese ebbe un
ruolo speciale. Garibaldi era preceduto, nella marcia d'avvicinamento verso
Napoli, dalla leggenda dell’invincibilità. Tra gli uomini di Francesco II
incominciò a prevalere la rassegnazione e l'ineluttabilità delle cose. Napoli,
poi, aprì letteralmente le porte ai garibaldini senza sparare un colpo, anzi un
soldato gli presentò le armi. Prima dell’arrivo in città di “don Peppino”, così
lo chiamava Francesco II, nei negozi si vendevano da giorni camice rosse e
altri cimeli garibaldini.”.
Come
vedi è una triste storia, una pagina di tradimenti e corruzione di un Regno in
decadenza e della nullità del suo ultimo discendente borbonico “Francesco II”
mai all’altezza del suo compito. Ebbe un sussulto di orgoglio solo alla fine
nella battaglia del Volturno e all’assedio di Gaeta. (veramente più che lui,
l’eroina fu la giovane moglie Sofia).
Per
quanto su esposto, si potrebbe argomentare che era inutile far versare tanto
sangue ai sudditi del Regno delle due Sicilie quando ormai non combattevano più
e avevano accettato supinamente l’annessione aprendo le porte ai vincitori.
Per
completezza, osserviamo dalle colline la battaglia (scaramuccia) di Catalafimi.
Calatafimi
Questa
battaglia è ricordata da tutti per la famosa risposta di Garibaldi a Nino
Bixio: generale, temo che bisogna
ritirarsi - Bixio che dite?
qui si fa l'Italia o si muore. Qualche fonte vicina al Generale
riferì che Bixio, visto l'andamento negativo della battaglia, chiese a
Garibaldi di ritirarsi, ma questi rispose: ma
dove ritirarci? Erano in una situazione che non offriva possibilità
di scelta: o si andava avanti o si moriva. Di fronte e ai lati avevano
l'esercito borbonico e sulle alture vi erano bande di Siciliani, che attendevano
l'esito del combattimento per schierarsi con il vincitore.
Lo
stesso Garibaldi rischia di essere ucciso.
Nel
corso del combattimento, è ferito al fianco destro da un sasso, lanciato da un
soldato dell'ottavo battaglione Cacciatori dell'esercito borbonico, perché il
suo fucile, per ben due volte non ha sparato. L’episodio potrebbe far sorridere
o sembrare non vero, ma in una guerra insolita succedono spesso cose bizzarre.
Il militare, senza volerlo, aveva imitato il giovane Gian Battista Perasso di
Genova.
In
questa giornata, un contributo di sangue lo danno anche i religiosi, i frati
francescani, al seguito di Garibaldi. Vediamo in poche righe la descrizione di
G. C. Abba, in Da Quarto al Volturno:
Macchiette nel quadro grande, veggo
quei francescani che combattevano per noi. Uno di essi caricava un trombone con
manate di palle e di pietre, poi si arrampicava e scaricava a rovina. Corto,
magro, sudicio, veduto da sotto in su a lacerarsi gli stinchi ignudi contro gli
sterpi che esalavano un odore nauseabondo di cimitero, strappava le risa e gli
applausi. Valorosi quei monaci, tutti, fino all'ultimo che vidi, ferito in una
coscia, cavarsi la palla dalle carni e tornare a far fuoco.
Abba
ci parla di un incontro avvenuto il 22 maggio a Parco (Monreale) con padre
Carmelo, nel corso del quale il religioso mette in mostra tutta la sua
saggezza e la filosofia del popolo siciliano: le attese, le speranze e
l'Unità d'Italia, la miseria, la prepotenza dei più forti20.
Mi sono fatto un amico. Ha ventisette
anni, ne mostra quaranta: è monaco e si chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza
costa del colle, che figura il Calvario colle croci, sopra questo borgo,
presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria
di giardini; l'ora era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L'anima di Padre
Carmelo strideva.
Vorrebbe essere uno di noi, per
lanciarsi nell'avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene dal
farlo.
- Venite con noi, vi vorranno tutti
bene.
- Non posso
- Forse perché siete frate? Ce ne
abbiamo già uno. Eppoi altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia,
senza paura del sangue.
- Vorrei, se sapessi che farete
qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi
hanno saputo dir altro che volete unire l'Italia.
- Certo: per farne un grande e solo
popolo.
- Un solo territorio...!In quanto al
popolo, solo o diviso, se soffre, soffre: ed io non so che vogliate farlo
felice.
- Felice! Il popolo avrà libertà e
scuole.
- E nient'altro! - interruppe il
frate: - perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose
basteranno forse per voi piemontesi: per noi qui no.
- Dunque che ci vorrebbe per voi?
- Una guerra non contro i Borboni, ma
degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a
Corte, ma in ogni città, in ogni villa.
- Allora anche contro di voi frati,
che avete conventi e terre dovunque sono case e campagne!
- Anche contro di noi: anzi prima che
contro d'ogni altro! ma col vangelo in mano e colla croce. Allora verrei. Così
è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest'ora, quasi ancora
con voi soli.
- Ma le squadre?
- E chi vi dice che non aspettino
qualche cosa di più?
Non seppi più che rispondere e mi
alzai. Egli mi abbracciò, mi volle baciare, e tenendomi strette le mani, mi
disse che non ridessi, che mi raccomandava a Dio, e che domani mattina dirà
la messa per me. Mi sentiva una gran passione nel cuore, e avrei voluto
restare ancora con lui. Ma egli si mosse, salì il colle si volse ancora a
guardarmi di lassù, poi disparve.
Nel
corso del combattimento è ferito ad un braccio anche il figlio di Garibaldi,
Menotti, che reggeva il
tricolore; fu costretto a passarlo ad un compagno, ucciso poi da un soldato
napoletano, un certo Angelo De Vito, il quale s'impadronì del cimelio e lo
portò quale trofeo a Palermo.
Dopo
una giornata di duri combattimenti, il settantenne generale Francesco Landi,
con quattromila soldati e l'artiglieria, senza aver subito gravi perdite,
ordinava la ritirata, davanti a mille uomini male armati e quasi privi di
munizioni, lasciando libera ai Garibaldini la strada per Palermo (per questo
comportamento è accusato di tradimento e di essersi venduto a Garibaldi per
14.000 ducati).
Questa
sanguinosa battaglia segnò il destino della Sicilia; i picciotti, che non si erano ancora
apertamente schierati con i nuovi arrivati perché incerti sull'esito della
contesa, visto che l'esercito borbonico si ritirava, incominciarono ad ingrossare
le file dei Garibaldini.
Sulla
vetta del colle denominato Pianto dè
Romani, in memoria della sconfitta inflitta dagli Egestani al
console Appio Claudio nel 262 avanti Cristo, sorge il monumento-ossario con
l'elenco dei 120 Garibaldini caduti in battaglia.
Il
Cappellano militare del 9° Cacciatori dell'esercito borbonico, Giuseppe Buttà,
nella sua opera, riferì che il peso della battaglia gravò solo su 500 unità
delle quattro compagnie comandate dal maggiore Sforza, mentre il resto della
truppa, circa 3.000 soldati, si trovavano a poca distanza, agli ordini del
generale Landi. In una prima fase il combattimento fu favorevole ai soldati
borbonici, i quali sbandarono le file dei Garibaldini e li misero in fuga. Il
generale Landi, che osservava lo scontro, invece di mandare in campo forze
fresche e dare una svolta decisiva alla battaglia, ordinò la ritirata e
cominciò a retrocedere verso Alcamo senza avvertire il maggiore Sforza,
impegnato nell'inseguire le camicie rosse. Lo Sforza, accortosi che le munizioni
stavano per terminare, vistosi abbandonato, incominciò a ripiegare.
I
Garibaldini, vedendo l'inatteso comportamento del nemico, si riorganizzarono
e, aiutati dalle squadre siciliane, presero ad inseguire ed attaccare la
retroguardia dell'esercito regio; da quel momento le cose cambiarono
totalmente a favore di Garibaldi. Questi riuscì a vincere proprio nel momento
in cui stava per essere sconfitto. Casi del genere si ripeteranno in altre
circostanze: da una probabile vittoria dell'esercito borbonico nasce una sicura
sconfitta!
……..
L’avvenimento
descritto da un testimone oculare.
Da
“I Mille” di G. Bandi: ...Pochi minuti
prima di mezzogiorno, i soldati regi, giunti in tre colonne sulle colline più
basse, dinanzi alla nostra, cominciarono a manovrare, spiegandosi e
rispiegandosi, come se fossero sulla piazza d'arme e come se tentassero di
impaurire con una artifiziosa mostra di forza e di disciplina le turbe degli -
scomunicati ladroni - cui non doveva sembrar vero il fuggirsene senza pagar lo
scotto.
Garibaldi, seduto sempre sul suo
greppo, guardava tranquillamente quello spettacolo, esclamando di tratto in
tratto:- Per Dio! Come manovrano bene! Son belle truppe davvero!
Poi cominciarono a suonar le trombe
dell'ottavo battaglione dei cacciatori.
Il generale stette un pezzo a sentir
quella musica, fumando sempre il suo sigaro; e quando la musica tacque, si
volse a noi e disse: - Hanno buone trombe davvero! Facciamo che sentano un po’
la nostra. E soggiunse, volgendosi: - Dov'è la mia tromba? - Son qui, - rispose il
trombettiere Tironi, (Giuseppe Tironi era nato a Rotondi, un
paesino della Valle Caudina - Avellino - nello stesso paese era nato un altro
trombettiere garibaldino, Pasquale Mainolfi, che si distinse alla Breccia di
Porta Pia) che sedeva, pochi passi
indietro, sull'erba. E Garibaldi a lui: - fate sentire a quella gente la mia
sveglia.
Ci guardammo in faccia meravigliati,
e credemmo che il generale burlasse; ma egli non faceva segno di ridere, e il
trombettiere intonò con chiara e sonante voce la stessa sveglia, che nelle
prime ore di quella mattina gli aveva procurato tanta lode e una bella moneta
da cinque lire.
In quel momento, guardando col
binocolo i cacciatori nemici che cominciavano a spiegarsi a mo' di ventaglio,
notammo che si fermarono all'improvviso, stupiti di quella singolare cantilena
della nostra tromba, tutta dolcezza e serenità. La solennità dell'ora, il
silenzio profondo della valle e la novità di quel suono debbono aver fatto
credere ai napoletani, che qualche Fata si pigliasse giuoco dei fatti loro, o
che noi togliessimo a canzonarli, rispondendo colle soavi modulazioni
dell'idillio alle provocatrici note delle squille guerriere.
Dopo che il trombettiere ebbe
ripetuta la sua cantilena, Garibaldi gli fé cenno che tacesse, e disse a noi
che gli eravamo accanto:
- Adesso pensiamo a dar due buone
bastonate a quei signori.
Il cielo era sereno e tranquillo, e
non si udiva per tutta la vallata lo stormire di una foglia.
I volontari erano distesi sull'erba,
guardando il nemico.
Avevo in quel momento accant'a me due
bersaglieri, tre o quattro passi indietro avevo Nino Marchese.
- Nino, - gli dissi - tra qualche
minuto sentirai fischiar le palle.
Sta' fermo e guarda me; e quando
vendrai ch'io salto giù, seguimi senza paura e non fermarti sinché io no mi
fermi.
Nino sorrise, e alzò il cane della
carabina.
A quel rumore, il generale volse il
capo, ed esclamò:
- Nessuno faccia fuoco senza mio
ordine! Tirare da lontano è segno di paura.
In quel mentre le trombe napoletane
suonarono avanti, e udimmo le voci dei capi-quadriglie ripetere i comandi.
Poi, dopo alcuni istanti, udimmo uno strano coro d'impertinenze, che quÈ
bravi cacciatori ci regalavano per antipasto, mentre venivano innanzi gobbi
gobbi, come se andassero a caccia alle quaglie. Gridavano quei poveri soldatelli:
Mo venimme, mo venimme, straccioni, carognoni, malandrini. Un altro squillo di
tromba, e le palle cominciarono a fischiare sulle nostre teste...)
Per
concludere credo sia opportuno fare una sintesi: la massoneria, soprattutto
quella inglese, decretò il successo della spedizione dei mille, fornendo denaro
per corrompere i comandanti militari borbonici e anche i maggiori politici
napoletani. Dunque, il merito di Garibaldi viene ampiamente e, giustamente, ridimensionato.
Il Regno delle Due Sicilie, per quanto inetto fosse il suo re, era pur sempre
una realtà non dissimile dal Regno di Piemonte, che, nel cosiddetto
risorgimento, non si interessò di sollevare gli italiani (e del resto nemmeno
loro presero la cosa a cuore), ma di annettere nuovi territori. Insomma, fu una
guerra di conquista e non di liberazione. E ciò è tanto più vero ove si
consideri quanto avvenne dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie,
considerato una vera e propria colonia, con un marcato impegno a depredarla e a
trattare i suoi abitanti alla stregua di selvaggi incivilizzabili. Ci fu
indubbiamente un tentativo di restaurazione della precedente monarchia, ma
furono anche la fame e le promesse disattese ad accendere quel fenomeno che troppo
sbrigativamente, e per celarne la natura, fu chiamato “brigantaggio”. Una
guerra per bande, sanguinosa e feroce, che costò ai meridionali un numero
imprecisato di vittime, ma che alcune fonti fanno ascendere a più di centomila,
se non addirittura duecentomila. Si venne a determinare così una generale
sfiducia verso lo stato che diede inizio a quel fenomeno, tuttora in essere,
denominato più genericamente “La questione meridionale”.
Concordi
e hai qualcosa da aggiungere?
Concordo
pienamente la tua disamine. L’argomento Unità d’Italia non è facile da
trattare. Di luoghi comuni ce ne sono tanti ma se approfonditi riemergono dei
particolari che forse per la coscienza umana è meglio ignorarli. La politica di
oggi e quella di ieri si differenzia di poco. Il più forte comanda e segna i
confini di sua convenienza.
Di
tutto il Risorgimento italiano vi sono personaggi che vanno messi sugli altari
della gloria ed altri che sono stati delle meteore che hanno seminato solo
morte e miseria.
Garibaldi
l’idealista, l’eroe del tempo, la star europea, l’uomo che entusiasmava i
giovani, li faceva sognare, fu utilizzato e spremuto come un limone e poi messo
da parte e confinato nel suo eremo di Caprera, a volte sorvegliato a vista
dalla flotta piemontese.
Cavour intelligente e cinico, vero uomo di
stato senza scrupoli e senza anima, Mazzini il filosofo, l’educatore ma con
mancanza si senso pratico. Vittorio Emanuele l’uomo di facciata, lontano dai
meridionali anzi li disprezzava.
Francesco
II, troppo ingenuo e “ fesso” per il suo ruolo, anche se onesto.
Il
generale Cialdini l’uomo che ha sulla coscienza migliaia di vittime e soprusi.
Così
Pietro Zuzolo e Ciccillo Esposito videro i maggiori protagonisti del tempo.
Dispiace
fermarsi, perché l’argomento merita di essere ulteriormente trattato, ma
bisogna pur arrivare al termine onde non stancare i lettori, che, d’altra
parte, qualora fossero intenzionati ad approfondire o a saperne di più,
potranno trovare ampia soddisfazione in questo tuo libro.
Quindi
mi accommiato, con l’augurio di successo per L’altra faccia dell’unità
d’Italia, opera senz’altro meritevole di attenzione.
Recensione
e intervista a cura di Renzo Montagnoli
Belle sia la recensione che l'intervista. In effetti c'era molto che non mi quadrava con gli insegnamenti scolastici, soprattutto il fatto che Garibaldi con pochi uomini e male armati avesse ragione di uno degli eserciti più forti in Europa.
RispondiEliminaAgnese Addari
Intrighi, tradimenti, affari sporchi sono i metodi della politica, ieri come oggi.
RispondiEliminaCome far fronte, se non istruendo i giovani a non credere nelle promesse fatte dagli uomini del potere.
Garibaldi e i suoi fedeli sono esempi di amor patrio, da venerare e seguire. L'Italia degli italiani è un'altra, e in lei bisogna crederci e sperare che si realizzi con altri metodi che non siano quelli della guerra, bensì con la coscienza al servizio dell'onestà, laboriosità e consapevolezza di come funziona questo mondo.
Lorenzo