domenica 16 maggio 2021

I racconti

 



I pensieri di Amelia

di Giovanna Giordani


C’era una volta una bambina che si chiamava Amelia. Viveva vicino al mare in un grazioso paesino di pescatori. Amelia amava molto il mare e le piaceva osservarlo in silenzio, seduta sulla spiaggia dove rimaneva tutto il tempo che le era possibile.

Guardava il mare e nella sua mente si affacciava una moltitudine di pensieri con i quali stava volentieri in compagnia perché erano pensieri di pace e serenità.

Un pomeriggio d’estate, mentre i suoi occhi erano puntati verso il cielo,  un enorme gabbiano grigio la sorvolò vicino al capo e…zac, le rubò i  pensieri.

 Amelia lo guardò allontanarsi disperata e iniziò a piangere.

Dopo qualche minuto sentì accanto a lei un soffio di vento e all’improvviso si trovò dinanzi una bellissima fata che le sorrideva.

-       Perché piangi bella bambina? – le chiese la fata. 

Si può immaginare lo stupore e la meraviglia di Amelia di fronte a quella visione. La fata se ne accorse e la incoraggiò così:

 - non spaventarti, io sono la fata del mare e passavo di qui per cercare la mia collana di conchiglie preferita che ho smarrito qualche giorno fa. Dunque non vuoi proprio dirmi qual è la ragione delle tue lacrime? –

Allora Amelia riavutasi dalla sorpresa rispose con la voce rotta dai singhiozzi:

 - un grande gabbiano mi ha rubato i pensieri mentre ero intenta ad ammirare il cielo azzurro come il mare -.

- Oh, questo è proprio un brutto guaio – rispose la fata – ma io voglio aiutarti. Conosco il luogo dove si riuniscono i gabbiani per i loro convegni vespertini. Ma come farò a capire qual è,  fra i tanti,  quello che ti ha rubato i pensieri? Dovresti descrivermelo un po’.

– Ho visto solamente che era più scuro degli altri ed aveva le zampe blu, anziché gialle come quelle di tutti i gabbiani – rispose Amelia.

Allora la fata promise ad Amelia che avrebbe cercato il gabbiano ladro di pensieri e che sarebbe tornata il giorno successivo, nello stesso posto sulla spiaggia, all’ora in cui si erano conosciute.

Amelia si sentì un po’ rasserenata da questo stranissimo incontro e ringraziò la fata del mare.

Il giorno dopo Amelia non mancò  all’appuntamento con la fatina,  la quale si presentò col solito sorriso luminoso e le mani che tenevano stretto uno scrigno a forma di conchiglia.

Amelia la salutò con gioia e speranza. Si sedettero ambedue su uno scoglio che stava li vicino e la fata iniziò il suo racconto.

- Devi sapere – disse – che non ho faticato molto a rintracciare il “tuo” gabbiano in quanto le sue zampe blu spiccavano fra tutte quelle gialle dei suoi compagni. Ma oltre alle zampe blu  aveva sul capo una coroncina luccicante di pietre preziose dai colori dell’arcobaleno. Egli se ne stava in disparte e non partecipava alla conversazione con i suoi compagni,  allora mi sono avvicinata e, siccome io so parlare la lingua dei gabbiani, gli ho chiesto come mai aveva le zampe blu e la coroncina di perle variopinte sul capo. Notai nei suoi occhi una luce riconoscente ed egli incominciò a raccontarmi la sua storia:

-        gentile fata, io sono vittima di un incantesimo in quanto sono un re di un regno lontano ed ero sempre impegnato in guerre e uccisioni finché il mio cuore mano a mano che il tempo passava diventava sempre più insensibile al dolore che provocavo ai miei simili. Ma un giorno toccò a me perdere una guerra e fui imprigionato in un maestoso castello il cui re aveva dei poteri speciali. Lo implorai insistentemente di lasciarmi la vita e la libertà. Questo re mi rispose che avrei avuto  la vita e la libertà, ma sarei stato trasformato in un gabbiano.  Inoltre mi disse che se volevo ridiventare umano avrei dovuto portargli i più bei pensieri che esistessero al mondo. Così, dopo tanto vagare per i cieli, quando ero ormai sfiduciato e rassegnato al mio destino, un pomeriggio vidi sulla spiaggia in riva al mare una bellissima bambina che guardava estasiata il cielo e sopra la sua testa dentro una piccola nuvola bianca brillavano i pensieri più belli del mondo. Senza esitazione li carpii in fretta e questi si tramutarono subito nella corona che mi vedi sul capo,  a conferma  che erano proprio i più bei pensieri del mondo che mi avrebbero potuto liberare dall’incantesimo. Mi fermai in questo luogo per riposarmi un po’ dal mio vagabondare e assaporare la mia gioia, prima di intraprendere il viaggio verso il regno del re-mago.  Ma quando ho cercato di spiccare il volo  le mie ali non riuscivano  più ad aprirsi e così sono disperato. -  

- Le tue ali non si aprono – dissi al gabbiano -  perché la bambina alla quale hai rubato i pensieri ora è triste e piange, perciò ti chiedo di darmi la coroncina dei pensieri affinché io possa restituirgliela.-

- Il gabbiano sulle prime si rifiutò, ma poi, consapevole che in ogni caso non avrebbe potuto volare, mi permise di toglierla dal capo ed eccola qui.-

La fata aprì lo scrigno a forma di conchiglia ed apparve la coroncina luccicante di perle dai colori dell’arcobaleno. 

-       Ecco i tuoi pensieri,  Amelia -  disse la fata -  il gabbiano te li restituisce e ti chiede scusa per averteli rubati.-

-       Ma lui  sarà sempre vittima dell’incantesimo – rispose Amelia – non voglio che la sua vita sia così triste a causa mia.-

A queste parole la coroncina cominciò a brillare di una luce accecante e lentamente nello scrigno ne apparve un’altra uguale identica.

La fata capì immediatamente cosa era successo e, presa la seconda coroncina,  si avviò in cerca del gabbiano dalle zampe blu. Lo ritrovò dove l’aveva lasciato e gli posò la coroncina luminosa sul capo. 

-       Ora noi due voleremo insieme  da Amelia – gli disse.

In poco tempo la raggiunsero. Quando Amelia vide che il gabbiano aveva sul capo la coroncina uguale alla sua ne fu molto felice. Il gabbiano dalle zampe blu sostò per qualche attimo sullo scoglio vicino e poi,  emettendo un forte strillo e sbattendo le ali, si levò nel cielo seguito dagli sguardi della fata e di Amelia finché divenne un piccolo puntino nell’azzurro infinito.

Amelia si augurò che il gabbiano dalle zampe blu arrivasse sano e salvo dal re-mago con la coroncina dei pensieri, al fine di poter spezzare l’incantesimo e ritornare un essere umano.

In pochi giorni le erano accadute cose straordinarie. Si guardò attorno. La fata era scomparsa come era venuta, allora Amelia cercò la coroncina, ma anche questa era sparita. Però sentiva che nella testa i suoi bei pensieri erano tornati al loro posto felici e contenti.

Passarono gli anni. Amelia era diventata una bella ragazza e tutti in paese le volevano bene. Non aveva perso l’abitudine, però, di andare alla spiaggia per farsi incantare dal mare. 

Fu così che, durante uno di quei momenti, scorse sulla rena una grossa bottiglia. Incuriosita, si affrettò a raccoglierla e, vedendo che conteneva un biglietto, tolse il tappo e lo estrasse. Era un foglio bianco sul quale erano scritte con lettere d’oro queste parole:

- Grazie Amelia, i tuoi bei pensieri mi hanno salvato la vita. Li sto portando in giro per il mondo perché voglio donarli a tutti i re,  affinché nei loro regni torni la pace, l’amore e la felicità,  come è successo nel mio, dopo averti incontrata .- 

 Amelia alzò lo sguardo e vide una grande nave bianca che si muoveva lentamente in alto mare.

 Rimise il biglietto nella bottiglia e, colma di gioia, s’incamminò verso casa, mentre i gabbiani l’accompagnavano, alti, danzando.




La matrioska

di Grazia Giordani


Si sa che i vecchi cassetti sono miniere di ricordi, veri forzieri del cuore. Fin da bambina ho amato frugare alla ricerca di spicchi di vita, perdendomi dentro l’avorio di ingiallite fotografie, incantata dall’arabesco di pizzi delicati come sogni che svaniscono all’alba. Il granaio della nonna è stato per anni una vera miniera. È là che ho trovato il ritratto della prozia birichina, quella della fuga col violinista (ricordate il mio racconto Ritratto in cornice ?) e stampe dell’Ottocento e testi miniati e francobolli che il nonno collezionava e una rastrelliera di pistole – subito incamerate da mio cugino -, ma ancora non avevo notato un piccolo stipo (e come avrei potuto, visto che era un cassetto segreto, che non si vedeva a prima vista) nascosto in un canterano scricchiolante, ridotto in stato pietoso, destinato a diventare ormai legna per il caminetto, così almeno diceva la nonna, poco incline a spender soldi per i restauri della vecchia mobilia.
Fu premendo, proprio per caso, con un gesto fortuito, meccanico, non voluto, che vidi aprirsi quello spazio impensato e nel buio mi apparve il volto enigmatico di una splendida matrioska.
Il bisnonno, che adorava viaggiare, era stato in vacanza a San Pietroburgo, molti anni fa e in quell’occasione, suppongo avesse acquistato quella bambola multipla, insieme a un colbacco ormai tutto tarmato e a una provvista di caviale e di vodka, rimasta proverbiale in famiglia. Per anni si era parlato di quel viaggio; le bambine di casa avevano giocato con la matrioska, ammirandone il volto misterioso, le ciglia lunghe, dipinte regolari, sul legno pallido dello sfondo e la gonna stilizzata, su cui si apriva l’incanto di petali rossi, brillanti come i fiori di un’eterna giovinezza. Erano dieci, una dentro l’altra quelle magiche bamboline.
La penultima fu dura da aprire, non voleva svitarsi. In effetti, insieme alla minuscola figlia, conteneva un foglietto, un piccolo quadratino di cara sottile, un velo leggero, che mi sfuggì tra le dita; non portava scritto nulla, non vi erano parole leggibili, al centro solo una macchia rosso-bruna a forma di cuore.
L’ho riposto nella matrioska e ho richiuso il cassetto.
I segreti devono morire col loro autore.
Ci vuole rispetto per i misteri.
Non bisogna risvegliare gli spettri.




Quando Dio perse la pazienza

di Cristina Bove


Isole di plastica occupavano gran parte degli oceani, pesci e cetacei morivano soffocati da sacchetti e bottiglie di plastica, alghe e coralli erano spariti già da tempo. Gli uccelli marini andavano a morire ricoperti di catrame sulle spiagge di immondizie nauseabonde.

Sulle città incombeva lo smog, si propagavano mali incurabili, mali nuovi e oscuri, mali di tossicodipendenza e asocialità. La violenza fomentava guerre che arricchivano sempre più i potenti e gli accaparratori a scapito degli indigenti.
L’odio per il diverso rendeva ciechi e sordi all’altrui sofferenza. Le torture più orribili venivano inventate ed applicate ai corpi di altri esseri umani.
La violenza di genere mieteva donne come spighe, ne occultava le forme ed il pensiero, le lacerava in nome di un amore malato.

I poveri di tutto il mondo, accalcati nelle immense periferie delle città, rinchiusi in falansteri tra spacciatori e drogati (quelli che ancora avevano un lavoro nelle fabbriche sortivano al mattino per guadagnare quanto bastava per sopravvivere e acquistare ciò che le pubblicità televisive inducevano a consumare), erano carne da macello nelle guerre tra banche e governanti: un gregge inerme anestetizzato dai mass-media, ma in cui ciascun individuo, paradossalmente, era illuso di poter accedere alla classe dei privilegiati.

Tra i massimi detentori dei poteri e la massa agonizzante, la borghesia faceva da spartiacque, forte dei propri valori ereditati, culturali e finanziari, immersa nel suo egoistico benessere, dedita ai piaceri dell’arte e del consumo di beni inaccessibili ai miserabili.

Tendaggi e sipari pomposamente ben distribuiti celavano la natura vera del caos.
Spettacoli e concerti, opere che sorprendevano le menti distraendole dai ladrocini dei corrotti, dalle violenze di genere, dai disastri ecologici.

Società castali, piramidi umane dove la base, spolpata a morte, costituiva il concime su cui si innalzavano via via gli strati verso l’alto.
All’apice i padroni del mondo.

Dio era giunto al culmine di ogni benevolenza e comprensione, nemmeno i pochi esseri buoni riuscivano a recargli un minimo conforto. Ormai anche le feste in suo onore gli erano insopportabili. Troppa la contraddizione tra preghiere e operato, troppa la discriminazione tra fratelli, troppa ogni verità rivelata.
Quindi riprese in mano la sua creazione, ordinò ai fiumi di ingrossare gli oceani, a questi di esondare fino a coprire le più alte vette. Ai venti di disperdere ogni traccia di malavita umana e trasportare altrove tra le stelle uomini e donne di buona volontà.
Affranto e desolato, aggiunse il pianto alle acque che tutto travolgevano.
Infine rimpastò l’argilla, fece un palla e la scagliò nell’infinito Nulla.




Quando si trebbiava il grano nell’aia

di  Stefano Giannini

  

Amarcord (mi ricordo) quando, per la prima volta, andai con la “squadra” a trebbiare il grano nelle aie: avevo appena compiuto quindici anni. La mia era una delle tante famiglie bisognose a cui mancava parte del necessario per vivere decentemente. In quei primi anni dopo la guerra la miseria la faceva da padrona in giro per questi greppi. Mio padre, Giuseppe detto “Jusafen”, era un galantuomo, molto parsimonioso nell'amministrare le poche risorse del suo campo. Costretto a tanti sacrifici per far “sbarcare il lunario” a cinque persone : due adulti e tre figli piccoli, il più grandicello ero io. I braccianti nullatenenti, invece, ritenevano mio padre un benestante, in quanto proprietario di un fondo agricolo Ma questo era piccolissimo, solo un ettaro e mezzo di terra magra e poco fertile, su cui doveva fare miracoli per trarre da essa il pane quotidiano per la sua famiglia.

Perciò era necessario avere un'altra fonte di guadagno a supporto delle scarse entrate.

Dopo aver abbandonato il collegio dei Servi di Bologna, dove ero stato mandato per studiare e diventare prete missionario, deludendo così i mie genitori, che probabilmente avevano fatto grossi progetti sul il mio futuro, mio padre mi procurò subito il libretto di lavoro affinché potessi lavorare qualche giornata come bracciante e portare a casa un po' di denaro.

La paga era di 500/600 lire al giorno, erano poche, ma comunque una provvidenza per quei tempi.

Servivano per comperare il sale, un paio di scarpe coi chiodi per l'inverno (d'estate non servivano perché si andava scalzi), un vestitino per le mie sorelle e; raramente, un pi' di carne da brodo.

Un giorno venne a casa nostra un signore alto e distinto, che a me parve imponente e importante.

Conosceva bene mio padre, credo fossero lontani cugini.

Era il caposquadra della campagna di trebbiatura e si chiamava Ernesto.

A mio padre disse che, se il mio libretto di lavoro era “timbrato” e in regola, mi avrebbe assunto per una quindicina di giorni nella sua squadra per la trebbiatura.

Se avessi voluto, avrei potuto iniziare anche il mattino seguente.

All'alba dovevo trovarmi presso il podere della Cassandra dalla Signora Caterina degli Onofri (era un bel podere di proprietà di una buona famiglia, brava gente, onesta generosa e laboriosa.)

Al mattino seguente, alle cinque e mezzo, puntuale, ero sull'aia. Già vi trovai altre persone. Diverse donne coi fazzoletti legati al collo e dei cappellacci di paglia in testa. Gli uomini erano indaffarati a mettere in piano la trebbiatrice, con la livella e delle zeppe di legno che venivano inserite sotto le ruote di ferro. Tutti assieme facevano un gran chiasso. Si udivano grida e urla da ogni parte. Il motore già in moto (si trattava di un “Bubba” a testa calda, a petrolio) era collegato con il “cinghione” alla trebbiatrice (dalle nostre parti ancora non era arrivato il trattore a cingoli).

La macchina da trebbiare l'avevano trainata con due paia di buoi da Ca' di Santuccio la sera prima. Era grande, bella, tutta di legno marrone chiaro, nella sua imponenza mi faceva quasi soggezione.

In mezzo all'aia v'era una bellissimo “barco” di grano che sembrava un monumento e, piantata sulla sua cuspide, una croce di canna. Il “barco” era molto grande, tutto tondo, con una punta a cono perfetta. Le spighe spiovevano verso terra tutte precise e pari come un tetto di coppi.

Era proprio un capolavoro d'arte contadina.

Era un vero peccato doverlo guastare. Avrebbe potuto piovere anche per un mese che l'acqua certamente non sarebbe penetrata a bagnare il grano nel centro del “barco”.

Di fianco si trovava un'altro “barco” più piccolo, di orzo. Per terra, sotto i due barchi e tutt'intorno vi era stata data la “biuvacca”, così che la terra era tutta liscia e marrone rilucente al sole come un pavimento di cotto delle nostre case di oggi.

Seppi che la “biuvacca” veniva fatta con lo sterco di vacca allungato con acqua. Si spandeva nell'aia affinché con la scopa si potesse meglio raccogliere il grano che sarebbe caduto a terra durante la trebbiatura ed anche perché non si formasse il fango se pioveva.

Arrivò anche Ernesto che iniziò ad assegnare il posto di lavoro ai componenti della squadra.

Due donne coi rastrelli, alla pula : la Rosina di Gigiot, che era magra come uno stecco, e la Teresa di Luigi, la quale invece era grossa e grassa. Sorrisi nel vederle assieme, anche perché indossavano dei vecchi calzoni dei loro mariti, tutti rattoppati nel sedere.

Alla paglia mandò altre due donne robuste e forti che, con le forche, dovevano spingerla verso il pagliaio, dove un uomo alzava grosse forche di paglia all'altezza del pagliaio in crescita che venivano prelevate da Giovanni di Capro, detto Zvanin, il quale, assieme ad un'altra donna (era la Maria di Falchetto), costruivano e modellavano il pagliaio come si doveva.

Poi mandò due uomini, coi tridenti, sopra il barco, i quali dovevano alzare le cove di grano e passarle alla Filomena (la moglie di Tugnon) che, lesta come la polvere, con un falcetto le slegava e a sua volta le passava al “paiarol” (Domenico dei Sassoni, detto Minghin), lo specialista della battitura. Infilava il grano nel battitore in giusta misura : né troppi, né pochi mannelli, questo per non intoppare la trebbia. Il suo era anche il lavoro più delicato e rischioso..

L'aiuto macchinista era Alvaro, un ragazzo di tre /quattro anni più grande di me, molto in gamba.

Dopo aver messo ogni operaio al suo posto, Ernesto mi chiamò:a te Stefanino che sei ancora un ragazzetto, non intendo farti mangiare tanta polvere, vai alle buchette dietro la trebbiadove esce il grano, apri e chiudi gli sportellini quando il mastello è pieno, inoltre aiuta gli altri uomini a riempire la “quartarola” e a pesare i sacchi con la “stadera”. Però sta attento al “cinghione” che è molto pericoloso : l'artr'anno nel podere di Canporcino un uomo restò sfregiato al viso per esserci passato sotto mentre era in movimento.

Nel frattempo arrivarono i figli della padrona del podere (erano dei coltivatori diretti), portarono molti sacchi di juta ed altri di tela di canapa bianchi con delle righe marroni.

Li aveva tessuti in casa d'inverno la Caterina, col telaio di famiglia e…tanta pazienza.

Essi riempivano e pesavano i sacchi di grano e, con una matita, vi segnavano sopra il numero dei kg

Incominciammo a trebbiare verso le sei e mezza. Un rumore, un fumo, un polverone, che sembrava fosse comparsa la nebbia.

Quelle povere donne addette alla pula e quelle alla paglia, già dopo poco sembravano dei mostri : tutte coperte di pula e di polvere, tanta altra ne inghiottivano respirando.

Anch'io, come tutti, misi un fazzoletto attorno alla bocca.

Per due o tre volte si ruppe il cinghione, che, collegato alla trebbia, con la forza del motore, faceva girare tutte le pulegge e i valli. Il motorista, ogni volta, sgranava un rosario di bestemmie che bruciavano l'aria e poi si arrabbiava col “paiarol”, che secondo lui intoppava il battitore inserendovi troppo grano in una volta. Si scambiarono un sacco di brutture da cani, irripetibili.

Intanto che aggiustavano il cinghione, che era di cuoio, arrivò la Gigina, nipote della padrona.

Era una ragazzetta mora, dotata di tutti gli attributi e le curve giuste, con i capelli lunghi sciolti e gli occhi neri come il carbone, la quale, con un fiasco di vino, un bottiglione di acqua, offriva da bere a tutti i presenti: lavoratori e assistenti.

Vi erano certi uomini che si bevevano anche tre bicchieri di vino alla volta. Le donne un po' meno, loro lo annaffiavano con l'acqua.

Dalla sua bocca larga, la trebbia, sputava di continuo cumoli di paglia, che a stento, quelle donne riuscivano in tempo a tirarla via da sotto.

Il grano che usciva era bello e sano, ne scendeva una buchetta piena piena. In un attimo il mastello era colmo ed io svelto lo toglievo e al volo ne sistemavo sotto un'altro vuoto.

Era una bella giornata, il sole scottava sulla pelle, tutti avevamo un cappello di paglia in testa.

Il sudore colava, la pula e la polvere si attaccava alla pelle e scendeva lungo la schiena provocando un prurito insopportabile su tutto il corpo.

Verso le quattordici, fu gettata, nel battitore, l'ultima cova di orzo.

Spensero quel motoraccio a testa calda, che faceva un rumore d'inferno. Persino i polli, impauriti, stavano alla larga, e finalmente si fece silenzio.

Giovanni, detto Gigiot, aggiunse un'altro palo all'albero posto al centro del pagliaio, poi, con una corda, si fece mandare su una corona come d'alloro, fatta con rametti di quercia intrecciati, e la pose in cima a mo' di cappello che poi riempì di terra.

Fu all'ora che arrivò la Signora Caterina, la padrona, ad invitare tutti a casa per mangiare.

Il desinare era pronto in tavola.

Era stata aiutata in cucina dalla sua nuora e da due vicine di casa, brave cuoche, che si scambiavano  vicendevolmente i favori.

Prima di tutti invitò a tavola Ernesto, il capo squadra, poi il motorista “Sprangon”, il quale era il proprietario della trebbia e del Bubba, quindi chiamò il “paiarolo” e tutta la squadra compreso i due contadini che erano venuti a dare una mano.  Fra tutti eravamo ventiquattro persone.

Prima ci lavammo le mani nella vasca di pietra dove, di solito, bevevano le mucche, che era stata riempita con acqua del fosso.  Poi ci accomodammo in due tavolate sotto il loggiato.

Portarono in tavola due zuppiere di minestra in brodo : cappelletti e passatelli, poi tagliatelle con fegatelli di pollo. Per secondi, arrivarono in tavola, quattro piatti di portata con arrosti misti : pollo, coniglio e piccione. Tutta carne di animali del cortile, uccisi e puliti il giorno prima. Emanava un buonissimo odore di genuino che inebriava.

L'Azdora invitava tutti a mangiare senza fare complimenti,  perché di carne ve n'era in abbondanza., così come il vino, rosso e bianco, ottimo e abbondante.

Tutti bevvero parecchio. Anch'io mangiai e bevvi tanto, come non mai, con molto appetito e un gran gusto mai provato.  Evidentemente avevo tanta fame arretrata e il vino saliva alla testa.

Malgrado tutta quella fatica e quel polverone, tutti erano molto allegri. I maschi raccontavano delle storielle, anche piccanti, al ché le donne ridevano di gusto. Raccontavano anche delle barzellette grasse o “sporche” all'udirle e io arrossivo imbarazzato.

Per giustificarsi dicevano che era bene lavarle prima trangugiando un ennesimo bicchiere divino.

Il bello era vedere le donne, specialmente le spose più giovani, che si divertivano un mondo, ridevano a crepapelle, né diventavano rosse in viso come me, e ciò mi stupì molto.

Cantavano :“L'uselin della comare”, “Lo spazzacamino”, “Dagala ben biondina” ed altri stornelli simili .

Verso le sedici e trenta si finì di pranzare. Eravamo tutti molto allegri e qualcuno alquanto brillo.

Sprangon, il macchinista e Minghin, il paiarolo, fecero la pace dandosi pacche sulle spalle.

Quando ci alzammo da tavola, la Signora Caterina degli Onofri e i suoi figli, Giuseppe detto Fafin e Pio detto Piin, ringraziarono tutti dicendo di essere stati molto contenti e soddisfatti del raccolto, che aveva avuto una buona resa rispetto al quantitativo seminato.

Contarono cinquantun quintali di grano e quindici di orzo. Dieci sacchi in più dell'anno precedente.

 

 

Oggi a mietere e trebbiare si fa prima e molto meglio, ma non c'è più la“squadra” composta di uomini e donne che sapevano faticare insieme in armonia e allegria.




Sorriso

di Piera Maria Chessa


Fiorella andava spesso in quel supermercato, trovava un po' di tutto e i prodotti erano ottimi. Non lo conosceva fino a poco tempo prima, vi era entrata velocemente una prima volta, per caso, alla ricerca di qualcosa che non aveva trovato altrove. E fu proprio quella prima volta che incontrò una donna che, dopo qualche tempo, avrebbe contribuito a cambiare molte sue convinzioni ormai radicate.

Non seppe mai il suo nome nè mai glielo chiese, per lei inizialmente fu "la donna con il cane".

In realtà, dentro di sè, un nome glielo diede, parecchio tempo dopo, la chiamò Sorriso, perché nonostante tutto, sorrideva sempre.

Vi chiederete di chi io stia parlando, ed ora ve lo dirò.

Sorriso non era una delle tante persone che si incontrano all'interno di un supermercato, e neppure per strada, Sorriso era una donna che chiedeva l'elemosina, che era costretta a chiedere l'elemosina per poter mangiare.

Fiorella, in quel giorno di gennaio, si ricordava ancora che nevicava, la vide poco fuori dall' ingresso del negozio, appartata in un angolo per potersi riparare. Indossava abiti non adatti per quella giornata fredda, aveva capelli neri, raccolti in una sorta di crocchia, le gote rosse. Difficile intuire quale fosse la sua età. Non era bella, ma lo era il suo sorriso.

Era una donna discreta, non imponeva la sua presenza, non chiedeva

l'elemosina nè tendeva la mano. Accettava ciò che le veniva donato e ringraziava sempre. Ma non erano queste le caratteristiche che avevano colpito Fiorella, l'aveva colpita il fatto che tenesse con sè un cane e che lo trattasse con cura e affetto, dividendo con lui il poco che aveva.

Era un cane di grossa taglia, un meticcio dal manto castano, non proprio giovanissimo, esattamente come la sua padrona, e come lei piuttosto magro. Entrambi stavano accoccolati per terra, Sorriso addossata al muro, il cane accucciato ai suoi piedi. La cosa che incuriosì Fiorella fu vederla prendere una piccola coperta logora e scolorita in più parti da una vecchia sacca che teneva al suo fianco, e poi stenderla con delicatezza sul corpo del suo cane rimboccandola infine sui lati. Pensò che solo una madre poteva mostrare tanta premura verso un figlio.

Fiorella non era una persona che si commuoveva facilmente, sembrava a tratti dura nel rapportarsi con gli altri, forse perchè la sua vita non era mai stata facile, neppure da bambina. Aveva incominciato presto a nascondersi dentro un robusto guscio perché non voleva più soffrire, non dava confidenza a nessuno nè accettava confidenze. Era il suo modo di difendersi e non ne conosceva altro. Troppi insuccessi, così un giorno aveva deciso di non chiedere più niente, ma anche di non dare niente. Si ripeteva continuamente che avrebbe saputo badare da sola a se stessa, che non avrebbe avuto più bisogno degli altri.

Era stata una bella ragazza, ora, non più giovanissima, lo era ugualmente, ma da anni le esperienze negative avevano disegnato delle pieghe profonde ai lati della bocca e reso il suo sguardo duro e scostante.

Viveva da sola, casa e lavoro, lavoro e casa. Pochissime amicizie, nessuna relazione sentimentale ormai da tanto, l'unico modo per non farsi ferire, diceva a se stessa e alle poche persone che, nonostante tutto, cercavano di capire il suo malessere.

Erano trascorsi così alcuni decenni.

Ora si avvicinava il Natale, periodo che viveva con una certa insofferenza, non amava fare regali nè tantomeno riceverne, non si lasciava catturare dalla magia e dalle atmosfere di questo evento, tutte cose da lei ritenute inutili e vuote.

Eppure, doveva arrivare un dicembre particolarmente freddo per far scattare nel suo animo qualcosa che non aveva previsto e che smosse alcune sue granitiche certezze. E doveva arrivare una donna poverissima e dal sorriso sempre pronto per aiutarla a capire che la vita non è solo sofferenza e ingiustizia, che esiste anche qualcosa di gratuito che viene donato senza secondi fini.

Mancava una decina di giorni al Natale, Fiorella decise una mattina di recarsi nel solito supermercato a fare delle compere, acquistò diverse cose e si avviò verso le casse. Posò tutto sul ripiano e cercò il portafoglio per pagare. Fu in quel momento che si accorse di non averlo più. A parte l'imbarazzo, pensò alle sue scarse riserve di denaro, non era infatti il suo un lavoro ben retribuito. Si scusò con la commessa e uscì velocemente dal supermercato pensando di ritrovare il portafoglio perso probabilmente per strada. Niente da fare. Disorientata per ciò che era successo, camminò per un po' a casaccio lungo il marciapiede.

Ad un certo punto sentì una voce femminile che la chiamava, non capì subito perché la donna che le veniva incontro si esprimeva in un italiano piuttosto incerto mentre le mostrava qualcosa che teneva tra le mani. Andò verso di lei e la riconobbe. Era la stessa che da diverso tempo vedeva seduta fuori dal supermercato con il suo cane, la stessa che le sorrideva inutilmente quando lei andava a fare i suoi acquisti.

"Signora, questo è tuo", le disse, porgendole il portafoglio, "è caduto qui, vicino alle zampe del mio cane". Poi aggiunse, in modo confuso, che l'aveva cercata all'interno del negozio senza trovarla perché lei era già andata via.

Fiorella non sapeva che dire. Quante volte si era mostrata infastidita nel vedere tanta povera gente tendere la mano nelle strade, quante volte aveva detto con sicurezza che si trattava di gente che non aveva voglia di lavorare. Per mesi era entrata ed uscita dal supermercato senza rivolgerle la parola, solo una volta, lo ricordava, era rimasta stupita nel vederla coprire il suo cane, in un giorno freddissimo di gennaio. Era stato un attimo, pochi secondi durante i quali, ricordava ora, si era quasi commossa, neppure adesso in fondo voleva ammettere di essersi commossa veramente.

Non sapeva che fare. Capì in pochi istanti quanto la sua vita fosse diventata arida, quante opportunità avesse sprecato, e forse quanto dolore anche lei avesse causato agli altri.

Una povera donna incontrata per strada forse le aveva indicato un modo diverso di vivere la propria esistenza, per quanto questa possa essere dolorosa ed estremamente faticosa.




Una giornata indimenticabile

di massimolegnani


In otto anni non era mai successo che sua moglie gli telefonasse sul lavoro, lui glielo aveva esplicitamente proibito, ma questa era un’occasione straordinaria.

Michele Alberti, inebetito, riuscì a rispondere solo davvero? alle parole piene di gioia di Monica. La sentì piangere di felicità e ancora balbettò ma davvero? prima di chiudere la telefonata. Per qualche minuto fissò, senza vederli, i fogli sparsi sulla scrivania, poi balzò in piedi con un urlo disumano, lui solitamente fin troppo controllato.

I suoi colleghi esterefatti lo videro fare una sorta di balletto tra le scrivanie, finire addosso a Francesca Palmeri, il pachiderma sudato come la chiamavano tutti, e abbracciarla calorosamente, saltare a piedi uniti su una sedia come volesse arringare una folla alla vigilia della rivoluzione, fare ampi gesti per ottenere silenzio, anche se in realtà nessuno aveva ancora aperto bocca, e infine annunciare con voce strozzata Monica è incinta.

Tutti capirono chi fosse Monica, anche se era la prima volta che Michele, un tipo quanto mai riservato, citava sua moglie per nome. Abbracciarono e festeggiarono il loro collega sebbene trovassero eccessiva la sua euforia. Non potevano sapere quanto quei due avessero desiderato un figlio, quante delusioni e quanti tentativi andati a vuoto avessero vissuto, una vera frustrazione. Recentemente si erano rivolti a un centro contro la sterilità di coppia e si erano da poco sottoposti ai test preliminari di fertilità in previsione di una eventuale fecondazione assistita, un percorso tutt’altro che esaltante. Anzi proprio quel giorno Michele avrebbe dovuto ritirare gli esiti. Ma ora tutto questo passava in secondo ordine, Monica era incinta!

Michele, sempre in preda a un’eccitazione inusuale, volle organizzare un rinfresco estemporaneo e, con il permesso del capo-ufficio, scese a comprare dei salatini e una bottiglia di spumante. Lui stesso, sebbene astemio, se ne trangugiò due bicchieri, alimentando il proprio stato di allegro stordimento. Alla fine il suo capo per riportare ordine nell’ufficio, gli concesse, anzi gli impose, mezza giornata di ferie.

Una volta per strada, Michele avrebbe voluto comunicare la lieta notizia ad ogni passante ma si limitò a sorridere come un ebete alle persone sconosciute che incrociava. Si fermò da un fioraio a comperare un mazzo di garofani, sa, mia moglie è incinta.

Passò anche in clinica a ritirare i referti e anche all’impiegato dello sportello ripetè quella frase che gli stava facendo circolare più veloce il sangue nelle vene.

Sulla via di casa volle guardare l’esito del proprio esame, anche se questo non aveva più importanza. Lesse, rallentò il passo, si fermò, rilesse e poi gettò il referto appallottolato in un cestino. Niente doveva offuscare la gioia di quel giorno, Monica era incinta!

Riprese a camminare con passo deciso verso casa, cancellò dalla mente la parola appena letta, azoospermia, ma capì che questa si sarebbe ripresentata ogni volta che avrebbe guardato o abbracciato suo figlio. SUO figlio?




Una maledetta giornata di pioggia

di Renzo Montagnoli


Scrosciava la pioggia, ma Franco sembrava non accorgersene; camminava spedito, con gli abiti ormai zuppi ed i piedi bagnati. Ogni tanto volgeva lo sguardo al cielo, cercando un' improbabile schiarita; erano giorni di maltempo, di continui rovesci, accompagnati da un costante abbassamento della temperatura, fenomeni più da primo inverno che da mezza primavera.

Accelerò ulteriormente il passo, perché la paura di tardare cominciava ad opprimerlo.

Perché sono uscito senza l'ombrello?” si chiese, mentre stringeva ancor più forte il mazzo di fiori ormai sfatti. Si era preparato meticolosamente per quell'incontro: abiti perfettamente stirati, capelli ben tagliati ed il volto accuratamente rasato. Ed ora…, ed ora, per un po' di questa maledetta pioggia, tutto era finito a schifio. Lasciò cadere il mazzo di fiori nel torrente che aveva ormai invaso la strada e l'acqua si impossessò di quei petali infradiciati, portandoli via. Franco guardò mestamente la scena, in preda ad una cupa disperazione per quella sfortuna che lo perseguitava da tempo.

Scapolo, di bell'aspetto e di buona posizione, aveva cercato più volte di accasarsi; le opportunità non gli erano mancate, ma erano tutte terminate in breve volgere di tempo; spesso si chiedeva se era colpa del suo carattere, di quel voler cercare a tutti i costi la perfezione, ma non aveva saputo, o voluto, darsi una risposta. Restava il fatto che dopo un po' le donne lo lasciavano, senza plausibili motivi, forse timorose di un legame duraturo; finiva con il consolarsi dicendo che in fondo erano state avventure di completa soddisfazione, ma più passava il tempo, ed il peso degli anni iniziava a farsi sentire, sentiva crescere in lui il desiderio, la necessità di un'unione più salda. Il risvegliarsi la mattina solo, in un letto troppo grande, farsi il caffè ascoltando la voce anonima della radio, il silenzio delle pareti domestiche, l'unica compagnia miagolante del gatto, gli ingeneravano un senso di sconforto e rendevano insopportabile quella solitudine un tempo invece tanto apprezzata.

Ed ecco allora avviare un nuovo tipo di ricerche, non farsi più avanti con signore già conosciute, anche se superficialmente. Aveva vergogna ad ammetterlo, ma aveva dovuto affidarsi ad un'agenzia matrimoniale; schede compilate sul carattere, spesso con indicazioni non veritiere, alcune fotografie scattate per l'occasione ed il testo del suo annuncio “Scapolo bella presenza, benestante, anni quaranta (qualcuno in meno rispetto alla realtà), seriamente intenzionato, cerca donna seria, sincera ed onesta per iniziale convivenza ed eventuale matrimonio”.

L'annuncio era stato pubblicato durante l'inverno sul principale quotidiano locale ed era rimasto a lungo senza riscontro fino agli inizi della primavera, allorché l'agenzia lo aveva contattato per comunicargli che, forse, si era fatta avanti un'anima gemella. Si era precipitato subito negli uffici ed aveva potuto prendere visione della scheda della signora in questione; aveva così appreso che si trattava di una divorziata di anni trentasei (sarebbe stata la vera età?), insegnante, casa propria, senza figli, lieve difetto fisico, amante della natura e dei viaggi. Guardò la fotografia: un'istantanea del solo volto, un ovale perfetto, un naso appena pronunciato, una bocca socchiusa in un sorriso rassicurante, due occhi sbarazzini, una cascata di capelli biondi. “Interessante, molto interessante” pensò e manifestò il desiderio di farne la conoscenza. Trascorse qualche giorno, poi una sera, dopo cena, squillò il telefono; sollevò la cornetta e rimase senza parole: dall'altro capo del fino c'era lei, una voce imbarazzata, ma calda, persuasiva, di qualcuno che sa ciò che vuole. Fu una conversazione breve, ma Franco ebbe la netta sensazione che sarebbero seguite altre telefonate e così avvenne, fino all'ultima con la quale la signora gli propose di vedersi, di conoscersi meglio.

In preda ad un'emozione travolgente, Franco ne convenne  e così fu fissato l'appuntamento per le sedici del giorno dopo, in un bar di piazza Scalarini.    

Piazza Scalarini, uno slargo di una stretta via della città vecchia, qualche abitazione, alcuni negozi, un solo bar; non posso sbagliarmi” pensava Franco mentre si avvicinava a grandi passi alla meta.

Girò l'angolo ed infatti ecco piazza Scalarini, con il suo unico bar, proprio di fronte a lui; guardò l'orologio che segnava le 16,10 ed ebbe il timore di non trovarla, che se ne fosse andata per il ritardo.

Entrò nel locale, dove vi erano pochi avventori; scrollandosi l'acqua di dosso, diede un'occhiata: eccola, seduta ad un tavolino, intenta a leggere un giornale. La fissò estasiato: era più di una bella donna, era la grazia, la simpatia in persona, quanto aveva sognato e che non avrebbe mai sperato di trovare. La donna si accorse di quello sguardo e sollevò gli occhi; le labbra si aprirono appena in un sorriso, subito frenato quando si accorse dello stato pietoso dell'uomo che le stava dinnanzi.

Ciao, ma sei tutto bagnato; sembra che tu sia caduto in un fosso!”

Sì, purtroppo, il tempo…” non riuscì a dir altro.

Devi cambiarti, altrimenti prendi un malanno, ma come fare?” “Ho trovato, cambiamo il programma, vieni su in casa mia ad asciugarti, abito vicino” e lo prese per mano.

Franco era incapace di parlare, sarebbe sprofondato volentieri per quel suo aspetto di pulcino bagnato; solo quando uscirono dal bar si accorse che la donna era claudicante e che portava al piede sinistro una scarpa ortopedica.

Salirono in casa di lei e Franco dovette spogliarsi in bagno, mettersi un pigiama che doveva essere appartenuto al precedente marito, un uomo di stazza rispettabile, considerata la taglia del capo.

E mentre si guardava le maniche che coprivano abbondantemente le mani, la donna, con un sorriso, gli confermò che era così e, sottovoce, gli disse “Non era bello come te, ma quando si ha un difetto come il mio ci si deve accontentare; ecco, penso che ora, dopo esserti rivestito, te ne andrai e non ti farai più rivedere, come hanno fatto altri.”

Franco la guardò, vide in quegli occhi sbarazzini la disperazione della solitudine, la sua stessa disperazione, e non disse nulla; l'attrasse a sé, appoggiò le labbra sulle sue e sussurrò “No.”








4 commenti:

  1. La redenzione, il patto di alleanza, non sono serviti anulla ? Ci sarà un nuovo tentativo ? Speranza o disperazione ... ? Complimenti Cristina ! Grazie, Renzo, di aver riportato in vita quel ragazzotto pieno di stupore, di 68 anni fa.Ste.

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  2. Grazie Renzo per queste micro-storie che spaziano dal ricordo alle riflessioni sul nostro vivere. Ritagli di vita fantasiosa o reale di cui giungiamo in poco tempo all’epilogo, ma che ci trasmettono sempre un messaggio che sta a noi decifrare. Grazie ancora quindi e sempre buona scrittura e lettura.
    Gio

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  3. Un'altra bella raccolta di racconti. Autori diversi, stili diversi, e naturalmente storie diverse. Ma il piacere è sempre lo stesso, forse perché i racconti mi piacciono molto. Molti lettori preferiscono il romanzo, io apprezzo entrambi i generi, per quanto diversi tra di loro, l'interesse che suscitano in me è uguale.
    Grazie, Renzo.
    Piera

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