venerdì 6 marzo 2020

Narrativa religiosa






A forma di mezzaluna
di Mariangela De Togni

Amava sedersi sulla roccia piatta, a forma di mezzaluna, la sera, ad ascoltare il vento che, secondo lui, lo chiamava per nome: “Gioele, Gioele ….”
Nessuno sapeva da dove venisse. L’avevano trovato addormentato, in mezzo alle pecore, proprio la Notte di Natale. Quel giorno, un agnellino, si era smarrito e quando, finalmente, lo trovarono, intirizzito dal freddo, stremato dalla paura e dalla fame, i pastori ebbero un sospiro di sollievo.
Fu proprio Azzur, il cane pastore, a trovarlo, seminascosto e impigliato in un fitto cespuglio di rovi. Lo portarono all’ovile, accanto alla madre che belava disperata, e fu lì, mentre depositavano quel fagottino bianco e tutto lana, che videro il ragazzo addormentato. Aveva tra le mani un grappolo d’uva e alcuni datteri.
Aveva tratti belli, Gioele, grandi occhi verdi e i capelli scuri e ricciuti. Non parlava molto, ma osservava ed era sempre grato a un gesto di bontà nei suoi confronti. Il pezzo di focaccia che gli veniva offerto, il formaggio o la ciotola di latte che gli veniva data, lui, la condivideva sempre con qualcuno.
Amava gli animali. Ne sapeva conoscere il carattere, i bisogni, quasi il pensiero. Preferiva dormire nell’ovile con le pecore e l’unico asinello un po’ malandato e il cane Azzur, il pastore tedesco dallo sguardo vivace e intelligente.
Il grigio gatto Malachia, diffidente per natura, si mostrava indifferente agli sguardi di Gioele; ma una sera, in cui anche gli animali sentivano il caldo amore del ragazzo, Malachia, gli saltò sulle ginocchia e cominciò la sua danza felina. Lui, di giorno, quando il gregge era al pascolo, si metteva alla finestra dell’ovile, seminascosto da un po’ di paglia e sonnecchiava, ogni tanto lanciando sguardi malandrini al bel merlo che osava farsi beffe di lui, dall’olivo di fronte.
Elias, il vecchio pastore, parlando bonariamente con lui, gli chiese, un giorno: “Quanti anni hai?” “Non lo so” rispose.
E i tuoi genitori, dove sono, la tua famiglia?”
Non rispose subito, ma parve rattristarsi, poi in un sussurro: “Non lo so” rispose.
Allora, poiché era a piedi nudi, Elias, gli diede un paio di calzari da mettere, dicendogli che la terra era dura e fredda, d’inverno. Il giorno dopo, Elias, lo trovò con i calzari avvolti in un ramoscello d’ulivo. “Ma perché te li sei tolti!” quasi gridò, il pastore, un po’ confuso e insieme addolorato, dall’assurdo comportamento di Gioele, che il vecchio pastore non comprendeva. E Gioele, con un sorriso timido e lo sguardo diritto in quello del suo padrone, rispose: “ Perché così non si sciupano, Signore!” “Ma i tuoi piedi?” “Oh, loro sanno camminare e non temono la durezza della terra”. In realtà, la pianta dei suoi piedi era così callosa, che poteva considerarsi la suola di un sandalo.
Il vento soffiava dal mare, quel giorno, portando echi di tempesta. Sotto una nuvola color carbone, il sole si nascose per lasciare spazio alla volta celeste che si riempiva di stelle.
Ecco, la mia coperta per la notte!” Pensò Gioele.
Era di spalle e i suoi riccioli, illuminati dalla luna, gli disegnavano attorno al capo come un aureola di luce.
Sentì pronunciare il suo nome, che il vento subito afferrò e fece volare verso il deserto. Era il suo sogno, quello, che spesso lo accompagnava, nel sonno, da quando si era perduto. “Giole, a piedi nudi tu camminerai sulla terra dei fiumi, e diventerai “principe” della pace.”
Questo, ancora, gli stava ripetendo il “sogno” anche quella notte. A volte gli ritornavano brandelli di memoria, come se una voce gli mormorasse di non avere paura, e altre, più agitate, che correvano via come l’onda del mare. Talvolta gli pareva, chiudendo gli occhi, di intravedere il volto delicato di una donna, ma talmente bello, da farlo piangere di gioia. Però, non sapeva dare un nome a questi sogni così strani e che mai si rivelavano di più.
Elias lo guardava pensieroso e taciturno, succhiando la sua vecchia pipa, cercando di capire quel ragazzo bello, smarritosi in chissà quale tragedia della vita. Pareva avesse fatto sempre il pastore, tanto conosceva bene il modo di condurre le pecore. Elias lo lasciava fare, contento di sapere che Azzur, a sua volta, avrebbe seguito le pecore e anche il ragazzo.
L’aria era leggera anche se avrebbe dovuto essere caldo e Gioele trovò rifugio tra due rocce sporgenti. Respirava ad occhi chiusi, c’era calma intorno. Aveva sulle ginocchia l’agnellino ultimo nato e, ai suoi piedi il cane pastore dagli occhi neri attenti e colmi di tenerezza.
Non lontano scorreva un piccolo torrente il cui profumo arrivava fino a lui, portato dalle folate di vento. Più tardi, quando il gregge sarebbe stato sazio e stanco di brucare, lo avrebbe condotto laggiù a bere di quell’acqua fresca e pura, prima di ritornare al riparo dell’ovile.
Il deserto brullo con qualche ciuffo d’erba creava giochi di luce deliranti sulla sabbia rocciosa. Un lembo di terra in mezzo al silenzio intriso di storia.
Il deserto di Giuda! Dalle dune alte e dalla forma un po’ spigolosa, circondato dalle colline rocciose e dai monti di Giudea è denso di suggestioni, di emozioni rese dal paesaggio rimasto inviolato.
La linea irregolare del gruppo delle dune si spezza solo quando incontra un’oasi e allora le tinte oro, platino, arancio, rosso e ocra del deserto si trasformano in azzurro, azzurro delle cascate e delle piccole piscine naturali.
Se si resta immobili, seduti sulla cima di una duna, si può udire la sua voce. E’ sottile, appena udibile, dal suono un po’ sordo. E’ il vento che, anche se pare non soffiare, smuove ogni granello di sabbia e crea una sorta di musica, di fruscio.
Il tempo passava, si avvicinava il periodo in cui anche il gregge veniva portato all’ovile più a valle. Gioele si faceva sempre più bello e grande e forte. Un giorno, verso il mese di dicembre, Chalom, l’aiuto pastore, vide il ragazzo fermo sul sentiero, come colpito da un fulmine, lo sguardo fisso in un punto lontano.
Diede una voce ad Elias che subito corse e anche lui guardò quel punto da dove si vedeva come una nuvola di polvere rosa. Egli conosceva il sogno del ragazzo. Ma si sa, i sogni sono come la memoria. E’ come ricordarsi le cose ad occhi chiusi.
Il cammello, finalmente, arrestò la sua corsa, proprio davanti a loro. Ne scese un signore vestito riccamente, sembrava un re, o un principe di un regno sconosciuto, tanto il suo sguardo era penetrante e vero. Fissò Gioele e si avvicinò subito a lui. “Mi riconosci? Sono Gamaliele, primo Ministro del re tuo padre ” . Ma il ragazzo non rispose. Rimase attonito a guardare quella figura solenne e nello stesso tempo mite, gentile, piena di premurosa saggezza. Riprese a parlare: “I tuoi genitori e io ti abbiamo tanto cercato! Ti pensavamo morto in quella tempesta. E il palazzo del Governatore, lo ricordi?” Nei begli occhi di Gioele, passò come un lampo di stupore e poi, guardando con più intensità il suo interlocutore sorrise. “Sì,” disse, dopo un po’ “sì, ora ricordo”.
Elias fu il primo a riprendersi da quell’inatteso avvenimento e invitò il forestiero a condividere con lui il suo desco, dicendo: “Sono soltanto un povero pastore, non ho molto da offrire al mio Signore”. “Il tuo cuore è buono e generoso”, rispose Gamaliele, “io e il mio cammello volentieri accettiamo, per la notte, la tua ospitalità”.
Sotto le stelle di quel luogo solitario, profumato di acque fresche, di ulivi e di frutta matura, Gamaliele raccontò come durante una tempesta di sabbia nel deserto, Gioele, si fosse smarrito assieme al suo servo Ben. Solo poco tempo fa, per caso, da un mercante in Gerusalemme, vennero a sapere di un ragazzo presso un pastore, vicino a un’oasi nel deserto di Giuda. L’oasi di Ein Prat.
Con la sua bellissima sorgente, alle porte di Gerusalemme, situata nella valle che, proseguendo verso Gerico, si ricongiunge al Waddi Kelt, dov’è situato il Monastero di Koziba.
Volle, poi, parlare da solo con Gioele, per aiutarlo a ricordare i particolari di quella tragica giornata.
Solo una cavalcatura, disse Gamaliele, ritornò a palazzo, dopo tre giorni”. “E il mio servo Ben?” chiese Gioele. “Di lui, purtroppo, ancora non sappiamo nulla”, rispose Gamaliele. “Però, alcuni di una carovana, ci raccontarono di aver veduto un uomo simile a lui, nei bazar di Gerusalemme. Lo stiamo ancora cercando”.
Ora Gioele ricordava con emozione, il volto della madre che tante volte in quel sogno appariva alla soglia del suo cuore. I fratelli, il padre … piano piano la sua memoria riprendeva il filo del pensiero interrotto e sepolto da quella tormenta di sabbia.
Quella notte, volle dormire ancora sotto le stelle con accanto Azzur, che ogni tanto uggiolava, quasi comprendesse che l’arrivo di quel forestiero, gli avrebbe portato via l’amico. Perfino il gatto Malachìa, d’un tratto, gli si accoccolò fra le braccia.
Dal cuore del ragazzo intanto, sgorgava il salmo della gioia e della gratitudine: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”.
Tante altre cose raccontò quella notte ad Elias, Gamaliele. Parlò del dolore profondo del suo Signore per la perdita del figlio che, del resto, non avevano mai smesso di cercare, come non avevano smesso di cercare il fedele servo Ben. Parlò della grande e generosa bontà del suo re e della sua regina. Della pace che regnava in quel regno la cui reggia era costruita sull’orlo del mare. Raccontò della bellezza di quella terra e del suo suolo lussureggiante, dell’abbondanza dei raccolti e ciò che si diceva, in quel regno, del figlio più giovane del re, il principe Gioele.
Narrò come nel giorno della sua nascita, un uomo santo profetizzò che sarebbe stato per molti il “principe della pace, nella terra dei fiumi,”. Parole dal senso misterioso eppure così belle perché bello era il cuore del giovane principe. “In realtà, disse ancora Gamaliele, la nostra terra è fra due fiumi.”
All’alba del giorno dopo, prima di partire, Gioele volle ringraziare Elias di quanto aveva fatto per lui. Avevano, negli occhi i bagliori dell’aurora nascente e nel cuore la tenerezza per un incontro che la vita aveva voluto per entrambi colmo di felicità. Elias non aveva avuto figli, la sua giovane sposa morì un anno dopo il loro matrimonio. Elias soffrì molto per quella perdita e per lenire il grande dolore dell’anima, si ritirò nel deserto e lì, iniziò a fare il pastore e così, piano piano, ritrovò la pace. Quel ragazzo, capitato da lui come un dono del cielo, lui lo aveva amato proprio come un figlio, il figlio che non aveva mai avuto.
Poco dopo, il cammello con le sue palpebre filosofiche, si incamminò al fianco di Gioele, ritto su un cavallo nero come la notte. L’aveva comprato per lui Elias, barattandolo con due agnelli dalla bianca lana ricciuta. Il giovane nomade che gli cedette il cavallo, non aveva nessun interesse a tenerlo, ma apprezzò molto, invece, i due agnelli.
Si dissero “addio” senza parole, nel solo modo a loro congeniale. Guardandosi negli occhi. Il silenzio divenne totale, in quell’istante, di intensa umanità. “ Ci rivedremo ancora, un giorno!” disse Gioele ad Elias. Si guardò attorno e abbracciò con lo sguardo tutte le cose e le creature che gli erano state care, in quei giorni di smarrimento. Poi, tutto riprese il suo moto quotidiano. Ma ognuno avvertiva, nel cuore, come un senso di perdita. Persino Malacchìa, quel giorno, guardò con un certo affetto il merlo, sull’ulivo di fronte.
Certo, anche nella sua mente felina, qualcosa era rimasto di quell’amicizia sincera, qualcosa anche in lui, a modo suo, rimaneva a dirgli che aveva perduto un amico.


Lo sguardo buono di Elias si levò al cielo a ringraziare Yahvè del dono che gli aveva fatto. Un ragazzo, che per un po’ di tempo, era stato importante per lui e gli aveva restituito la gioia di vivere.






L’eterno riposo dona a loro, o Signore
di Renzo Montagnoli

Ogni anno, in questo giorno di metà aprile, esco dalla canonica e, sempre più malfermo sulle gambe, prendo la strada che lascia le ultime case del paese, per poi inoltrarsi nel bosco, e salire, dopo un paio di tornanti, sulla rupe dove, da tempo immemore, accanto alla chiesa dedicata a Santo Stefano c’è il nostro piccolo cimitero, talmente piccolo che per contenere tutti i nostri defunti gli stessi vengono sepolti in piedi. Già il sole è quasi scomparso dietro le cime innevate dell’Adamello e l’ombra sempre più si allunga, prendendo possesso dell’intera valle; è primavera, ma le ore di luce sono ancora poche, l’aria è frizzante e qua e là, irriducibili, ci sono ancora chiazze di neve. Che cosa mi spinge in questo posto di silenzio in un’ora così tarda? Che cosa mi impone di rinunciare alla comodità del divano e al tepore della vecchia stufa in ghisa per avventurarmi con le poche forze che mi rimangono in questo percorso dal luogo dei vivi a quello dei morti? Non sono pazzo, non ho la demenza senile, ma io, don Cherubino Solari, già parroco del paese, da alcuni anni rimosso per raggiunti limiti di età, vengo in questo posto in pellegrinaggio, per ricordare, ringraziando, chi non molti anni fa mi ridiede la fede che stavo perdendo. E’ una storia lunga e vedrò, per quanto possibile, di essere breve. Divenni prete più per soggezione che per vocazione, più per soggezione nei confronti dei miei genitori che tanto lo desideravano al punto di farmi battezzare con il nome di Cherubino. Ma poi, quale pastore del mio gregge, sentii nascere in me il desiderio di esserne la guida, di partecipare alle poche gioie e ai tanti dolori che guerre e malattie dispensavano a piene mani. Li accompagnavo nell’ultimo viaggio, convinto che sarebbero andati incontro a una nuova vita, ma quando mi lasciarono mio padre e mia madre sentii un vuoto profondo, una disperazione perché nulla poteva assicurarmi del loro cammino nella vita eterna. Fu un periodo infelice e non so se ne accorsero i miei parrocchiani, ma se percepirono qualcosa furono talmente fraterni da non darmelo a vedere. Erano giorni in cui a dubbi atroci si alternavano improvvise ed effimere certezze, in cui riperdevo la fede che avevo appena riagguantata, così che cominciai a disperare, ma proprio allora avvenne il fatto. Una famiglia veniva da anni in paese per la villeggiatura, tanto che avevano comprato una vecchia bicocca e l’avevano sistemata affinché il soggiorno non si limitasse solo a un paio di mesi estivi, ma anche a uno di quelli invernali. Erano un padre, una madre, una bambina e un cane. L’inverno prima non erano venuti e si seppe che era per le condizioni di salute della bimba, colpita da un male che non perdona. Quando la piccola (aveva otto anni) si accorse che la vita le sfuggiva di mano espresse il desiderio di venire a morire al paese e di essere sepolta nel suo cimitero. Non riuscii a farle visita quando era ancora viva perché come arrivò chiuse gli occhi per sempre. La ricordo bionda, minuta, quasi scheletrita, ma con il volto sereno. Il cane, un setter, guaiva ai piedi del letto, sembrava soffrire e poi mi dissero che morì alcune ore dopo. Il comune concesse la tumulazione nel proprio cimitero e così accompagnai anche lei nel suo ultimo viaggio, con i necrofori che, nell’ultimo tratto da fare a piedi portando in spalla la bara, si lamentavano del peso non trascurabile della stessa, tanto che a più d’uno venne il dubbio che vi fosse rinchiuso anche il corpo del cane. Dopo la messa nella chiesetta e la tumulazione mi attardai non so per quale ragione, ma anche allora, come adesso, scesero veloci le ombre della sera e alla luce quasi irreale della luna non vidi, ma avvertii due spiriti che lasciavano la terra per innalzarsi in cielo, e mi parve di sentire anche il latrato di un cane e un’esclamazione di gioia di una bambina. Alzai gli occhi al cielo, ora sapevo che esisteva un’altra vita, che non tutto finisce e mi sorpresi a dire fra le lacrime “L’eterno riposo dona a loro, o Signore”. Da allora non manco un anniversario e ogni volta avverto in me la presenza di due anime che si ritrovano, che gioiscono, che corrono per gli immensi prati del cielo, o che scendono giù al torrente a guardare la luna specchiarsi nelle pozze, o che risalgono queste vette innevate per fiondarsi nell’infinito. Alloro mi raccolgo in preghiera, mentre dentro di me cresce una gioia che vorrei gridare al mondo, una speranza per tutti, anche per chi non crede, perché in quest’ordine perfetto nulla si crea e nulla si distrugge. Anche ora mi scendono copiose le lacrime e prima di lasciare questo luogo di pace sussurrerò “L’eterno riposo dona a loro, o Signore”, aggiungendo “e anche a me” che avverto inesorabile, ma non più terribile, l’avvicinarsi di quell’ultimo passo.
Le stelle brillano in cielo, la luna sembra sorridere, e leggero come una piuma mi appresto a tornare a casa.


NotaIl racconto ha origine da un fatto vero, dal desiderio di una bambina, malata, di essere sepolta nel cimiterino di quel paese che tanto amava. Il resto è frutto di pura creatività.



Memoria di un Natale
di Vincenzo D’Alessio

Il Natale è la festività più calda dell’anno: fuori c’è freddo e nelle case un tepore di festa che illumina le famiglie e i luoghi dove vivono gli esseri umani.
A squarciare il buio della notte che incombe sul genere umano c’è la luce di una Cometa che attraversa i cieli e se non è una cometa è la luce di tutte le stelle che brillano in questa particolare notte.
La furia degli uomini si ferma dinanzi a questo evento facendo memoria della Nascita di un Bambino e il ricordo della loro stessa nascita da una madre.
Quanto accadde nel Natale del 1943 è ancora memoria viva.
Raimondo era un giovane prete, appena nominato parroco di una piccola comunità delle province campane dove la povertà è radicata come l’ortica delle siepi.
La Seconda Guerra Mondiale grondava di lutti e ogni famiglia aveva qualcuno da piangere o la speranza che il figlio tornasse dal fronte sano e salvo.
La neve quell’anno era caduta copiosa e solo il calore del focolare riusciva a scaldare lo stomaco che brontolava di fronte al poco mangiare delle giornate.
La famiglia di don Raimondo abitava distante dal luogo dove il vescovo aveva destinato il giovane parroco: la madre Maria Nicola era operaia, il padre Francesco, reduce della Prima Guerra Mondiale, lavorava anch’egli come operaio, essi sopravvivevano con le scarse risorse che gli anziani di allora racimolavano senza pensione né assistenza.
Giunse la Vigilia di Natale nella casa del giovane sacerdote, i genitori infreddoliti accanto al focolare aspettavano il ritorno del figlio per trascorrere insieme la memorabile giornata.
L’unico mezzo allora per spostarsi era il treno, la “littorina” così chiamata per via del Fascio Littorio che svettava sul muso del locomotore Breda, ma la paura dei bombardamenti alleati metteva a dura prova l’esistenza di chi utilizzava questo mezzo.
Don Raimondo, alto e snello, infoderato nella lunga tonaca scura bagnata alla base sulle scarpe pesanti a causa della neve, con passo calmo si avviava dalla stazione verso la casa paterna distante qualche chilometro e portava sotto il braccio una scatola.
Il vento si era calmato ma il cielo plumbeo e minaccioso non faceva sperare nulla di buono in quella memorabile giornata di dicembre.
Lungo il cammino che lo portava verso casa il sacerdote pensava al fratello Aniello sul fronte russo, sentiva nel vento le voci dei soldati desiderosi di tornarsene alle proprie case ad abbracciare le famiglie lasciate nell’angoscia. Venne spontanea un’ Ave Maria e l’invocazione del grande Poeta Dante: “ Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio, / ”.
Il rione natale gli apparve sotto il manto di neve e il leggero fumo dei camini innalzato dai comignoli verso il cielo sempre più scuro.
La Guerra, diceva fra sé, è la belva che divora tante giovani vite senza alcuna pietà né memoria delle sofferenze passate e delle catastrofi che ne segnano la fine: fame, miseria, orfani e vedove.
Dai vetri appannati dal tepore della stanza la mamma scorse la sagoma inconfondibile del figlio che avanzava sull’acciottolato del vicolo come un raggio di sole in tutto quel candore: Francesco, sta tornando Raimondo !
Il padre si alzò e raggiunse la finestra liberandola con la mano dal vapore: “ Ha un pacco sotto il braccio, finalmente riusciamo a mangiare qualcosa! ”, disse alla moglie con un pizzico di gioia nel cuore.
Finalmente il sacerdote giunse a casa, chiuse il portone alle spalle ed entrò in cucina disposta a piano terra dell’antica abitazione in via Santa Caterina.
La mamma lo aiutò a liberarsi del mantello umido che portava sulla tonaca, la sciarpa di lana che aveva realizzato con le sue mani, le scarpe completamente madide d’acqua: “ Raimò, prenderai un malanno se non provvedi a comprarti un paio di scarponi più resistenti!”
Il sacerdote fece giungere alla mamma un sorriso, una carezza sul viso rugoso, mentre le porgeva una tazza d’orzo caldo messa da parte per il suo arrivo.
Il papà, seduto accanto al fuoco disse alla moglie: “ Nicolì, apri il pacco che ha portato Raimondo così cuoci qualcosa! ”.
La donna sciolse lo spago che chiudeva ai quattro lati la robusta scatola di cartone e aprì i lati togliendo la paglia che nascondeva il contenuto.
Ai suoi occhi apparvero i personaggi del Presepe, le casette di cartone e gli altri componenti dell’evento: San Giuseppe, Maria e il Bambinello.
“ Figlio mio, hai pensato di fare il presepe qui a casa?, disse la madre al sacerdote, noi speravamo che portassi qualcosa da mangiare perché nella pentola ci sono solo i cavoli e qualche patata che tuo padre si è procurato ieri. Non abbiamo neanche pane!”.
Francesco con un sorriso riprese la moglie e disse: “ Sarebbe stato meglio farne un bravo operaio, a quest’ora avrebbe portato a casa qualche pezzo di pane! ”.
Al giovane sacerdote le parole del padre, anche se dette col sorriso sulle labbra, suonarono come un rimprovero.
Si levò dalla sedia in silenzio, raggiunse la stanza al piano superiore dove era rimasto il suo letto ancora intatto e cercò di addormentarsi.
Passò il tempo mentre il vento aveva ripreso a sbattere contro i vetri della piccola finestra nella sua stanza.
Lo svegliò sua madre.
Era mezzanotte di una notte che avrebbe sparso sui tetti di quella piccola casa e sull’opaco pianeta, afflitto dal male della Guerra, la luce irraggiungibile del Natale, nascita e inizio di una calore che colmava i crampi dolorosi della fame.

Da Racconti di Provincia (Fara, 2018)




Storia di un miracolo
di Stefano Giannini


Il male che da un anno affliggeva Francesco restava ancora misterioso.
Dopo tante visite mediche specialistiche, innumerevoli analisi, radiografie e TAC, la diagnosi restava ancora incerta. L'ansia, la tensione e la paura montavano ogni giorno di più al pari dell'intensificarsi dei dolori all'addome. La preoccupazione investiva anche la moglie e i figli. La serenità della famiglia era compromessa. Per i due coniugi, le notti bianche erano sempre più frequenti.
Finalmente, dietro consiglio del medico di famiglia, fu presa la decisione di consultare un noto professore di un centro ospedaliero del nord Italia.
Così, muniti di tutte le cartelle cliniche collezionate negli ultimi mesi, Francesco e la moglie Agnese, partirono fiduciosi e speranzosi.
Consultate le carte, il professore consigliò un immediato ricovero nel suo ospedale, prospettando un delicato intervento chirurgico.
Dopo dieci giorni di degenza e aver ripetuto tutte le analisi di laboratorio, fu formulata la diagnosi :  tumore al pancreas, in fase avanzata.
Francesco, viste le facce e gli atteggiamenti dei familiari, si rese conto della gravità del suo stato, della delicatezza dell'intervento al quale a giorni sarebbe stato sottoposto e dell'incertezza del suo esito. Per lenire l'ansia e la paura che stava tormentando il suo spirito, si rifugiò nella preghiera.
Tutti i giorni e durante le ore insonni della notte il suo spirito era rivolto al Signore. Pregava con fervore chiedendo l'intervento per la sua guarigione  a Santa Maria Goretti, della quale era particolarmente devoto, avendo in comune con lei lo stesso paese natale, Corinaldo nelle Marche. Con l'approssimarsi dell'intervento s'intensificarono le sue preghiere, mentre le sofferenze aumentavano e il suo corpo si debilitava, ma il suo spirito era rivolto costantemente a Gesù e a S. Maria Goretti.
La notte precedente l'intervento sognò una bella fanciulla dodicenne vestita di bianco che incontrava lungo il sentiero di campagna, costeggiato da cespugli di ginestre in fiore, che dal paesello, conduceva alla vecchia fonte dell'acqua. Nel sogno anche lui era adolescente.
La bella misteriosa fanciulla, dal volto sereno e sorridente, gli occhi limpidi e luminosi, la voce soave, gli disse: “ Ciao Francesco, non temere per l'esito dell'intervento, stai sereno, continua a pregare, non hai niente di grave, presto tornerai a casa con la tua famiglia”.
Il mattino successivo, alla consueta visita, i medici trovarono Francesco rilassato, sereno, viso colorito, disteso e senza dolori. Seguì immediatamente una visita collegiale ed un consulto col professore e l'intervento fu sospeso. L'esame con la TAC che seguì, risultò negativo, il tumore non risultava più visibile, perciò l'intervento non era più necessario. “ “Per noi Il paziente è inaspettatamente e misteriosamente guarito. Il tumore è incredibilmente scomparso “. Questa  fu la sibillina sentenza del professore.
E, rivolto a Francesco, che lo stava ringraziandolo per le premurose cure prestate : “ Lei deve avere un potente Santo protettore in Cielo a cui deve essere grato per il prezioso dono che le ha fatto, ma se i santi ci togliessero tutti i pazienti dal letto operatorio noi chirurghi saremmo tutti a spasso”.
Prima di lasciare l'ospedale raccontò per la prima volta il sogno alla suora che spesso era venuta al suo capezzale per incoraggiarlo ed essa si convinse che la ragazzina apparsagli in sogno non poteva  essere che Santa Maria Goretti
La stessa sera Francesco era a casa e, accendendo il televisore, con sua sorpresa, vide che la Rai trasmetteva il film sulla vita della Santa che lo aveva miracolato, Cielo sulla palude, una pellicola del 1949. Commosso e riconoscente, con le lacrime agli occhi, lo seguì con la massima attenzione.
Questa è una storia vera..
 
 




1 commento:

  1. Racconti suggestivi e coinvolgenti che fanno riflettere sulla complessità della vita e anche su alcuni fatti umanamente non spiegabili.
    Piera

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