domenica 9 giugno 2019

Consigli di lettura per l’estate 2019





Ana Macarena – Daniele Semeraro – Castelvecchi – Pagg. 432 – ISBN 9788832824735 - Euro 19,50


Il primo libro di Semeraro che leggo è Scrivere polvere edito Lupo Editore  e credo che sia uno dei migliori libri scritti da un’emergente, ricordo che rimasi incollata alle pagine fino alla fine, e oggi, a distanza di anni, ne porto ancora un ricordo limpido.
Mi approccio a 
Ana Macarena con una certa titubanza, ho paura di perdere la magia che l’autore mi aveva regalato con la sua prima pubblicazione e invece sono felice di dire che mi sbagliavo. Daniele Semeraro è una conferma e sono certa che farà moltissima strada!
Ana Macarena è tratto da una storia vera, una realtà sconvolgente che spesso ci è molto vicina, nonostante veliamo gli occhi per non guardare.
Quando caddi al mondo aveva quattordici anni. Erano coetanee, lei e la mia prima madre.
Ana è una degli abitanti delle fogne di Bucarest.  Al di sotto di Bucarest vive una città che nessuno immagina, è la città sotterranea che si snoda attraverso la rete fognaria dove migliaia di persone si sono rifugiate dopo il crollo del regime di Ceausescu.
Quelli che all’epoca erano bambini e orfani, oggi sono adulti che continuano a resistere per sopravvivere nei sotterranei della capitale romena.
Il capo della città sotterranea è un uomo sulla trentina che si fa chiamare Bruce Lee i gli abitanti sotterranei girano per la città, chiedendo l’elemosina o frugando nella spazzatura, usata per reperire tutto quello di cui hanno bisogno. È una vita fatta di violenze in cui, soprattutto i bambini, vengono usati per rapporti sessuali a pagamento da turisti che a volte si recano là proprio per questo. È inoltre, e soprattutto, una vita di droga in tutte le sue forme, tra cui spicca l’aurolac una vernice sintetica dalle forti qualità allucinogene che viene sniffata da tutti, ragazzini compresi, ma che ha forti ripercussioni sulla salute delle persone che ne fanno uso. È la droga più popolare in questo mondo perché costa poco (meno di un euro a bottiglia) e permette di evadere dalla realtà. Il dimenticare la propria situazione è l’obiettivo che spinge queste persone a rifugiarsi nella droga e negli effetti che questa procura.” (https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2014/04/15/news/traffico_di_esserei_umani-83662247/?refresh_ce)
Non conoscevo questa realtà, non in tutta la sua crudezza.
Ana Macarena è un il triste viaggio, un viaggio della speranza di una bambina, ma che si rivelerà il viaggio versoi soprusi, violenze, fatica… verso una morte crudele.
Un popolo costretto a estirpare le proprie radici per trapiantarle altrove non può che inselvatichirsi e riavvicinarsi allo stato brado tipico delle bestie.
Ana da Bucarest arriva in Italia e qui si apre il mondo spietato del traffico degli esseri umani, Ana Macarena vuol essere una denuncia, e per quanto mi riguarda, è doloroso scoprire che il tuo paese è una delle destinazioni preferite del traffico di esseri umani, un fenomeno che riguarda tutti i migranti, persone fatte arrivare con l’inganno di una vita migliore ma che in realtà diverranno “animali da fatica” sfruttati fino all’osso una volta arrivati a destinazione.
Ana viaggia da Bucarest al Tavoliere delle Puglie, qui inizia la sua schiavitù fino ad arrivare mesi dopo in Sicilia. “Liberata” arriva a Firenze, dove vedrà uno spiraglio di vita “normale”, ma si dimostrerà una piccola illusione prima della catastrofe.
Più forzato è il distacco dalle proprie radici, più il vuoto negli occhi di chi arriva in un Paese straniero per restarci assomiglia a un pozzo senza fondo. Il mio era di una fissità superficiale, senza profondità. I miei occhi, allora, erano simili a uno specchio dalla facciata opaca, privo della funzione riflettente, organi incapaci di far trasparire emozioni, di svelarle all’esterno.
Nonostante i soprusi Ana non riesce a ribellarsi, per lei che veniva dalle fogne, nulla è peggio di ciò che aveva lasciato a Bucarest.
Noi figli delle fogne abbiamo un rapporto particolare col Signore, con la sua opera, con la sua presenza. Per noi Dio è rassegnazione. Siamo nelle sue mani e sappiamo per certo che Lui è grande, come sappiamo che dobbiamo morire. Questa è una delle risposte autoconsolatorie che vi darebbe un bambino delle fogne alla domanda: cosa pensi della tua situazione? Come la vedi? Cosa chiedi a Dio?
Daniele Semeraro si conferma un grande narratore, la sua scrittura è pulita e diretta, non usa fronzoli e non ha paura di raccontare. Un grande plauso all’autore.
Ana Macarena è un libro da leggere perché certe cose non si possono più accettare nel ventunesimo Secolo.


Katia Ciarrocchi




Anna Karenina – Lev Tolstoj – Rizzoli – Pagg. XXVII – 1.210 – ISBN 9788817011525 – Euro 10,90


Saper leggere


Saper leggere significa dunque conoscere? Conoscere significa saper leggere?
Prendo Anna Karenina, mai letto Tolstoj, e letto, rispolvero la biografia, impellente il bisogno di conoscere, inizio a farmi un’idea della sua produzione non per titoli ma per temi e a capire, ma ormai il romanzo è già letto e il danno è fatto: nella mia memoria di lettrice vi si stamperà con queste prime impressioni che, nel tempo, mi appariranno ovvie, scontate, spicciole e del tutto incongruenti rispetto alla complessità dell’autore che ancora non conosco per lettura diretta e integrale.
Diamo tempo al tempo; allo stato attuale questo è il mio sentire.
È un romanzo fresco e moderno per stile e per contenuti eppure è ambientato a fine Ottocento tra Mosca e Pietroburgo, con ampie digressioni sulle condizioni socio-economiche della Russia imperiale di Alessandro II in un’epoca di grandi trasformazioni, una per tutte l’abolizione del vecchio retaggio feudale della servitù della gleba e la conseguente emancipazione dei servi. La modernità risiede nella sua fruibilità nonostante si presenti con la corposità, in termini prettamente numerici circa le pagine, tipica dei romanzi russi; ma è il contenuto che più mi sorprende e con esso la capacità del russo di indagare l’animo umano con rispetto e correttezza riuscendo a consegnare al lettore un ampio ventaglio di casi umani, di sentimenti, di emozioni, di punti di vista, di affascinanti misteri individuali, quali tutti noi siamo. Sono stata impressionata in modo favorevole da questo complesso lavoro di rappresentazione dell’umanità, ho ammirato la capacità dell’autore di dare al lettore la possibilità di farsi una sua personale opinione senza sentirsi influenzato dagli eventi anche quando essi si ponevano con tutta la loro carica emotiva, non sempre positiva. Esco dalla lettura con Levin e Kitty nel cuore, il trionfo della normalità e della semplicità, con un senso di noia rispetto ad Anna pur dispiacendomi il suo destino e la sua parabola di vita, con un misto di rispetto, di commiserazione per suo marito e ancor più per i due figli di Anna, con la consapevole e intelligente rassegnazione di Dolly e con un senso di meraviglia circa la restituzione dei delicati equilibri tra i due sessi soprattutto quando essi sono uniti nel vincolo matrimoniale. Ho spesso pensato che Tolstoj abbia espresso in queste pagine una piena consapevolezza dello schiacciamento sociale subìto dal gentil sesso nel contesto rappresentato e che abbia parteggiato per le donne. Non so se ciò corrisponda al vero, questo ho captato e questo riporto. Mi è piaciuta inoltre l’economia dello scritto, il suo andamento per quadri giustapposti, funzionali a interiorizzare le singole vicende tra esse connesse da una fine rete parentale o dalla frequentazione o dall’appartenenza sociale. Insomma un romanzo perfetto al quale mi sembra difficile attribuire imperfezione alcuna. Non so se ho saputo leggerlo e se una conoscenza più approfondita dell’autore sarebbe stata più funzionale alla lettura, in ogni caso la piacevolezza non può essere dettata da questo aspetto, l’opera si fa amare per la sua essenza che è quella di ogni classico che trascende lo spazio e il tempo per essere sempre apprezzato.


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I cento giorni – Joseph Roth – Adelphi – Pagg. 224 – ISBN 9788845911057 – Euro 14,00

Al tramonto

Ecco l’ennesimo Roth, per me.
In quale dimensione siamo stavolta?
Il romanzo, apparso nel 1935, viene catalogato come romanzo storico e il titolo richiama subito l’epilogo della parabola napoleonica. Siamo lì, apparentemente, ma non dentro quel periodo storico, no, non totalmente. Dietro lo schermo del resoconto degli ultimi giorni da imperatore di Napoleone, dall’Elba a Waterloo, con focalizzazione quasi assoluta sull’uomo solo e vinto e debole alla quale fa da contraltare la vicenda parallela di un umile stiratrice della sua corte, Angelina Pietri, corsa come lui, si cela in realtà, netto, il fantasma di un altro imperatore, di un’altra guerra, di un altro soldato, di un altro periodo storico e per finire di un altro straniero dentro i confini di un impero che si sta dissolvendo.
Insomma, insieme ai suoi più noti “La marcia di Radetzky” e “La cripta dei cappuccini”, anche questo è, a suo modo, un libro sul finis Austriae e ci riporta a quella prosa nostalgica, necessaria per rendere il senso di smarrimento che accompagnò nei sudditi la fine dell’impero asburgico. Le atmosfere sono le stesse, cambiano i personaggi, Napoleone è come Francesco Giuseppe, smarrito e piccolo e ancora acclamato mentre abdica, Waterloo segna la fine di un mito fatto uomo come la resa austriaca la morte dell’impero austroungarico, il suolo della patria francese trema per il polacco Wokurka, ex soldato ora calzolaio che protegge Angelina quando durante il ritorno del re è estromessa dalla corte, come tremò per un povero galiziano con la disgregazione del mito asburgico e per ogni povero reduce della Grande Guerra.
Per chi conosce i temi più importanti della produzione dello scrittore i paralleli sorgono spontanei, e piacevolmente si gode di questa trasposizione della vicenda napoleonica; qui l’imperatore è restituito nella sua dimensione umana, sia nei momenti di gloria, come quest’ultimo colpo di coda, sia nel momento della sua caduta. Ad essa in particolare è dedicata la terza delle quattro sezioni di cui si compone il romanzo, Tramonto, la più intensa, la più bella, la più accorata, scandita dalla Preghiera alla morte, dalla caratterizzazione dell’imperatore sulla stregua del Giobbe biblico (e qui vi consiglio uno dei suoi romanzi più belli, Giobbe, appunto), dal ridimensionamento del delirio di onnipotenza che ci presenta ora un essere umano stanco e più conciliante, più vicino alla dimensione minima dell’esistenza, capace di far tramontare la sua stella, dopo aver dominato il mondo, a quarantasei anni appena. Votato infine ad un altruismo che gli consente di consolare gli altri: “Non curatevi di me, il mio destino si compie da solo”, per consegnarsi prigioniero al nemico.
Per me, bellissimo. Vi lascio però alle suggestioni infinite prodotte da questo uomo nella letteratura e sapientemente ripercorse da Giuseppe Scaraffia nell’ articolo di cui vi offro il link:
http://www.repubblica.it/venerdi/articoli/2017/10/25/news/napoleone_bonaparte_simon_scarrow_mostra_torino-179279123/

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I Gonzaga Storia e segreti - Kate Simon - Newton Compton – Pagg. 364 - ISBN 9788882895730 - Euro 10,00
I Gonzaga e il Rinascimento


A essere sincero, quando ne ho iniziato la lettura affrontando il primo capitolo interlocutorio e, soprattutto, quando mi sono imbattuto nell’Interludio intestato La peste ho perso la voglia di proseguire, perché, francamente, come incipit non è assolutamente invitante; poi, mi sono imposto di andare avanti e la mia decisione si è rivelata giusta, perché l’opera è di pregevole fattura. Non era certo facile narrare dell’ascesa, delle glorie e poi della decadenza del casato dei Gonzaga perché si trattava di avere a che fare con quattro secoli di storia e soprattutto con quel periodo così fecondo per tutte le arti e che è rappresentato dal Rinascimento. Kate Simon si è dimostrata consapevole di queste difficoltà, ma, anziché limitarsi a un puro e semplice, per quanto valido saggio storico sui Gonzaga, ha inteso andar oltre, proponendo al lettore, attraverso le vicende dei Signori di Mantova, un quadro ampio e affascinante del Rinascimento. Riesce a far questo senza perdere di vista l’argomento principale, anzi il lettore, attratto dalle trame ordite dai Gonzaga, dalle loro alterne fortune e dallo splendore che seppero dare a una piccola corte, finirà con il ritrarre un vero piacere nell’essere edotto di un periodo storico, sovente mitizzato, ma qui presentato nella sua nuda realtà costituita da splendore e miseria, da trionfo delle arti e onnipresenti intrighi, da uomini encomiabili e da altri esecrabili. Non sono facile alle lodi sperticate, ma in questo caso, visto l’ambizioso fine e la non comune difficoltà per raggiungerlo, difficoltà abilmente superata, posso dire in tutta consapevolezza che questo saggio relativo proprio al periodo rinascimentale è uno dei migliori che ho letto. Fra l’altro, pur mostrando una certa simpatia per questa famiglia di agricoltori, che, grazie alle fortune accumulate con i frutti della terra, seppe assurgere al rango di nobiltà, facendo diventare la piccola corte di Mantova un punto di preciso riferimento in tutta l’Europa, l’autore non fa sconti, disegnando ritratti a volte impietosi di questi Signori, ben evidenziando i loro pregi e i loro difetti, smitizzando alcuni di essi e ricollocandoli nella corretta posizione di persone magari capaci e influenti, ma certamente non prive di vizi, vizi che in tutte le epoche e forse anche di più nel Rinascimento sono propri del genere umano. Ciò che più colpisce, però, è l’inserimento nella narrazione cronologica delle vite dei Gonzaga di parti chiamate Interludi e che potrebbero far pensare, di primo acchito, come è appunto capitato a me, a delle inopportune digressioni. E invece si rivelano interessanti e indispensabili per comprendere come la storia di una famiglia non possa prescindere dal contesto vigente pro tempore dei grandi fatti e delle arti. Senza citarli tutti, per ovvie ragioni di spazio, segnalo quello dedicato a un grande pedagogo quale fu Vittorino da Feltre, un altro che parla di due autentici virtuosi dell’arte, quali furono per la pittura Andrea Mantegna e per l’architettura Leon Battista Alberti, nonché quello con cui viene dato, per sommi, ma esaurienti capi, un sunto di opere ancor oggi di estremo interesse quali furono Il cortegiano di Baldassarre Castiglione e Il Principe di Nicolò Machiavelli; non posso inoltre dimenticare l’excursus dedicato al teatro e alla musica, che completa nel migliore dei modi un affresco di grande bellezza.
Il libro si conclude, mestamente, con la fine della grande casata, con tutte le opere di grande valore, acquistate nei secoli dai Gonzaga, che lasciano il Palazzo Ducale, disperse nel mondo, per l’ignavia e la scelleratezza degli ultimi discendenti. La luce non si spegne di colpo, ma gradualmente e rimarrà spenta per il periodo di dominazione austriaca, francese, di nuovo austriaca e del nuovo stato italiano, per poi tornare a rifulgere a partire dal dopoguerra, accelerando la vocazione turistica della città di Mantova a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso. Mantova, senza i Gonzaga, sarebbe rimasto un umile borgo agricolo ed è per questo motivo che dobbiamo essere riconoscenti a questa dinastia, che proietta il concetto del bello rinascimentale ai giorni nostri.
Da leggere, senza alcun dubbio.

Kate Simon (5 dicembre 1912 - 4 febbraio 1990) è stato un autore americano di origine polacca e noto anche come Larry.
Ha scritto, fra l’altro, Fifth Avenue: A Very Social Story (1978), è una storia sociale di Manhattan. A Renaissance Tapestry: The Gonzaga of Mantua (1988) racconta la storia del Rinascimento attraverso la storia della famiglia Gonzaga.

Renzo Montagnoli




La reale natura della guerra? Normale crudeltà
«Il macellaio» racconta il clima che portò al primo conflitto mondiale
 

 
Il capolavoro di Sandor Marai (1900-1989) sarà considerato per sempre «LeBraci», tanto che Giulio Nascimbeni, uno dei migliori critici letterari del Corriere della Sera, che non è più fra noi, formatosi nelle pagine dell’Arena, usava dire, per eccesso, che chi ha letto questo romanzo, potrebbe astenersi dal leggere qualsiasi altra cosa.
Comunque, Marai, vissuto fino a quasi novant’anni, è stato molto prolifico come scrittore, quasi perseguitato, nella sua folta produzione, dal tema del destino e dalle sue traiettorie modificate dalle azioni eclatanti o impercettibili di uomini e donne. Questo persistente assunto  lo troviamo in particolate ne «L’isola», ne «L’eredità di Eszster» del 1939 e ne «La donna giusta» del 1941.
«Il macellaio» di cui stiamo trattando ora (Adelphi, pp.98, euro 10, nella bella traduzione di Laura Sgarioto), presenta per così dire una variante, rispetto le opere precedenti, cui abbiamo accennato, qui il destino sembra restare indipendente, avulso dalle azioni umane, e non appare nemmeno un ingombrante intruso che scombini e condizioni l’agire dei protagonisti. Qui è la forza prorompente e incontenibile della natura che agisce. Come una tara ereditaria, è un’agghiacciante esempio di abiezione spontanea, naturale e ragionevole: uccidere animali in un mattatoio o soldati nemici in guerra non fa una grande differenza per Otto Schwarz, il protagonista.
Nell’ottica dell’Autore, continua ad essere la guerra lo stolido e pericoloso palcoscenico della follia delle nazioni che, inconsideratamente, vi aderiscono.
Se sotto «Le Braci» si sottendevano la Prima e la Seconda guerra mondiale, nel «Macellaio» uccidere in guerra diventa qualcosa di inevitabile come una naturale vocazione, come un elemento che portiamo nel nostro DNA cui non possiamo sottrarci.
Le aspre pagine dell’incipit che ci narrano sotto quali infausti presagi viene concepito Otto, figlio di un sellaio di una cittadina del margravio del Brandeburgo, negli ultimi anni dell’Ottocento («Nacque di dieci mesi e con i denti. Il parto costò la vita alla madre») ci fanno subito capire – come rileva acutamente anche Laura Sgarioto, traduttrice dell’aspro romanzo – che l’animo brutale del personaggio anticipa la figura di Moosbrugger, il memorabile criminale de «L’uomo senza qualità» di Musil.
Marai ha saputo concentrare in un personaggio l’incontenibile sommovimento psichico che condusse alla prima guerra mondiale e devastò gli anni successivi. Ma racconta tutto questo con la pacatezza, con lo scrupolo e la concisione di un cronista, come qualcosa che appartiene a una nuova, terrificante normalità.
Otto, un giorno, vede un macellaio all’opera «la  scure scintillava al sole, come gli occhi della mucca, che egli scrutò da vicino e sulla cui cornea si rifletteva placidamente la rimessa, la taverna, i carri e la sua stessa immagine. L’istante in cui vide balenare la scure e subito dopo l’animale stramazzare a terra, s’impresse in lui come il ricordo di una sorta di gioia trionfale».
Marai ci conduce abilmente per mano verso l’epilogo del parossismo della crudeltà, con la consueta magistrale prosa intelligente e pacata, tipica del grande auto

Grazia Giordani




La pace mancata del 1919;gli errori del vertice di Parigi
Nella capitale si decisero i destini del mondo dopo la Grande Guerra.

Certo che capita raramente di leggere con lo stesso coinvolgimento che si presta ad un bel romanzo, un saggio storico come quello di 
Franco Cardini, dal sintetico titolo «La pace mancata» (Mondadori, pp.240, euro 22, collaborazione al testo di Sergio Valzania). La visione critica di Cardini ci fa entrare nel complesso milieu di fatti storici che i testi scolastici tradizionali per imperizia o per scarso senso critico, non avevano e non hanno contemplato con pari lucidità. Così apprendiamo che fra il gennaio 1919 e quello del 1920, a Parigi si decise il destino del mondo. Al termine del grande conflitto che secondo la promessa wilsoniana, avrebbe dovuto «porre fine a tutte le guerre», in un momento decisivo per un possibile riscatto, dopo anni di atrocità, i leader delle quattro potenze vincitrici si riunirono nella capitale francese per discutere i termini della pace, ridisegnando i confini politici e ristabilendo gli equilibri dell’Europa e del mondo. A Parigi si riunirono Woodrow Wilson, Lloyd George, Clemenceau e Orlando Ed ebbero un potere che nessun altro aveva mai avuto prima, ma il loro operato fu un vero disastro.
«Accettare Parigi come sede della Conferenza non fu che uno anche se forse il più grave, degli errori commessi prima ancora che i negoziati avessero inizio (. . .) il presidente Woodrow Wilson decise di assumere personalmente il compito di plenipotenziario statunitense (. . .) Wilson si espose senza schermi allo svolgersi delle trattative e portò quindi le maggiori responsabilità per gli esiti che esse ebbero».
La trattativa che avrebbe dovuto essere un ordine fondato sulla giustizia e il rispetto dei diritti dei popoli, anche per il razzismo e le idee arroganti di Wilson, non fu in grado di dare al continente e al mondo intero un assetto giusto e pacifico.
Ai vinti vennero imposte dure condizioni spesso a scopo vendicativo o sotto la minaccia di continuare ad affamare la popolazione civile.
Sulle rovine degli imperi sconfitti nacquero nuovi stati in cui si affermarono i nazionalismi più gretti da cui scaturirono problemi insolubili e numerose guerre locali.
Le decisioni prese riguardanti la Germania sconfitta, confortata da piccoli Stati con forti minoranze tedesche, contribuirono in maniera fatale alla salita al potere di Hitler.
Il presidente Wilson, del tutto digiuno di vis diplomatica -l’uomo sbagliato al posto sbagliato -, peggiorò quella situazione già annodatissima postbellica, portando i risultati verso la costituzione della Società delle Nazioni, alla quale, paradossalmente, gli stessi Stati Uniti non aderirono. Non si può operare, come fece Wilson, in circostanze così determinanti per il mondo intero, se si è digiuni di astuzie atte al saper negoziare.
Il duo Cardini Vallanzania ripercorre con lucida intelligenza critica i fatti ignoti alla maggior parte di noi, che pure amiamo la Storia, occorsi a Parigi in quell’anno fondamentale, quel 1919 da cui scaturì la pace mancata.
Quasi fossimo provvisti di un’ipotetica moviola, possiamo esaminare, alla luce del prezioso testo, le vicende che precedettero e seguirono la firma dei trattati di pace con i paesi sconfitti. E Cardini, fin dall’incipit del saggio afferma di essere dalla parte dei vinti. In buona sostanza, la Conferenza di Pace del 1919 per i suoi protagonisti – il più volte citato Woodrow Wilson e i primi ministri Lloyd George, Clemenceau e Orlando –fu l’occasione mancata di stabilire un giusto ordine internazionale. I quattro leader ebbero nelle loro mani i destini del mondo, ma costruirono una pace che ha dato solo frutti bacati.
Franco Cardini è professore emerito di storia medievale presso l’Istituto Italiano di Scienze umane e sociali/Scuola normale superiore e Directeur de Recherches nell’ École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, nonché Fellow della Harward University.
Sergio Valanzania storico e studioso della comunicazione, autore radiofonico e televisivo, ha diretto programmi radiofonici della Rai. Scritto su LA NAZIONE, AVVENIRE, LA REPUBBLICA, IL GIORNALE, L’INDIPENDENTE, LIBER

Grazia Giordani



La punizione – Tahar Ben Jelloun – La nave di Teseo – Pagg. 138 – ISBN 9788893445214 – Euro 17,00


Il valore della libertà


Ci sono voluti quasi cinquant’anni prima che Tahar Ben Jelloun trovasse le parole giuste per raccontare la sua storia. Proprio lui, che, di storie, ne ha scritte una infinità, paradossalmente, non riusciva a scrivere la propria. Perché quella narrata ne “La punizione”, il nuovo romanzo dello scrittore marocchino nativo di Fes e residente da lungo tempo in Francia, è una vicenda che sa di memoria e profonda amarezza. Un viaggio a ritroso seguendo le pesanti orme del tempo, una rielaborazione dolorosa ma necessaria di quanto accaduto tanti anni fa per poter chiudere i conti con un passato che non è possibile cancellare né ignorare del tutto.
Era il marzo del 1965 quando gruppi di studenti universitari manifestarono pacificamente per le strade di Rabat e Casablanca; in quell’occasione, la repressione, piuttosto brutale, non si fece attendere. Tra quei ragazzi, c’era anche Tahar Ben Jelloun, all’epoca studente di filosofia. L’anno seguente, per lui e una novantina di altri giovani che erano stati segnalati, la “punizione” bussò alla porta di casa sotto forma di perentoria convocazione a presentarsi presso uno sperduto campo militare nelle vicinanze della città di Meknès, nel nord del Paese. Era l’epoca in cui molta gente spariva all’improvviso, inghiottita dalla cieca violenza del regime dell’allora sovrano Hassan II, e si viveva in un continuo clima di paura; esercito e polizia, avendo carta bianca, facevano ricorso a qualunque mezzo pur di reprimere ogni possibile dissenso. La monarchia ’alawide offriva il volto forse peggiore di tutta la sua storia.

“Cosa abbiamo fatto di così grave? Organizzarci legalmente, manifestare pacificamente, reclamare libertà e rispetto.”

Per tutta risposta, vennero spediti anzitutto al campo militare di El Hajeb, dove ebbe così inizio un vero e proprio internamento, il cui scopo ufficiale era quello di rieducarli e insegnar loro a diventare bravi cittadini, all’insegna del vecchio e abusato slogan “Allah, al-watan, al-malik” (“Dio, la patria, il re”) che ancora oggi si vede scritto a grandi caratteri e disseminato qua e là per il Marocco. A scandire le lunghe giornate in quel luogo poco ameno si susseguivano maltrattamenti, umiliazioni, privazioni di ogni genere alla completa mercé di comandanti militari semianalfabeti, psicopatici e privi di scrupoli, spesso in preda a delirio di onnipotenza.
Picchiati, denutriti, sporchi e infreddoliti, con i capelli costantemente rasati a zero, i “puniti” venivano tenuti nel più totale isolamento, senza che le rispettive famiglie sapessero ciò che in realtà accadeva; per di più, perdere la vita per il minimo accenno di ribellione o a causa di pericolose simulazioni di operazioni di guerra (non mancavano, infatti, le tensioni con la vicina Algeria) rischiava di essere tutt’altro che improbabile. Il giovane Tahar trascorse oltre un anno e mezzo in quello stato di detenzione, mentre a sostenerlo accorrevano, per fortuna, la tenacia della sua poesia, il profondo amore per la letteratura e, da grande appassionato di cinema quale era, la magia delle immagini dei film che amava, come quelle di Charlie Chaplin nei panni di Charlot.

“[…] di fronte alla sensibilità, alla intelligenza, il potere oppone la brutalità e la stupidità. La prima arma è l’umiliazione, questa violenza che consiste nel declassarci, nel metterci sull’orlo del baratro minacciandoci di darci un calcio nella pancia. Mi aggrappo ai ricordi delle mie letture; non so se recito fedelmente ciò che ho letto o invento delle frasi. Ho in mente Dostoevskij, ?echov, Kafka, Victor Hugo… […] Nella mia testa sfilano scene dai film di Charlie Chaplin. Perché il bravo Charlot viene a trovarmi in questa terra ingrata e macchiata da militari abietti? Ne rido di nascosto […] Quell’omino che riesce a ridicolizzare i violenti che lo perseguitano mi ossessiona. Quel genio ha vendicato milioni di umiliati nel mondo. Ecco, questa era la sua missione, il suo disegno. Grazie, Charlot.”

Poi, inattesa e quasi irreale, la fine della prigionia, anche se le sue catene sembravano trascinarsi pure nella vita civile (“Sono stato liberato ma non sono libero.”). La vera liberazione, non a caso, arriverà soltanto diverso tempo dopo e a seguito di un evento davvero sorprendente e imprevedibile…
Una prosa che cattura fin dalle prime battute, appassionante ed estremamente fluida per un romanzo che si fa testimonianza diretta, viva, palpitante e che riconferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, le straordinarie doti di narratore di Tahar Ben Jelloun, nome tra i più noti e apprezzati sulla scena letteraria internazionale. Il suo linguaggio semplice e chiaro che si propone con garbo, le sue denunce, i suoi messaggi di pace e tolleranza religiosa (a tal proposito, invito a leggere le bellissime e istruttive pagine del breve saggio “L’Islam spiegato ai nostri figli”, Bompiani, 2001), il suo chiamare tutto col proprio nome e raccontare le cose così come stanno senza edulcorazioni di sorta fanno di lui un autore particolarmente interessante da seguire. Quest’ultimo suo lavoro, nello specifico, come spesso accade in molte opere della vastissima produzione di Ben Jelloun, punta l’attenzione su un Paese, il Marocco, dietro la cui immagine patinata di meta turistica più o meno a buon mercato persistono problemi assai gravi, quali tortura per dissenso politico, sempre mal tollerato dalle autorità, e corruzione abnorme che rallenta l’apparato burocratico e calpesta i diritti dei cittadini, sebbene sotto l’attuale sovrano Mohammed VI, non certo temuto come il terribile padre Hassan II, siano stati realizzati importanti ma non ancora sufficienti cambiamenti.
Infine, un romanzo che, attraverso la vicenda personale del suo autore, ci parla del valore della libertà, di quanto essa sia preziosa per la nostra dignità di esseri umani e di come, talvolta, basti davvero poco per perderla.

“Sarei potuto uscire dal campo cambiato, indurito, adepto della forza e anche della violenza, ma sono uscito com’ero entrato, pieno di illusioni e tenerezza per l’umanità. So che mi sbaglio. Ma senza quella prova e quelle ingiustizie non avrei mai potuto scrivere.” 

Laura Vargiu




La storia – Elsa Morante – Einaudi – Pagg. XXXII-672 – ISBN 9788806219642 – Euro 16,00

Storia e storie


Come tutte le piccole storie umane, anche quella di Ida e Useppe Ramundo si perde nella grande Storia e a essa s'intreccia, al tempo stesso, correndo in parallelo.
Elsa Morante, con una maestria disarmante e forse unica, ci narra la loro povera vicenda in questo romanzo che definire monumentale è poca cosa. Una voce coinvolgente, la sua, capace di scandagliare sentimenti ed emozioni di protagonisti e personaggi vari, nonché di accompagnare il lettore fra le strade di una Roma misera e ferita, ben lontana dai fasti baldanzosi e arroganti del Ventennio. Ed ecco riemergere da queste pagine di una intensità sconvolgente le macerie ancora fumanti di San Lorenzo o la sfollata desolazione di Pietralata o, ancora, i vicoli ormai condannati del Ghetto; dal baratro affannoso del tempo si leva anche il vocio incessante dei vagoni bestiame con il proprio tragico carico umano, in attesa di partenza dalla stazione Tiburtina.
E poi la miseria più nera, la fame, sprazzi di lotta partigiana, mentre la Storia prosegue indifferente il suo cammino e la carne da macello continua a essere immolata sull'altare blasfemo della guerra.
Una scrittura magnifica e potente che si fa strepito di fucili e stupore di bambino, canzoni d'anarchia e ninnenanne perdute tra parentesi evanescenti d'infanzia; una scrittura altresì commovente e profonda che si cala nei vernacoli o nel cuore parlante delle bestie di sincera umanità e, con discrezione, s'insinua nella stantìa promiscuità di periferia, così come nei ricordi e nelle speranze deluse, nei pensieri e nei deliri incoscienti, raccontando ritorni e non ritorni da una guerra che, in verità, non finisce mai del tutto perché, per riprendere le parole di Primo Levi, “guerra è sempre”.
Struggenti e destinati a persistere nella memoria i personaggi di Useppe e Ida, meri pulviscoli in quel cielo sterminato di fragili stelle che è il mondo. Travolgente quello di Nino, drammaticamente sfuggente e ombroso quello di Davide. Ogni presenza all'interno dell'intreccio narrativo è ben collocata, nessun incontro sembra essere lasciato al caso, nemmeno quelli di passaggio che spargono “4 parole in tutto d'italiano” e altrettante poche noncuranti gocce di vita. Non ci sono parole con cui riassumere la trama de “La storia”, se non quelle dell'autrice stessa. Un'opera, dunque, da leggere e custodire dolorosamente nel cuore.


Laura Vargiu



Patria – Fernando Aramburu – Guanda – Pagg. 540 – ISBN  9788823519107 – Euro 19,00

Leggo uno, due libri a settimana, eppure raramente parlo nel blog dei racconti e dei romanzi che ho letto. Non mi sento portato per fare, non dico una recensione, nemmeno una segnalazione che abbia un qualche costrutto sensato. È inutile che stia qui a dire i miei difetti, ma è un fatto che non sono in grado e provo una sana invidia per quelle recensioni ben organizzate, l’analisi, la trama, i punti salienti, i limiti di un libro, tutto sistemato con la cura di una tavola imbandita per la festa.
Ma nonostante questo voglio provare a parlare di Patria, che mi ha letteralmente rapito. È stato un regalo di Natale che una volta scartato avevo guardato con perplessità per la mole, oltre 600 pagine, e per il tema non dei più allettanti, la lotta senza quartiere tra irredentisti/terroristi baschi, l’ETA, e il governo centrale spagnolo, in un arco temporale di una trentina d’anni, dagli ultimi tempi di Franco all’abbandono delle armi nei primi anni del duemila. Avevo altre letture da completare per cui l’ho messo da parte per qualche giorno. Nel frattempo mi era venuta in mente la recensione che avevo letto sul blog di Pina Bertoli e sono andato a rileggerla. È stata la spinta che mi serviva per intraprendere il viaggio.
Ed è stato un viaggio pieno di sorprese e di fascino. Non mi era mai successo con un romanzo così corposo di arrivare in prossimità della fine e desiderare che per magia si raddoppiassero le pagine. Non amo le classifiche ma non ho il minimo dubbio ad affermare che Patriarientra di forza nella mia cinquina di libri preferiti di sempre, semmai il dubbio è sugli altri quattro.
Ma che cosa lo ha reso ai miei occhi un romanzo così speciale?
Innanzitutto l’intreccio sapiente tra la tragica Storia recente della sua terra (Aramburu, l’autore, è basco) e le storie che racconta. Le vicende reali non sono semplice cornice degli eventi inventati, non esiste una linea netta che separi il vero dal verosimile, leggendo non sai, e non t’interessa sapere, se quel determinato episodio sia successo veramente o meno, tutto esiste, allo stesso modo in un’unica dimensione che è la letteratura.
Aramburu è un narratore equidistante, non prende una posizione politica pro o contro l’indipendenza della sua terra, rinuncia alla retorica della partigianeria, ma ha uno sguardo dolente e appassionato su un mondo che si sgretola tra attentati, torture e detenzioni, tra odi intransigenti, piccole o grandi meschinità, e difficili gesti solidali.
La trama è quanto mai semplice, due famiglie di un paesino basco, da sempre legatissime, si ritrovano per una serie di circostanze sui due fronti opposti. Naturalmente non esistono nel romanzo i buoni e i cattivi, esistono persone seguite con costante affetto da Aramburu nel loro destreggiarsi nella vita. Lui non ne giudica le scelte, non ne rimarca gli errori, tutto accade perché forse non poteva essere altrimenti. Soprattutto gli uomini sembrano seguire un binario loro assegnato dal proprio carattere e dall’ambiente, gli uomini vivono, muoiono, uccidono e vengono uccisi, ma sono le donne le vere protagoniste del romanzo, loro stabiliscono la direzione da imprimere alla propria vita, non seguono un binario prestabilito, ma mettono loro stesse le traversine dove ritengono giusto.
Comunque per ambientazione, trama e personaggi, Patria potrebbe essere un romanzo come tanti, è la scrittura a farne un’opera straordinaria.
Aramburu non rispetta la cronologia degli eventi, sembra che ti narri gli episodi così, a mano a mano che gli vengono in mente, come fosse seduto accanto a te, magari con un buon bicchiere di vino in mano (una bottiglia intera, visto quanto a lungo parla) e, alla tua richiesta di notizie sulla sua terra, improvvisi un resoconto caotico che punta tutto sull’immediatezza per essere compreso. A questo aggiungi che, come avviene nelle chiacchiere tra amici, lui passa dalla terza alla prima persona, dal passato remoto al presente all’interno di una stessa frase.
Un gran casino, insomma.
No, per niente. Il fatto è che Aramburu non sta affatto bevendo vino assieme a te davanti al caminetto, no, lui è chino a dipingere le tessere di un mosaico e ha perfettamente in mente il disegno generale ma preferisce pitturare ora un tassello che andrà in alto a destra, subito dopo uno da posizionare al centro, quindi un altro che va messo nell’angolo in basso a sinistra. E tu inizialmente apprezzi la bellezza dei singoli frammenti, ognuno un piccolo gioiello, e solo alla fine quando tutte le tessere saranno al loro posto guarderai stupefatto l’insieme del mosaico. Una meraviglia.

massimolegnani



Sangue di Giuda - Milvia Comastri – Giraldi – Pagg. 258 – ISBN 978-88-6155-767-3 – Euro 13,50


Quattro donne alla deriva

Mio nonno, che forse era un po’ maschilista, diceva che una casa con due donne e senza un uomo su cui potessero sfogare le loro frustrazioni era un posto infernale; non riesco a immaginare, pertanto, come potrebbe essere una dimora in cui vivono quattro donne, peraltro di tre generazioni. E questo libro parla appunto di quattro persone di sesso femminile, strettamente imparentate, che risiedono nella stessa abitazione, ma quasi come estranee, perché nel tempo si è accumulata una indifferenza che a poco a poco è diventata rancore e che ha fatto sì che pur così vicine diventassero così lontane. Abbiamo così modo di conoscere Celeste, la più anziana, che da da anni non esce e sta rintanata in casa e la cui vita sembra imperniata su quei tre pacchetti giornalieri di sigarette di cui non riesce a farne a meno e la cui unica preoccupazione è la nipotina Mira, a parte la litania di una continua imprecazione, quel Sangue di Giuda che dà il titolo all’opera; poi c’è una donna a cui la vita sembra aver negato tutto o quasi e che risponde al nome di Assunta, figlia di Celeste; indi è presente, quando non in giro in cerca di una velleitaria scrittura, Nadia, la bella Nadia, altra figlia di Celeste e madre di Mira, una donna che senza sosta spera di sfondare nel mondo del cinema e che ha numerosi rapporti sessuali con uomini diversi, relazioni fugaci che illusoriamente scambia per amore, e infine l’adolescente Mira, che detesta il comportamento della madre, tutta tesa a prendere sul serio quello che serio non è e viceversa. Insomma direi che è un bel campionario di donne deluse, senza un futuro, fatta eccezione per la giovane Mira che comprende che l’unico modo per fuggire da quella ragnatela domestica è di andarsene, di fuggire.
C’è un’atmosfera opprimente in questo romanzo, quasi un senso di soffocamento tombale e il lettore arriverà a conoscere con gradualità il carattere delle quattro protagoniste e a comprendere cosa si celi in realtà dietro un palpabile alone di mistero. Ma non ci sono solo donne, c’è pure qualche uomo, e direi che i protagonisti maschili non ci fanno una gran bella figura, ma del resto questo è in tutto e per tutto un libro al femminile, in un mondo di sentimenti tipici di questo sesso e con dei risvolti, sul finale, un po’ melodrammatici che personalmente avrei stemperato, ma io sono un uomo e non una donna.
Una cosa è certa, il romanzo di esordio di Milvia Comastri, che fino a ora aveva pubblicato solo prose più brevi, è una rappresentazione intimistica di quella che dovrebbe essere una normale famiglia e non lo è, perché è evidente che non è il vivere sotto lo stesso tetto che fa un’autentica famiglia, e in questo senso sembra quasi rappresentare un’istituzione passata, con la sua storia particolare propria di certe saghe del secolo scorso. Non è facile, in questi casi, esporre ciò che si sente, si corre anche il rischio di infarcire il tutto con dei flash back, che per fortuna l’autrice è riuscita a limitare. Eventualmente ciò che può frenare il lettore è costituito dalle prime pagine, che appaiono abbastanza nebulose e che potrebbero anche distogliere l’attenzione, o addirittura far cessare la lettura. Però, basta superare questo scoglietto, e le cose diventano più semplici, la nebbia si schiarisce e il romanzo fluisce senza inciampi. L’argomento non è di quelli che rientra propriamente nei miei gusti e pur tuttavia devo dire che è riuscito a interessarmi e che quindi questo esordio in una prosa lunga può essere considerato complessivamente positivo e soddisfacente.

Milvia Comastri ha pubblicato tre raccolte di racconti: Donne, ricette, ritorni e abbandoni (Pendragon 2005), Colazione con i Modena City Ramblers (Historica 2012), Squilibri (Antonio Tombolini Editore 2014) e suoi contributi sono presenti in molte antologie. Questo è il suo primo romanzo.

Renzo Montagnoli



Via convento – Roberto Corradi – Compagnia Editoriale Alberti – Pagg. 122 – ISBN 9788893232340 - Euro 15,00


Interessante punto di vista
Via Convento” è il libro d’esordio di Roberto Corradi ed è un’interessante narrazione ironica con un pizzico di cinismo; la scuola materna e primaria in un istituto di suore, vista e raccontata attraverso gli occhi di un bambino, nello specifico attraverso gli occhi di Alberto il protagonista.
Alberto aveva terrore puro di Babbo Natale! E forse ancora di più della Befana.  Ma quindi a casa sua la gente entrava così, come gli pareva? Ma non si potevano studiare altri sistemi? Magari spedizioni, consegne anche tramite conoscenti? E anche in qualche modo rafforzare l’ingresso. Non lo so, sistemi di allarmi, blindature delle porte. L’idea che degli estranei gironzolassero tra il suo soggiorno e la sua cucina mente lui dormiva, lo atterro. E lo atterro a anche il ricordo del nero che aveva visto ovunque in zona suora.”
La narrazione rappresenta per intero la vita scolastica di Albero e dei suoi compagni tra regole più o meno comprese e il timore inculcato loro dai grandi, dalle suore, da un’istituzione: “il grottesco di un mondo fuori dal mondo”
La delusione era maturata lì. Tutta quell’annata già non era piaciuta ad Alberto. E ancora meno gli era piaciuto dover ammettere la tranquillità del regno di suor Liberata e Governata di Dio. E questo era un problema che montava profondamente le sue convinzioni, lo impensieriva, lo incupiva. Suor Liberata non poteva essere rimpianta.”
Lo stupore, la bellezza e l’ingenuità dei bambini è qualcosa che rallegra il cuore e Roberto Corradi con il suo narrare ricolma di gioia l’anima. Via Convento sa di buono, di vero, di ingenuo, una lettura che ti lascia, fino alla fine, un sorriso stampato sulle labbra.
Mi scusi, suor Liberata: ma non abbiamo studiato che gli uomini discendono dalla scimmia? E se discendono dalla scimmia, come faceva Adamo a essere lo stesso il primo?”
La scritta del dell’autore è matura e ben sviluppata, riesce a far vivere in modo chiaro i luoghi e i personaggi, la storia è narrata con grande maestria. Un libro che consiglio, ma soprattutto Roberto Corradi è un autore da tenere sott’occhio.
Il contadino che doveva portare al mercato quei cinque chili di mele del cazzo, quando avrebbe dovuto aspettare per capire se, ricevendo mille lire al chilo dopo averne speso duecento ogni mezzo, lo stavano prendendo per il culo oppure no? Va bene, d’accordo: la volgarità non sarebbe stata d’aiuto.”


Katia Ciarrocchi






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