lunedì 8 luglio 2019

Il ruggito della terra, di Rosella Rapa





Il ruggito della Terra
di Rosella Rapa




Il mio terremoto fu quello dell’ormai lontano 1976, in Friuli.


Io sono Piemontese, ma mia mamma, e sua mamma e innumerevoli generazioni di mamme erano nate a Majano (vicino a S. Daniele, provincia di Udine) uno dei paesi che fu più colpito.


Non ce ne accorgemmo subito. Quel giorno eravamo tutti già tristi, abbattuti. Il nonno, quello paterno, era mancato da poco, ed eravamo andati alla sua messa di Trigesima. Nessuno era in vena di chiacchiere o divertimento; lo schermo grigio-verde della TV a due canali rimase muto.
D’un tratto sentimmo un leggero brusio dal pavimento e mio padre alzò gli occhi verso il lampadario che faceva l’altalena.
  • Il terremoto. – osservò con voce neutra.
Capita spesso a Torino: le Montagne si agitano e i sussulti arrivano smorzati in pianura.
Andammo a letto, stanchi.


Cosa accadde il giorno dopo non lo ricordo con precisione: mio padre prese il quotidiano, ma se lo lesse subito o più tardi, negli intervalli tra le lezioni, non lo so. Ricordo però benissimo che a un certo punto partì una ridda di telefonate, che rimbalzavano di casa in casa, di strada in strada, di paese in paese. Non tutti avevano il telefono allora, né la TV; in più apparve chiaro che molte linee telefoniche erano interrotte. La TV invece mostrava impietosa quel che restava di un paese, vivo fino al giorno prima. Majano era un susseguirsi di rovine: la Chiesa distrutta, il suo “Bel Campanile” polverizzato, le bianche case contadine ripiegate su se stesse.
Finalmente arrivò una notizia: Anna, una lontana parente, fece sapere che stavano tutti bene. Ma chi erano questi tutti? Tutta la sua famiglia o tutto il paese?
Continuarono ore e ore di attese snervanti, con la TV che si era spostata per mostrare Gemona, storico paese di montagna, completamente frantumato.
Verso sera piombò in casa nostra mia nonna, giunta trafelata da Biella, con un giornale in mano, bianca come un lenzuolo, gli occhi fuori dalle orbite.
  • Tutti! Sono morti tutti! –
  • Chi? Cosa? Ma come? La TV… -
  • Non hanno fatto vedere QUESTO ! – Esclamò la nonna Friulana.
Erano due condomini gemelli, originariamente di 5 piani, completamente accartocciati su se stessi.
  • C’era il Pieri, con la Ida… e mio cugino Toj… -
In tutta onestà, io non sapevo chi fossero queste persone, e i condomini non li avevo mai visti. Lasciai mamma e nonna a fare l’elenco dei parenti e a chiedersi se davvero non c’era nessuno vivo e portai la mia mente confusa sulle foto impietose. Un castello di carte abbattuto da un soffio, ecco cosa restava. Rammento benissimo un balcone, con i parapetti in vetro, perfettamente intatto sopra il cumulo di macerie. Pensai che per salvarsi da un terremoto, la cosa più sicura doveva essere uscire sul balcone.


Altre telefonate, giornali, TV, notizie a spiccioli e bocconi, finché finalmente arrivò la conferma che i nostri parenti diretti, il fratello della nonna, con tutta la famiglia, erano vivi e in buona salute, ma in lutto. Nei condomini erano morti quattro cugini anziani, e un ragazzino. Il padre era passato per invitare i genitori a cena, e disse al figlioletto:
  • Vai su, ti aspetto in macchina, chiama i nonni. –
In quel momento scoppiò l’inferno.




I Friulani non sono gente che si piange addosso.


Iniziarono subito a scavare, raccogliere, ricostruire, riparare.
I bambini però non possono lavorare, e non potevano andare a scuola, perché la scuola non c’era più. I miei genitori pensarono quindi di ospitare la cugina di mia mamma, Nine, con i due figlioli. Restarono da noi un paio di mesi, poi la loro casa fu dichiarata agibile, e decisero di tornare al paese, dove il papà continuava a scavare.


I giorni scorsero tranquilli: noi andammo persino a fare un viaggio, completamente rilassati. A settembre poi la nonna portò noi tre bambini al mare, vicino al Tagliamento, non lontano dal suo paese.
L’atmosfera era festosa. Il fratellino piccolo andava sempre sulle giostre con il padrone di casa, io cantavo le musiche che ci facevano compagnia a volume moderato, e non spaccatimpani. Apettavamo mamma e papà che ci avrebbero portati un po’ in giro.
Era tutto molto quieto: si andava in riva al mare per godere dell’ultimo sole; i negozi già chiudevano per trasferirsi in città, avrebbero aperto solo alla fine della primavera successiva. Ogni giorno qualche casa mostrava le tapparelle serrate, e dalla spiaggia semideserta si toglievano pian piano le lunghe file di ombrelloni.
In questo clima crepuscolare, tra una canzonetta e una valigia aperta, mentre sognavo chissà che,


SENTII IL RUGGITO DELLA TERRA.


Ci precipitammo giù dalle scale esterne, dimentichi di ogni consiglio, di ogni invito alla prudenza: sentivo le voci di mia nonna e della padrona di casa urlare qualcosa come “Fuori, fuori tutti!”, e fuori ci ritrovammo, nel giardino ormai senza giostre, ad osservare la casa che tremava e il terreno che sussultava.


Non c’era molto altro da fare: i miei genitori partirono da Torino in fretta e furia per venirci a prendere, le case al mare chiusero d’un colpo; i miei parenti furono trasferiti negli alberghi vicino alla costa, insieme a tutto Majano e a tutti gli altri paesi colpiti dal sisma. Ciò che la prima scossa aveva lasciato in piedi, la seconda aveva definitivamente distrutto. Poi passarono le ruspe a spianare il tutto, e così finì la vecchia Majano.




Circa un anno dopo andammo a far visita ai miei parenti, che vivevano nelle “baracche”.
Ricordo Majano come una lunga fila di case bianche, più o meno malandate, con una piazzetta rotonda (tutto ciò che restava di un pozzo molto antico) e al fondo un negozio-albergo, la chiesa e il campanile.
No, non restava più nulla. Persino mia mamma non trovava punti di riferimento, e mia nonna diceva: “Questo non è il mio paese. Non è il mio paese!”
Trovammo le “baracche”: dei bungalow abbastanza graziosi e comodi, solo molto vicini gli uni agli altri. Intanto stavano già sorgendo dei piccoli condomini, e delle villette nei dintorni. All’orizzonte, su una specie di bassa collina, c’era un parallelepipedo grigio scandito da porte verdi e finestre rosse.
  • Cos’è quello? – chiesi a mia nonna
  • Sono le Case Fanfani. Case popolari, costruite dopo la guerra. -
Rimasi allibita. Quelle cose orrende, costruite con larga abbondanza di cemento armato, erano rimaste tranquille a guardare lo scompiglio intorno a loro. Case popolari, dove non si pagava nemmeno l’affitto.


Pensavo che non avremmo più rivisto Majano, invece dopo qualche mese eravamo di nuovo lì. Un funerale. Lo zio Iba, il fratello di nonna, non aveva resistito. Tutti i giorni tornava a vedere l’asfalto su cui un tempo sorgeva la sua casa, la casa di sua mamma e di tutti i suoi ricordi, belli e brutti. Anche molto brutti, ma era la “sua” casa. Il cuore cominciò a sentire troppo peso, finché in pochi giorni si fermò. Non fu un infarto, semplicemente smise di battere.




Io non so se furono queste vicende, semi-sepolte nella memoria di una ragazzina, a spingermi a studiare geofisica. So solo che quando presi in mano la mappa sismica dell’Italia sentii un brivido lungo la schiena: nessun luogo era sicuro. L’intera nostra penisola, eccetto la Sardegna, è a forte rischio sismico, in alcuni luoghi fortissimo. Perciò, ogni volta che la tragedia si ripete, io non piango, io non prego, io non chiacchiero: io penso alle “Case Fanfani” e quante vite e si sarebbero potute salvare se dal ’76 ad oggi si fossero adottati i rigidi criteri antisismici che il nostro territorio richiede per le nuove costruzioni. TV e giornali riportano solo i dati di quanti muoiono sotto le macerie, ma non si sa chi entra in ospedale e non ne esce più, oppure resta su una sedia a rotelle, o perde la vista o perde la ragione, restando con la mente sconvolta. E per quanto riguarda gli edifici storici, intere città… a Gemona, sopra Majano, gli abitanti andarono a cercare le pietre antiche, una per una, perché non venissero razziate da turisti col senso del macabro.




Non sono mai più ritornata a Majano. Quello è un capitolo chiuso della mia infanzia.
Mia mamma mi ha detto che hanno ricostruito il campanile. Sono andata a vedere su Internet: un orrore a forma di scala, in ferro e cemento. Hanno aspettato 40 anni, potevano aspettarne altri 40.


Non capisco: l’Italia non si ama, e non si amerà mai.


2 commenti:

  1. Quanta tristezza nel leggere questo bel racconto, e quanto male fa! Sono stata a Gemona, tanti anni fa, e anche a San Daniele del Friuli, e nonostante il coraggio e la determinazione dei friulani, che hanno fatto veramente tanto, rimboccandosi le maniche, vedendo i danni e quanto ancora c'era da fare, ho provato tanta ammirazione per loro, ma anche altrettanta amarezza.
    Piera

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  2. Bella testimonianza, Rosella, molto significativa...
    Gio

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