di
Mariangela De Togni
Amava
sedersi sulla roccia piatta, a forma di mezzaluna, la sera, ad
ascoltare il vento che, secondo lui, lo chiamava per nome: “Gioele,
Gioele ….”
Nessuno
sapeva da dove venisse. L’avevano trovato addormentato, in mezzo
alle pecore, proprio la Notte di Natale. Quel giorno, un agnellino,
si era smarrito e quando, finalmente, lo trovarono, intirizzito dal
freddo, stremato dalla paura e dalla fame, i pastori ebbero un
sospiro di sollievo.
Fu
proprio Azzur, il cane pastore, a trovarlo, seminascosto e impigliato
in un fitto cespuglio di rovi. Lo portarono all’ovile, accanto alla
madre che belava disperata, e fu lì, mentre depositavano quel
fagottino bianco e tutto lana, che videro il ragazzo addormentato.
Aveva tra le mani un grappolo d’uva e alcuni datteri.
Aveva
tratti belli, Gioele, grandi occhi verdi e i capelli scuri e
ricciuti. Non parlava molto, ma osservava ed era sempre grato a un
gesto di bontà nei suoi confronti. Il pezzo di focaccia che gli
veniva offerto, il formaggio o la ciotola di latte che gli veniva
data, lui, la condivideva sempre con qualcuno.
Amava
gli animali. Ne sapeva conoscere il carattere, i bisogni, quasi il
pensiero. Preferiva dormire nell’ovile con le pecore e l’unico
asinello un po’ malandato e il cane Azzur, il pastore tedesco dallo
sguardo vivace e intelligente.
Il
grigio gatto Malachia, diffidente per natura, si mostrava
indifferente agli sguardi di Gioele; ma una sera, in cui anche gli
animali sentivano il caldo amore del ragazzo, Malachia, gli saltò
sulle ginocchia e cominciò la sua danza felina. Lui, di giorno,
quando il gregge era al pascolo, si metteva alla finestra dell’ovile,
seminascosto da un po’ di paglia e sonnecchiava, ogni tanto
lanciando sguardi malandrini al bel merlo che osava farsi beffe di
lui, dall’olivo di fronte.
Elias,
il vecchio pastore, parlando bonariamente con lui, gli chiese, un
giorno: “Quanti anni hai?” “Non lo so” rispose.
“E
i tuoi genitori, dove sono, la tua famiglia?”
Non
rispose subito, ma parve rattristarsi, poi in un sussurro: “Non lo
so” rispose.
Allora,
poiché era a piedi nudi, Elias, gli diede un paio di calzari da
mettere, dicendogli che la terra era dura e fredda, d’inverno. Il
giorno dopo, Elias, lo trovò con i calzari avvolti in un ramoscello
d’ulivo. “Ma perché te li sei tolti!” quasi gridò, il
pastore, un po’ confuso e insieme addolorato, dall’assurdo
comportamento di Gioele, che il vecchio pastore non comprendeva. E
Gioele, con un sorriso timido e lo sguardo diritto in quello del suo
padrone, rispose: “ Perché così non si sciupano, Signore!” “Ma
i tuoi piedi?” “Oh, loro sanno camminare e non temono la durezza
della terra”. In realtà, la pianta dei suoi piedi era così
callosa, che poteva considerarsi la suola di un sandalo.
Il
vento soffiava dal mare, quel giorno, portando echi di tempesta.
Sotto una nuvola color carbone, il sole si nascose per lasciare
spazio alla volta celeste che si riempiva di stelle.
“Ecco,
la mia coperta per la notte!” Pensò Gioele.
Era
di spalle e i suoi riccioli, illuminati dalla luna, gli disegnavano
attorno al capo come un aureola di luce.
Sentì
pronunciare il suo nome, che il vento subito afferrò e fece volare
verso il deserto. Era il suo sogno, quello, che spesso lo
accompagnava, nel sonno, da quando si era perduto. “Giole, a piedi
nudi tu camminerai sulla terra dei fiumi, e diventerai “principe”
della pace.”
Questo,
ancora, gli stava ripetendo il “sogno” anche quella notte. A
volte gli ritornavano brandelli di memoria, come se una voce gli
mormorasse di non avere paura, e altre, più agitate, che correvano
via come l’onda del mare. Talvolta gli pareva, chiudendo gli occhi,
di intravedere il volto delicato di una donna, ma talmente bello, da
farlo piangere di gioia. Però, non sapeva dare un nome a questi
sogni così strani e che mai si rivelavano di più.
Elias
lo guardava pensieroso e taciturno, succhiando la sua vecchia pipa,
cercando di capire quel ragazzo bello, smarritosi in chissà quale
tragedia della vita. Pareva avesse fatto sempre il pastore, tanto
conosceva bene il modo di condurre le pecore. Elias lo lasciava fare,
contento di sapere che Azzur, a sua volta, avrebbe seguito le pecore
e anche il ragazzo.
L’aria
era leggera anche se avrebbe dovuto essere caldo e Gioele trovò
rifugio tra due rocce sporgenti. Respirava ad occhi chiusi, c’era
calma intorno. Aveva sulle ginocchia l’agnellino ultimo nato e, ai
suoi piedi il cane pastore dagli occhi neri attenti e colmi di
tenerezza.
Non
lontano scorreva un piccolo torrente il cui profumo arrivava fino a
lui, portato dalle folate di vento. Più tardi, quando il gregge
sarebbe stato sazio e stanco di brucare, lo avrebbe condotto laggiù
a bere di quell’acqua fresca e pura, prima di ritornare al riparo
dell’ovile.
Il
deserto brullo con qualche ciuffo d’erba creava giochi di luce
deliranti sulla sabbia rocciosa. Un lembo di terra in mezzo al
silenzio intriso di storia.
Il
deserto di Giuda! Dalle dune alte e dalla forma un po’ spigolosa,
circondato dalle colline rocciose e dai monti di Giudea è denso di
suggestioni, di emozioni rese dal paesaggio rimasto inviolato.
La
linea irregolare del gruppo delle dune si spezza solo quando incontra
un’oasi e allora le tinte oro, platino, arancio, rosso e ocra del
deserto si trasformano in azzurro, azzurro delle cascate e delle
piccole piscine naturali.
Se
si resta immobili, seduti sulla cima di una duna, si può udire la
sua voce. E’ sottile, appena udibile, dal suono un po’ sordo. E’
il vento che, anche se pare non soffiare, smuove ogni granello di
sabbia e crea una sorta di musica, di fruscio.
Il
tempo passava, si avvicinava il periodo in cui anche il gregge veniva
portato all’ovile più a valle. Gioele si faceva sempre più bello
e grande e forte. Un giorno, verso il mese di dicembre, Chalom,
l’aiuto pastore, vide il ragazzo fermo sul sentiero, come colpito
da un fulmine, lo sguardo fisso in un punto lontano.
Diede
una voce ad Elias che subito corse e anche lui guardò quel punto da
dove si vedeva come una nuvola di polvere rosa. Egli conosceva il
sogno del ragazzo. Ma si sa, i sogni sono come la memoria. E’ come
ricordarsi le cose ad occhi chiusi.
Il
cammello, finalmente, arrestò la sua corsa, proprio davanti a loro.
Ne scese un signore vestito riccamente, sembrava un re, o un principe
di un regno sconosciuto, tanto il suo sguardo era penetrante e vero.
Fissò Gioele e si avvicinò subito a lui. “Mi riconosci? Sono
Gamaliele, primo Ministro del re tuo padre ” . Ma il ragazzo non
rispose. Rimase attonito a guardare quella figura solenne e nello
stesso tempo mite, gentile, piena di premurosa saggezza. Riprese a
parlare: “I tuoi genitori e io ti abbiamo tanto cercato! Ti
pensavamo morto in quella tempesta. E il palazzo del Governatore, lo
ricordi?” Nei begli occhi di Gioele, passò come un lampo di
stupore e poi, guardando con più intensità il suo interlocutore
sorrise. “Sì,” disse, dopo un po’ “sì, ora ricordo”.
Elias
fu il primo a riprendersi da quell’inatteso avvenimento e invitò
il forestiero a condividere con lui il suo desco, dicendo: “Sono
soltanto un povero pastore, non ho molto da offrire al mio Signore”.
“Il tuo cuore è buono e generoso”, rispose Gamaliele, “io e il
mio cammello volentieri accettiamo, per la notte, la tua ospitalità”.
Sotto
le stelle di quel luogo solitario, profumato di acque fresche, di
ulivi e di frutta matura, Gamaliele raccontò come durante una
tempesta di sabbia nel deserto, Gioele, si fosse smarrito assieme al
suo servo Ben. Solo poco tempo fa, per caso, da un mercante in
Gerusalemme, vennero a sapere di un ragazzo presso un pastore, vicino
a un’oasi nel deserto di Giuda. L’oasi di Ein Prat.
Con
la sua bellissima sorgente, alle porte di Gerusalemme, situata nella
valle che, proseguendo verso Gerico, si ricongiunge al Waddi Kelt,
dov’è situato il Monastero di Koziba.
Volle,
poi, parlare da solo con Gioele, per aiutarlo a ricordare i
particolari di quella tragica giornata.
“Solo
una cavalcatura, disse Gamaliele, ritornò a palazzo, dopo tre
giorni”. “E il mio servo Ben?” chiese Gioele. “Di lui,
purtroppo, ancora non sappiamo nulla”, rispose Gamaliele. “Però,
alcuni di una carovana, ci raccontarono di aver veduto un uomo simile
a lui, nei bazar di Gerusalemme. Lo stiamo ancora cercando”.
Ora
Gioele ricordava con emozione, il volto della madre che tante volte
in quel sogno appariva alla soglia del suo cuore. I fratelli, il
padre … piano piano la sua memoria riprendeva il filo del pensiero
interrotto e sepolto da quella tormenta di sabbia.
Quella
notte, volle dormire ancora sotto le stelle con accanto Azzur, che
ogni tanto uggiolava, quasi comprendesse che l’arrivo di quel
forestiero, gli avrebbe portato via l’amico. Perfino il gatto
Malachìa, d’un tratto, gli si accoccolò fra le braccia.
Dal
cuore del ragazzo intanto, sgorgava il salmo della gioia e della
gratitudine: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”.
Tante
altre cose raccontò quella notte ad Elias, Gamaliele. Parlò del
dolore profondo del suo Signore per la perdita del figlio che, del
resto, non avevano mai smesso di cercare, come non avevano smesso di
cercare il fedele servo Ben. Parlò della grande e generosa bontà
del suo re e della sua regina. Della pace che regnava in quel regno
la cui reggia era costruita sull’orlo del mare. Raccontò della
bellezza di quella terra e del suo suolo lussureggiante,
dell’abbondanza dei raccolti e ciò che si diceva, in quel regno,
del figlio più giovane del re, il principe Gioele.
Narrò
come nel giorno della sua nascita, un uomo santo profetizzò che
sarebbe stato per molti il “principe della pace, nella terra dei
fiumi,”. Parole dal senso misterioso eppure così belle perché
bello era il cuore del giovane principe. “In realtà, disse ancora
Gamaliele, la nostra terra è fra due fiumi.”
All’alba
del giorno dopo, prima di partire, Gioele volle ringraziare Elias di
quanto aveva fatto per lui. Avevano, negli occhi i bagliori
dell’aurora nascente e nel cuore la tenerezza per un incontro che
la vita aveva voluto per entrambi colmo di felicità. Elias non aveva
avuto figli, la sua giovane sposa morì un anno dopo il loro
matrimonio. Elias soffrì molto per quella perdita e per lenire il
grande dolore dell’anima, si ritirò nel deserto e lì, iniziò a
fare il pastore e così, piano piano, ritrovò la pace. Quel ragazzo,
capitato da lui come un dono del cielo, lui lo aveva amato proprio
come un figlio, il figlio che non aveva mai avuto.
Poco
dopo, il cammello con le sue palpebre filosofiche, si incamminò al
fianco di Gioele, ritto su un cavallo nero come la notte. L’aveva
comprato per lui Elias, barattandolo con due agnelli dalla bianca
lana ricciuta. Il giovane nomade che gli cedette il cavallo, non
aveva nessun interesse a tenerlo, ma apprezzò molto, invece, i due
agnelli.
Si
dissero “addio” senza parole, nel solo modo a loro congeniale.
Guardandosi negli occhi. Il silenzio divenne totale, in
quell’istante, di intensa umanità. “ Ci rivedremo ancora, un
giorno!” disse Gioele ad Elias. Si guardò attorno e abbracciò con
lo sguardo tutte le cose e le creature che gli erano state care, in
quei giorni di smarrimento. Poi, tutto riprese il suo moto
quotidiano. Ma ognuno avvertiva, nel cuore, come un senso di perdita.
Persino Malacchìa, quel giorno, guardò con un certo affetto il
merlo, sull’ulivo di fronte.
Certo,
anche nella sua mente felina, qualcosa era rimasto di quell’amicizia
sincera, qualcosa anche in lui, a modo suo, rimaneva a dirgli che
aveva perduto un amico.
Lo
sguardo buono di Elias si levò al cielo a ringraziare Yahvè del
dono che gli aveva fatto. Un ragazzo, che per un po’ di tempo, era
stato importante per lui e gli aveva restituito la gioia di vivere.
di
Renzo Montagnoli
Ogni
anno, in questo giorno di metà aprile, esco dalla canonica e, sempre
più malfermo sulle gambe, prendo la strada che lascia le ultime case
del paese, per poi inoltrarsi nel bosco, e salire, dopo un paio di
tornanti, sulla rupe dove, da tempo immemore, accanto alla chiesa
dedicata a Santo Stefano c’è il nostro piccolo cimitero, talmente
piccolo che per contenere tutti i nostri defunti gli stessi vengono
sepolti in piedi. Già il sole è quasi scomparso dietro le cime
innevate dell’Adamello e l’ombra sempre più si allunga,
prendendo possesso dell’intera valle; è primavera, ma le ore di
luce sono ancora poche, l’aria è frizzante e qua e là,
irriducibili, ci sono ancora chiazze di neve. Che cosa mi spinge in
questo posto di silenzio in un’ora così tarda? Che cosa mi impone
di rinunciare alla comodità del divano e al tepore della vecchia
stufa in ghisa per avventurarmi con le poche forze che mi rimangono
in questo percorso dal luogo dei vivi a quello dei morti? Non sono
pazzo, non ho la demenza senile, ma io, don Cherubino Solari, già
parroco del paese, da alcuni anni rimosso per raggiunti limiti di
età, vengo in questo posto in pellegrinaggio, per ricordare,
ringraziando, chi non molti anni fa mi ridiede la fede che stavo
perdendo. E’ una storia lunga e vedrò, per quanto possibile, di
essere breve. Divenni prete più per soggezione che per vocazione,
più per soggezione nei confronti dei miei genitori che tanto lo
desideravano al punto di farmi battezzare con il nome di Cherubino.
Ma poi, quale pastore del mio gregge, sentii nascere in me il
desiderio di esserne la guida, di partecipare alle poche gioie e ai
tanti dolori che guerre e malattie dispensavano a piene mani. Li
accompagnavo nell’ultimo viaggio, convinto che sarebbero andati
incontro a una nuova vita, ma quando mi lasciarono mio padre e mia
madre sentii un vuoto profondo, una disperazione perché nulla poteva
assicurarmi del loro cammino nella vita eterna. Fu un periodo
infelice e non so se ne accorsero i miei parrocchiani, ma se
percepirono qualcosa furono talmente fraterni da non darmelo a
vedere. Erano giorni in cui a dubbi atroci si alternavano improvvise
ed effimere certezze, in cui riperdevo la fede che avevo appena
riagguantata, così che cominciai a disperare, ma proprio allora
avvenne il fatto. Una famiglia veniva da anni in paese per la
villeggiatura, tanto che avevano comprato una vecchia bicocca e
l’avevano sistemata affinché il soggiorno non si limitasse solo a
un paio di mesi estivi, ma anche a uno di quelli invernali. Erano un
padre, una madre, una bambina e un cane. L’inverno prima non erano
venuti e si seppe che era per le condizioni di salute della bimba,
colpita da un male che non perdona. Quando la piccola (aveva otto
anni) si accorse che la vita le sfuggiva di mano espresse il
desiderio di venire a morire al paese e di essere sepolta nel suo
cimitero. Non riuscii a farle visita quando era ancora viva perché
come arrivò chiuse gli occhi per sempre. La ricordo bionda, minuta,
quasi scheletrita, ma con il volto sereno. Il cane, un setter, guaiva
ai piedi del letto, sembrava soffrire e poi mi dissero che morì
alcune ore dopo. Il comune concesse la tumulazione nel proprio
cimitero e così accompagnai anche lei nel suo ultimo viaggio, con i
necrofori che, nell’ultimo tratto da fare a piedi portando in
spalla la bara, si lamentavano del peso non trascurabile della
stessa, tanto che a più d’uno venne il dubbio che vi fosse
rinchiuso anche il corpo del cane. Dopo la messa nella chiesetta e la
tumulazione mi attardai non so per quale ragione, ma anche allora,
come adesso, scesero veloci le ombre della sera e alla luce quasi
irreale della luna non vidi, ma avvertii due spiriti che lasciavano
la terra per innalzarsi in cielo, e mi parve di sentire anche il
latrato di un cane e un’esclamazione di gioia di una bambina. Alzai
gli occhi al cielo, ora sapevo che esisteva un’altra vita, che non
tutto finisce e mi sorpresi a dire fra le lacrime “L’eterno
riposo dona a loro, o Signore”. Da allora non manco un anniversario
e ogni volta avverto in me la presenza di due anime che si ritrovano,
che gioiscono, che corrono per gli immensi prati del cielo, o che
scendono giù al torrente a guardare la luna specchiarsi nelle pozze,
o che risalgono queste vette innevate per fiondarsi nell’infinito.
Alloro mi raccolgo in preghiera, mentre dentro di me cresce una gioia
che vorrei gridare al mondo, una speranza per tutti, anche per chi
non crede, perché in quest’ordine perfetto nulla si crea e nulla
si distrugge. Anche ora mi scendono copiose le lacrime e prima di
lasciare questo luogo di pace sussurrerò “L’eterno riposo dona a
loro, o Signore”, aggiungendo “e anche a me” che avverto
inesorabile, ma non più terribile, l’avvicinarsi di quell’ultimo
passo.
Le
stelle brillano in cielo, la luna sembra sorridere, e leggero come
una piuma mi appresto a tornare a casa.
Nota: Il
racconto ha origine da
un fatto vero, dal desiderio di una bambina, malata, di essere
sepolta nel cimiterino di quel paese che tanto amava. Il resto è
frutto di pura creatività.
di
Vincenzo D’Alessio
Il
Natale è la festività più calda dell’anno: fuori c’è freddo e
nelle case un tepore di festa che illumina le famiglie e i luoghi
dove vivono gli esseri umani.
A
squarciare il buio della notte che incombe sul genere umano c’è la
luce di una Cometa che attraversa i cieli e se non è una cometa è
la luce di tutte le stelle che brillano in questa particolare notte.
La
furia degli uomini si ferma dinanzi a questo evento facendo memoria
della Nascita di un Bambino e il ricordo della loro stessa nascita da
una madre.
Quanto
accadde nel Natale del 1943 è ancora memoria viva.
Raimondo
era un giovane prete, appena nominato parroco di una piccola comunità
delle province campane dove la povertà è radicata come l’ortica
delle siepi.
La
Seconda Guerra Mondiale grondava di lutti e ogni famiglia aveva
qualcuno da piangere o la speranza che il figlio tornasse dal fronte
sano e salvo.
La
neve quell’anno era caduta copiosa e solo il calore del focolare
riusciva a scaldare lo stomaco che brontolava di fronte al poco
mangiare delle giornate.
La
famiglia di don Raimondo abitava distante dal luogo dove il vescovo
aveva destinato il giovane parroco: la madre Maria Nicola era
operaia, il padre Francesco, reduce della Prima Guerra Mondiale,
lavorava anch’egli come operaio, essi sopravvivevano con le scarse
risorse che gli anziani di allora racimolavano senza pensione né
assistenza.
Giunse
la Vigilia di Natale nella casa del giovane sacerdote, i genitori
infreddoliti accanto al focolare aspettavano il ritorno del figlio
per trascorrere insieme la memorabile giornata.
L’unico
mezzo allora per spostarsi era il treno, la “littorina” così
chiamata per via del Fascio Littorio che svettava sul muso del
locomotore Breda, ma la paura dei bombardamenti alleati metteva a
dura prova l’esistenza di chi utilizzava questo mezzo.
Don
Raimondo, alto e snello, infoderato nella lunga tonaca scura bagnata
alla base sulle scarpe pesanti a causa della neve, con passo calmo si
avviava dalla stazione verso la casa paterna distante qualche
chilometro e portava sotto il braccio una scatola.
Il
vento si era calmato ma il cielo plumbeo e minaccioso non faceva
sperare nulla di buono in quella memorabile giornata di dicembre.
Lungo
il cammino che lo portava verso casa il sacerdote pensava al fratello
Aniello sul fronte russo, sentiva nel vento le voci dei soldati
desiderosi di tornarsene alle proprie case ad abbracciare le famiglie
lasciate nell’angoscia. Venne spontanea un’ Ave Maria e
l’invocazione del grande Poeta Dante: “ Vergine Madre, figlia del
tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso
d’etterno consiglio, / ”.
Il
rione natale gli apparve sotto il manto di neve e il leggero fumo dei
camini innalzato dai comignoli verso il cielo sempre più scuro.
La
Guerra, diceva fra sé, è la belva che divora tante giovani vite
senza alcuna pietà né memoria delle sofferenze passate e delle
catastrofi che ne segnano la fine: fame, miseria, orfani e vedove.
Dai
vetri appannati dal tepore della stanza la mamma scorse la sagoma
inconfondibile del figlio che avanzava sull’acciottolato del vicolo
come un raggio di sole in tutto quel candore: Francesco, sta tornando
Raimondo !
Il
padre si alzò e raggiunse la finestra liberandola con la mano dal
vapore: “ Ha un pacco sotto il braccio, finalmente riusciamo a
mangiare qualcosa! ”, disse alla moglie con un pizzico di gioia nel
cuore.
Finalmente
il sacerdote giunse a casa, chiuse il portone alle spalle ed entrò
in cucina disposta a piano terra dell’antica abitazione in via
Santa Caterina.
La
mamma lo aiutò a liberarsi del mantello umido che portava sulla
tonaca, la sciarpa di lana che aveva realizzato con le sue mani, le
scarpe completamente madide d’acqua: “ Raimò, prenderai un
malanno se non provvedi a comprarti un paio di scarponi più
resistenti!”
Il
sacerdote fece giungere alla mamma un sorriso, una carezza sul viso
rugoso, mentre le porgeva una tazza d’orzo caldo messa da parte per
il suo arrivo.
Il
papà, seduto accanto al fuoco disse alla moglie: “ Nicolì, apri
il pacco che ha portato Raimondo così cuoci qualcosa! ”.
La
donna sciolse lo spago che chiudeva ai quattro lati la robusta
scatola di cartone e aprì i lati togliendo la paglia che nascondeva
il contenuto.
Ai
suoi occhi apparvero i personaggi del Presepe, le casette di cartone
e gli altri componenti dell’evento: San Giuseppe, Maria e il
Bambinello.
“ Figlio
mio, hai pensato di fare il presepe qui a casa?, disse la madre al
sacerdote, noi speravamo che portassi qualcosa da mangiare perché
nella pentola ci sono solo i cavoli e qualche patata che tuo padre si
è procurato ieri. Non abbiamo neanche pane!”.
Francesco
con un sorriso riprese la moglie e disse: “ Sarebbe stato meglio
farne un bravo operaio, a quest’ora avrebbe portato a casa qualche
pezzo di pane! ”.
Al
giovane sacerdote le parole del padre, anche se dette col sorriso
sulle labbra, suonarono come un rimprovero.
Si
levò dalla sedia in silenzio, raggiunse la stanza al piano superiore
dove era rimasto il suo letto ancora intatto e cercò di
addormentarsi.
Passò
il tempo mentre il vento aveva ripreso a sbattere contro i vetri
della piccola finestra nella sua stanza.
Lo
svegliò sua madre.
Era
mezzanotte di una notte che avrebbe sparso sui tetti di quella
piccola casa e sull’opaco pianeta, afflitto dal male della Guerra,
la luce irraggiungibile del Natale, nascita e inizio di una calore
che colmava i crampi dolorosi della fame.
Da Racconti
di Provincia (Fara, 2018)
Storia
di un miracolo
di
Stefano
Giannini
Il
male che da un anno affliggeva Francesco restava ancora misterioso.
Dopo
tante visite mediche specialistiche, innumerevoli analisi,
radiografie e TAC, la diagnosi restava ancora incerta. L'ansia, la
tensione e la paura montavano ogni giorno di più al pari
dell'intensificarsi dei dolori all'addome. La preoccupazione
investiva anche la moglie e i figli. La serenità della famiglia era
compromessa. Per i due coniugi, le notti bianche erano sempre più
frequenti.
Finalmente,
dietro consiglio del medico di famiglia, fu presa la decisione di
consultare un noto professore di un centro ospedaliero del nord
Italia.
Così,
muniti di tutte le cartelle cliniche collezionate negli ultimi mesi,
Francesco e la moglie Agnese, partirono fiduciosi e speranzosi.
Consultate
le carte, il professore consigliò un immediato ricovero nel suo
ospedale, prospettando un delicato intervento chirurgico.
Dopo
dieci giorni di degenza e aver ripetuto tutte le analisi di
laboratorio, fu formulata la diagnosi : tumore al
pancreas, in fase avanzata.
Francesco,
viste le facce e gli atteggiamenti dei familiari, si rese conto della
gravità del suo stato, della delicatezza dell'intervento al quale a
giorni sarebbe stato sottoposto e dell'incertezza del suo esito. Per
lenire l'ansia e la paura che stava tormentando il suo spirito, si
rifugiò nella preghiera.
Tutti
i giorni e durante le ore insonni della notte il suo spirito era
rivolto al Signore. Pregava con fervore chiedendo l'intervento per la
sua guarigione a Santa Maria Goretti, della quale era
particolarmente devoto, avendo in comune con lei lo stesso paese
natale, Corinaldo nelle Marche. Con l'approssimarsi
dell'intervento s'intensificarono le sue preghiere, mentre le
sofferenze aumentavano e il suo corpo si debilitava, ma il suo
spirito era rivolto costantemente a Gesù e a S. Maria Goretti.
La
notte precedente l'intervento sognò una bella fanciulla dodicenne
vestita di bianco che incontrava lungo il sentiero di campagna,
costeggiato da cespugli di ginestre in fiore, che dal paesello,
conduceva alla vecchia fonte dell'acqua. Nel sogno anche lui era
adolescente.
La
bella misteriosa fanciulla, dal volto sereno e sorridente, gli occhi
limpidi e luminosi, la voce soave, gli disse: “ Ciao
Francesco, non temere per l'esito dell'intervento, stai sereno,
continua a pregare, non hai niente di grave, presto tornerai a casa
con la tua famiglia”.
Il
mattino successivo, alla consueta visita, i medici trovarono
Francesco rilassato, sereno, viso colorito, disteso e senza dolori.
Seguì immediatamente una visita collegiale ed un consulto col
professore e l'intervento fu sospeso. L'esame con la TAC che seguì,
risultò negativo, il tumore non risultava più visibile, perciò
l'intervento non era più necessario. “ “Per
noi Il paziente è inaspettatamente e misteriosamente guarito. Il
tumore è incredibilmente scomparso “.
Questa fu la sibillina sentenza del professore.
E,
rivolto a Francesco, che lo stava ringraziandolo per le premurose
cure prestate : “ Lei
deve avere un potente Santo protettore in Cielo a cui deve essere
grato per il prezioso dono che le ha fatto, ma se i santi ci
togliessero tutti i pazienti dal letto operatorio noi chirurghi
saremmo tutti a spasso”.
Prima
di lasciare l'ospedale raccontò per la prima volta il sogno alla
suora che spesso era venuta al suo capezzale per incoraggiarlo ed
essa si convinse che la ragazzina apparsagli in sogno non
poteva essere che Santa Maria Goretti
La
stessa sera Francesco era a casa e, accendendo il televisore, con sua
sorpresa, vide che la Rai trasmetteva il film sulla vita della Santa
che lo aveva miracolato, Cielo
sulla palude, una pellicola del 1949.
Commosso e riconoscente, con le lacrime agli occhi, lo seguì con la
massima attenzione.
Questa
è una storia vera..
Racconti suggestivi e coinvolgenti che fanno riflettere sulla complessità della vita e anche su alcuni fatti umanamente non spiegabili.
RispondiEliminaPiera