lunedì 8 luglio 2019

La carica degli ultimi, di massimolegnani





La carica degli ultimi
di massimolegnani


Ve lo voglio raccontare quello che ci è successo un giorno, successo a noi che eravamo i manovali del dolore. Ad essere ordinati dovrei iniziare dal giorno della nascita, ma allora ancora non sapevamo nulla, oppure, ad essere sintetici, potrei partire dalla morte, ma a quel punto sapevamo tutto. 
Il fatto è che non è stato per tutti lo stesso giorno, ognuno ci è arrivato attraverso un cammino suo, tortuoso o rettilineo, a seconda. 
Ma di cosa stai parlando, mi chiederete voi, già stufi di leggere nel vago. Non lo so, ho tutto chiaro in mente, ma non è facile spiegare l’affiorare degli affetti, quelli semplici, che ci vuole come un viaggio o una fatica per arrivare a togliere il guinzaglio ai sentimenti, non è facile spiegare il prevalere dei gesti privi di pudore sull’asettico rigore di facciata, spiegare quell’andare oltre la coscienza e il senso del dovere per scoprire che c’è dell’altro, più gratificante e giusto se lo sai sentire. Non è facile spiegare e c’è voglia di tacere. 

Vorrei che conosceste già gli avvenimenti che non mi va di raccontare. Sapete, i fatti sono poco più di un dettaglio necessario, quasi una zavorra per quanto ci è successo dentro. 

D’accordo, d’accordo, se non parlo non potete voi capire lo splendore di papà Davide, il camionista sempre in viaggio, che a cose ormai accadute viene in cucina a chiederci un caffè come ci stesse conferendo un piccolo nobel o la bellezza di mamma Sara, bambolotto sovrappeso di panetteria, che non viene a dire grazie ma a spartire l’emozione di frivole parole. 
Va bene, vi spiego.
Io lavoro in un reparto di provincia, come un albergo a ore, tanta routine, piccoli drammi e poca gloria. 
Alessandra, pochi mesi, tutti vissuti con fatica, ci rimbalza addosso come un pallone elastico scagliato contro il muro. L’avevamo trasferita, tempo prima, alla Rianimazione dell’Infantile, dopo l’ennesimo catastrofico peggioramento. Ma un giorno ci telefonano che ce la rimandano indietro, i genitori hanno espresso il desiderio di sospendere le cure intensive e del resto in questo momento la bambina non ha bisogno del respiratore. 
È una rogna quella che ci sta cadendo addosso e i più scaltri di noi lo capiscono subito. E subito si attrezzano indossando i panni professionali e il camice deontologico, la faccia rigorosa e i termini forbiti (noi siamo tenuti a, legalmente non possiamo esimerci, occorre valutare il risvolto giuridico..); il tutto per tenere lontana la patata bollente. I più scaltri di noi, Nicoletta invece non ce l’ha nemmeno un camice con cui proteggersi, solo magliette poco serie, Nico non sa nascondersi dietro le parole ( fanculo! Ditelo chiaro, è una rottura di coglioni, un vegetale che viene qui a morire con cui non possiamo nemmeno far finta di essere a E.R.), Nico è cocciuta (abbiamo un’occasione unica, non salveremo nessuno, ma forse impareremo ad essere umani), Nico trascina, testarda. 
Ecco, forse è tutta qui la storia, con Alessandra che torna da noi a morire, tra pochi già capaci di accoglierla e i più che ancora si tengono lontani. Ma è lunga la morte attesa, ad Alessandra bastano l’ossigeno e il latte nel sondino per restare attaccata alla vita, come a un passerotto bastano le briciole che gli lasci sul davanzale. 
Ecco, mi fermo qui, a questo tempo sospeso che credevo inutile tempo d’attesa e che s’è fatto mirabile tempo d’azione. Azione degli umili, delle comparse, di quelli che pensi che abbiano poco da dire e niente da dare. 
Mi fermo qui, il resto immaginatelo voi. No, dovete sapere ancora una cosa: dopo un mese i genitori si sono sentiti pronti a portare a casa Alessandra così com’era, moribonda e ancora tenacemente viva. E a casa l’hanno accudita bene, con l’aiuto di Monica, l’infermiera a volte fatua a volte fata, che senza che nessuno gliel’avesse chiesto, ogni giorno dopo il lavoro passava da loro a controllare che ossigeno e sondini fossero in ordine. Ma quando la bimba “finalmentenon ce l’ha più fatta, l’hanno riportata da noi. Capite? Sono tornati qui a condividere le ultime ore della loro figlia, il percorso inverso di qualunque genitore.  E hanno trovato il calore colorato che cercavano.
Ecco, sì, adesso avete tutti gli elementi per immaginare quel tempo sospeso ed il suo epilogo.
Sappiate solo ancora che queste cose possono avvenire solo di notte, quando si è più raccolti, vicini, sinceri, perché il buio aiuta a trovare il filo rosso, quello che ci lega tutti.
E allora adesso immaginate la risata grassa di Antonietta a contagiare mamma Sara negl’istanti tristi, immaginate Alessia, di solito scontrosa, parlare per ore di notte con papà Davide dei tempi giusti per lasciar andare, immaginate Mauri trovare parole semplici a spiegare la deontologia, ma quella vera, quella fatta di cura e cuore più che di cure ormai inutili, immaginate Nico tornata in piena notte in reparto solo per essere presente, immaginate Annetta l’inserviente più minuta e silenziosa, spostare scrivanie e lettini, mettere sedie e fiori, insomma trasformare l’ambulatorio in camera ardente perchè, dottore, mica possiamo permettere che Alessandra vada a passare la notte in obitorio! 
E tu che hai fatto, mi chiederete.
Io? Io ho imparato qualcosa di buono da ciascuno, spero. E di getto ho scritto una lettera ai genitori come fossi la loro figlia che li salutava e li confortava.


1 commento:

  1. Un racconto volutamente confuso e ugualmente lineare. Una storia che è una meraviglia, per come è stata scritta e per quel che "contiene". Davvero bravo. Ottimo il titolo.
    Piera

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