sabato 18 settembre 2021

Intervista di Renzo Montagnoli a Ferdinando Camon, autore del libro Conversazione con Primo Levi, edito da Guanda

 



Conversazione con Primo Levi

di Ferdinando Camon

Guanda Editore

Saggistica

Pagg. 75

ISBN 9788882469290

Prezzo € 10,00

 

 

Il dilemma di Primo Levi

 

  

Due scrittori, assai noti (Primo Levi aveva già scritto e pubblicato Se questo è un uomo e La tregua, Ferdinando Camon, benché più giovane, era già conosciuto per Il Quinto StatoLa vita eternaOccidente e Un altare per la madre), si incontrarono nei primi anni '80, per la precisione il primo contatto diretto avvenne nel 1982 a Torino, città in cui Primo Levi era nato e risiedeva; ce ne furono successivamente degli altri, tanto che l'ultimo fu nel 1986.

Quella che doveva essere un'intervista di Camon a Levi divenne una vera e propria conversazione, che pur obbedendo a una scaletta di domande predisposte dal primo e concordate con il secondo, si rivelò uno scambio di opinioni di grandissimo interesse. Deve essere dato atto a Ferdinando Camon di aver ben interpretato i desideri dei lettori, più che mai curiosi di conoscere qualche cosa di più di questo grande autore, testimone e vittima della Shoa, per sua natura persona assai umile e che ha sempre cercato di parlare attraverso le sue opere.

Ma cosa spinse Camon a contattare Levi per intervistarlo? Questa è la prima domanda che ho rivolto allo scrittore padovano che mi ha risposto, come sua consuetudine, in modo esauriente e senza reticenze. Mi ha detto che era stato spinto da un complesso di colpa, in quanto figlio di quella civiltà dell'Europa occidentale che nel tempo ha preso di mira gli ebrei, con un lavorio di esclusione durato diversi secoli e giunto al suo culmine con la follia nazista volta al loro sterminio.

Beninteso questo senso di colpa è una radice che uno si porta appresso per atti compiuti, magari molto tempo prima che nascesse, dal mondo di cui fa parte, da una civiltà che si crede esemplare e che invece nasconde in un'atavica avversione  per gli ebrei, un nocciolo di inciviltà ancor oggi difficilmente scalzabile, atteso un serpeggiante dilagare dell'ostracismo per tutti quelli che non ne sono membri.

Come dice Camon, per lui andare da Levi era come andare a Canossa, e forse ha avvertito tanto di più questo senso di colpa in quanto cristiano e anche cattolico, proprio per la constatazione che il far parte di un credo religioso porta inconsciamente a vedere gli altri, cioè quelli di fede diversa, come degli estranei.

E' stato però fortunato, perché Levi sì era ebreo, ma non praticante, anzi non credente, per quanto in lui ci fosse una continua ricerca che andava oltre l'umana comprensione dell'Olocausto, ma anche di una relazione fra questo e un eventuale Entità superiore. Quando a conclusione della conversazione Levi dice “C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio,” aggiunge poi a matita sui foglio sui quali la stessa è trascritta “Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo” è evidente che l'uomo era impegnato in un logorante, ma anche angosciante tentativo di dare una risposta logica, razionale, che andasse oltre l'atto di fede, in pratica una certezza che per lui e per noi è del tutto impossibile.

Questa conversazione, in cui si misurano due intellettuali di diversa matrice religiosa, è stata ben orientata in nove temi, svolti con scambio di opinioni, non sempre coincidenti, e che inducono il lettore a riflettere, magari esponendo un pensiero anche dissimile, tanto che più di una volta, e questo è accaduto a me, nasce proprio la voglia di potersi inserire nel colloquio che non risulta di un asettico accademismo.

Il diavolo nella storia, La colpa di essere nati, Cos'era il lager, La Germania allora e ora, Perché scrivere, Lager nazista e lager comunista, La nascita di Israele, Le opere, L'uomo e la chimica, sono questi gli argomenti su cui si  è svolta la conversazione e, se pur non si è arrivati a conclusioni di verità assolute, lo scambio di pareri, le osservazioni puntuali e razionali a cui è sempre stata improntata costituiscono un contributo importante che, senza arrivare a conclusioni certe e definitive, pur tuttavia rappresentano un arricchimento di cui tutti possono beneficiare.

In fondo ci troviamo di fronte a due persone che non desiderano imporre le loro idee, ma che vogliono solo capire, e questo è l'altro aspetto di pregio di questo libro, perché alla fine non ci sono né vinti, né vincitori, ma si resta consapevoli che qualche cosa si è fatto, che un altro passo verso la conoscenza si è compiuto.

Devo dire che mi sarebbe piaciuto poter intervistare Levi, ma non credo proprio che avrei potuto dare vita a una conversazione così interessante come invece ha fatto Camon e l'impressione che alla fine si ritrae é che questi due uomini, di estrazione diversa, sono più simili di quanto non si possa immaginare e pagina dopo pagina è piacevole lasciarsi condurre quasi per mano da entrambi in un percorso altamente gratificante e che porta a una grande sensazione di serenità, la stessa che si raggiunge quando si è consapevoli di un accrescimento del proprio patrimonio culturale.

Per quanto ovvio, Conversazione con Primo Levi è sicuramente e ampiamente raccomandabile.

Renzo Montagnoli





Intervista di Renzo Montagnoli a Ferdinando Camon, autore del libro Conversazione con Primo Levi, edito da Guanda.

 

La Sua è un'intervista realizzata in un arco di tempo piuttosto lungo e in più incontri; considerato che all'epoca (all'incirca nella prima metà degli anni '80) non esisteva ancora Internet e quindi non era possibile effettuare il tutto con uno scambio di messaggi elettronici, Lei ricorse a incontri diretti con lo scrittore nella sua città natale (Torino), a scambi di telefonate e raramente in via epistolare. Fu indubbiamente un impegno non trascurabile, anche se ne valeva la pena. Che cosa la spinse però a contattare Primo Levi per intervistarlo?

 

Mi spinse un complesso di colpa. Come ho scritto da qualche parte, andare a parlare con Primo Levi per me significava andare a Canossa. C'è nel libretto, se uno lo legge bene, un punto di attrito tra Levi e me, che mi fu ascritto a colpa dalla stampa tedesca e francese di destra. Levi sosteneva che la colpa dello Sterminio era del personaggio che dominava la Storia, e cioè Hitler. Levi aveva un'idea eroica della Storia. La Storia la fanno  Grandi, i dominatori, gli domi eroi. Costoro sono il vento che scuote il mare, sul quale i popoli galleggiano come sugheri. Lui aveva un'idea ristretta della Grande Colpa. Io sostenevo allora (cioè: mi aggregavo a chi sosteneva) una colpa collettiva, la responsabilità di massa. Che non vuol dire di ogni tedesco, singolarmente preso. Ma del popolo tedesco, nel suo insieme. Questa tesi ha finito poi per scalzare la tesi di Levi: Hillberg e Goldhagen e tanti altri parlano sempre e solo di una “responsabilità di massa” dei tedeschi per lo Sterminio. E pongono, Hillberg specialmente, la tesi che lo Sterminio fu l'ultima fase di un'opera di espulsione ed esclusione durata molti secoli. Dapprima fu detto agli ebrei: “Potete vivere in mezzo a noi, a patto che diventiate come noi. Convertitevi”. Fu l'epoca delle conversioni coatte. Poi fu detto: “Non siete diventati come noi, andate a vivere da un'altra parte”. Fu l'epoca dei ghetti. Il nazismo venne per attuare la terza fase: “Né fra noi né lontano da noi, non potete vivere da nessuna parte. Ovunque siate, dovete morire”. Ma questa terza fase non sarebbe stata possibile senza la seconda, e la seconda senza la prima. E su quella fasi ha un'impronta fondante la civiltà euro-occidentale, della quale io, come tutti qui, siamo figli. Levi è una nostra colpa. Recensendo il mio libretto “Conversazione con Primo Levi”, la stampa tedesca di destra (ma sono comunque grato che la Germania l'abbia tradotto) e la stampa francese di destra (ma sono grato che il libretto sia stato tradotto e recitato in teatro in una ventina di città, e la pièce dovrebbe ripartire di nuovo quest'anno) giudicavano Levi “obiettivo”, nell'attribuire la colpa al solo Führer, e me “razzista”, nel coinvolgere il popolo  tedesco. Si crede che veder girare un proprio libro nel mondo sia una gioia, invece è un martirio.

 

 

Si potrebbe dire che Hitler nel popolo tedesco è riuscito a far emergere determinate caratteristiche che prima erano sopite, o comunque in letargo. Al riguardo mi pare che Marlene Dietrich abbia espresso sostanzialmente lo stesso concetto e lei appunto era tedesca.

C'è un passo della conversazione, all'argomento “Il diavolo nella storia”, in cui Lei dice: - Tuttavia, nei momenti delle grandi riprese dei loro movimenti morali e religiosi, loro pescano sempre in un repertorio di perdizione, di dannazione, di… e Levi aggiunge: - Di demoniaco? Al che la sua risposta è questa: - Di demoniaco, che coinvolge e annulla la stessa divinità…

La pregherei di precisare quali siano questi momenti in cui sono emerse caratteristiche di diabolica perdizione e di abbandono al male. Già che ci sono, mi risulterebbe che accadimenti simili non hanno caratterizzato solo i tedeschi, ma anche i polacchi e i russi.

 

Nella mia memoria si affacciava un brano di uno storico tedesco, che commentava come adesso dirò l'avvento del luteranesimo. Lo può trovare nell'Antologia di Critica Storica di Armando Saitta, in tre volumi, per Laterza. Il brano è questo: Lutero sta dialogando con un seguace, gli espone il suo concetto di Dio e di giustizia divina, come questa giustizia sia legata alla Grazia e separata dai merito. “Ma come si può amare un Dio come questo?” esclama terrorizzato l'allievo. “Amarlo?” risponde Lutero, “io lo odio”. Questa confessione di Lutero, che odia il proprio Dio, mi entrò nel cervello allora, ero studente di liceo classico, e non m'è più uscita. Nella mia cultura di euro-mediterraneo è inammissibile. Se non erro, Freud s'interrogava su quel che facevano i tedeschi del suo tempo, e rispondeva che erano “battezzati male”, cioè “mal cristianizzati”. In questi giorni mi sto occupando di Primo Levi, presento sulla “Stampa” un libro di Frediano Sessi intitolato “Il lungo viaggio di Primo Levi”, e mi son riletto le opere concentrazionarie di Levi: i custodi del lager non erano uomini, non avevano niente di umano. Nell'incontro del '38 al Brennero con Mussolini, Hitler gli portò in regalo le opere di Nietzsche rilegate in pelle. Hitler non ha mai taciuto che intendeva realizzare il Superuomo di Nietzsche con le sue SS. L'avvento del Superuomo è teorizzato in “Così parlò Zarathustra”. “Tre incarnazioni dello Spirito io vi narro – esordisce Zarathustra -, com'esso divenne cammello, e di cammello leone, e di leone fanciullo”. Lo Spirito-cammello è il Cristianesimo. “Qual cosa pesa di più?” chiede lo Spirito cammello, partendo  per il proprio deserto, “ditemelo, o eroi, affinché io me lo sobbarchi”. Ma, fratelli miei, non significa questo immergersi nell'acqua putrida della verità, senza scacciare da sé i rospi viscidi e i vermi schifosi?” Le SS servivano a depurare l'acqua della vita dai rospi viscidi e dai vermi schifosi, a correggere l'umanità, perché com'era stata creata non andava bene.

 

 

Comprendo; mi pare, però, di aver capito che in fondo Levi in questa conversazione non attribuisce le colpe dell'Olocausto al popolo tedesco e penso che questo atteggiamento gli sia derivato dal timore di essere pure lui considerato un razzista. Tuttavia, in un altro suo libro (I sommersi e i salvati) esplicitamente incolpa i tedeschi per la loro volontaria indifferenza. A Pag. 29 dell'argomento La colpa di essere nati Lei dice, fra l'altro: - E cioè il problema di trovarsi a scontare la colpa di essere nato. Perché credo che questa fosse la <<colpa>> che distingueva l'ebreo dal politico o dal prigioniero di guerra. I quali scontavano una battaglia persa, o una opposizione politica; la l'ebreo per il solo fatto di essere nato doveva scontare questa <<colpa>> : la colpa di esistere.

Concordo pienamente, ma mi sono sempre chiesto perché proprio l'ebreo, ed è una domanda a cui ho cercato di dare più di una risposta. Se non si è trattato di una scelta dovuta al caso, la colpa di essere nato deriva forse da una altra colpa, così come concepita a lungo dalla Chiesa, soprattutto quella luterana: gli ebrei erano coloro che avevano immolato Gesù Cristo. Qual è la sua opinione al riguardo?

 

Il nazismo però non si presentava come un movimento cristiano, inteso a punire i nemici del Cristianesimo, anzi si poneva come pagano, anti-cristiano, legato ai miti del suolo e del sangue, al culto della forza, della razza, delle tradizioni ancestrali. A un certo punto fu ordinato che nelle chiese luterane, sull'altare, accanto alla Bibbia, fosse collocata una spada. Il “Mein Kampf” è stato un libro proibito per mezzo secolo, ma in Italia lo stampava una casa editrice di estrema sinistra, la ERS, Edizioni Riforma dello Stato, fondata e diretta da Armando Cossutta, che era un fuoriuscito dal Pci, a sinistra del Pci. Io l'ho trovato, l'ho comprato e l'ho recensito, sull'”Unità”. Ho letto il libro alla ricerca del “sistema” di Hitler, se voleva la guerra o no, contro chi, a che scopo, se preparava lo sterminio degli ebrei, e perché. Il libro è chiarissimo. È lo sfogo di una nevrosi fobica-depressiva, che diventa aggressiva. Hitler è sgomento per la sconfitta della Germania, e spaventato per la potenza di Francia e Inghilterra. Sogna la vendetta. Per la vendetta gli serve un popolo compatto, obbediente, educato militarmente, fisicamente robusto. Raccomanda che nelle scuole non s'insegni il francese, ma la boxe. Inculca l'odio verso gli ebrei, ma non li accusa mai di qualche colpa specifica (hanno fato questo male o quello), ma li accusa di tutte le colpe in generale. L'odio verso gli ebrei, non avendo una colpa da correggere, è immotivato e perciò implacabile. Gli ebrei vanno sterminati perché sono ebrei. Non importa se per sterminare gli ebrei dedichi uomini, mezzi, risorse e tempo, che sarebbero necessari per vincere la guerra: anche quella contro gli ebrei è una guerra, serve a liberare la Germania e l'umanità.

 

Certamente, il Mein Kampf è talmente chiaro che nessuno che lo legga potrebbe dire che Hitler da agnello si era trasformato, una volta giunto al potere, in lupo feroce.

Mi scusi, però, se ritorno alla domanda, che non è frutto di curiosità: perché sempre l'ebreo deve essere un capro espiatorio? Forse ciò è dovuto a più concause, non ultima quella religiosa. Vede, la cosa mi interessa sia come parte del genere umano, sia per motivi personali. Del resto, se Hitler ha praticato l'annientamento sistematico degli ebrei, questi hanno sempre patito nella storia persecuzioni più o meno ampie; al riguardo, basti pensare ai pogrom e andando più indietro nel tempo la Spagna del XV secolo. Forse non è in grado di darmi una risposta compiuta, come in verità non lo sono nemmeno io, ma Hitler non si è inventata la persecuzione degli ebrei, l'ha adottata e ne ha fatto uno scopo della sua vita, applicandola con metodo e ferocia.

 

Ecco, io pongo questa esatta domanda a Levi, a pagina 17, e lui la rifiuta: dice che “non i tedeschi odiavano gli ebrei”, ma “Hitler odiava gli ebrei” e “ i nazisti odiavano gli ebrei”. Quando io cerco di trovare radici lontane del superomismo dei tedeschi nella loro mitologia, e m'interrogo sulla separazione che loro pongono tra merito e salvezza, opere e grazia, lui ribatte che non c'è traccia di questo in Goethe. Ammette però che il diavolo è una presenza fondamentale nella loro formazione. Io mi spingo fino ad affermare che l'irruzione dei popoli germanici nella storia degli altri popoli europei non hanno effetti diversi dall'irruzione della peste e delle epidemie, lui ritorna a limitare questo ruolo ai tedeschi nazisti, e questo ha prodotto un curioso effetto nella circolazione del mio libretto di conversazioni con Levi in Germania e in Francia: c'è in Germania e in Francia anche una stampa di destra, che s'è buttata su queste pagine ribadendo che Levi assolve i tedeschi mentre Camon  li condanna, quindi Camon è il vero razzista, che combatte il razzismo tedesco con un razzismo antitedesco. Allora queste accuse erano possibili, oggi non più. Perché oggi il concetto di “responsabilità di massa”, “responsabilità collettiva” è molto più chiaro, diffuso ed accettato, anche dai tedeschi, fino alla cancelliera Angela Merkel. Gli ebrei sono stati sradicati dal loro suolo nel 70 dopo Cristo, da Tito, che non era ancora imperatore, soprannominato “deliciae generis humani”, il quale ordinò l'uccisione di tutti i maschi in età di armi e la cacciata delle donne e dei bambini. La diaspora degli ebrei comincia allora, e finisce dopo la seconda guerra mondiale. A differenza di altri popoli, gli ebrei hanno conservato cultura, religione, tradizione, non scomparendo nei popoli dentro i quali confluivano, e questo ha sempre distinto le comunità ebraiche negli studi, nella scienza, nelle arti, nei commerci, nella produzione…: nelle università, tra i premi nobel, tra gli scienziati, insomma nelle classi dirigenti, la presenza di ebrei è sempre stata alta. Può darsi che questo li abbia esposti alla visibilità, e la visibilità all'odio: e che così il loro merito (avere una forte comunità ebraica è una fortuna per un popolo) sia diventato un demerito (se qualcosa va male, si può dare la colpa a loro). Ma ripeto: nei testi degli “odiatori degli ebrei” non c'è mai un'accusa chiara, c'è solo un odio viscerale, nebuloso e onnicomprensivo. È appena uscito qui da noi in Italia un libro di Céline, col titolo “Céline ci scrive”, pubblicato da una piccola casa editrice di destra, contiene le lettere e gli articoli di Céline contro gli ebrei: me lo sono subito procurato proprio per vedere se Céline chiarisce, una volta per tutte, le ragioni del suo antisemitismo, ma niente, lo ripete infinite volte ma non fornisce alcuna ragione. C'è un film di Godard in cui un marito torna a casa e dice alla moglie: “Sai la notizia? Il governo ha deciso di eliminare tutti i medici e gli ebrei”, e la moglie: “Perché i medici?”.                    

 

Mi sembra quindi di comprendere che alla base di questo odio razziale ci sia una irrazionalità, una sorta di atavica prevenzione che deriva da un popolo che è riuscito, pur integrandosi, a mantenere la propria individualità. Dove sta l'irrazionalità? Nella mancanza di presupposti, anche fasulli, che alimentino l'antisemitismo e del resto, anche in persone insospettabili, ho sentito più volte questo ragionamento: “Se gli ebrei sono stati trattati così, un motivo ci sarà”.  Ecco che implicitamente in questi soggetti che, ripeto, non sono degli estremisti, esiste una prevenzione che se non scatena un odio razziale, però fa sì che questo possa essere tollerato. E da qui mi sorge spontanea la domanda: non posso credere che la maggioranza del popolo tedesco avesse in sé quest'odio razziale, mentre invece credo che per quel ragionamento che ho espresso prima abbia di fatto accettata come logica la persecuzione degli ebrei. Quindi non erano carnefici, ma tacitamente complici o al più indifferenti, il che non sminuisce la loro responsabilità.

Qual è la sua opinione al riguardo?

 

La mia risposta è questa. Curiosamente, il “Mein Kampf” non è un libro delirante-aggressivo, che nasca dalla volontà di conquistare il mondo e sterminare gli ebrei. È un libro fobico-depressivo, che nasce dallo spavento. Hitler è terrorizzato dalla strapotenza di Francia e Inghilterra, le ammira e le teme. Tutta la personalità e il programma di Hitler sono esplosioni del trauma per la sconfitta della Germania: la Germania uscì dalla Prima Guerra Mondiale non solo vinta, ma annichilita e umiliata. Il “Mein Kampf” è la rivolta contro questa umiliazione. Il collante che unisce Hitler al suo popolo, quel filo elettrico lungo il quale lui scarica i fulmini della sua forsennata oratoria, è la vendetta. Si sente sempre nei suoi discorsi, nei suoi scritti, un concetto elementare, primordiale, insostenibile da ogni punto di vista, ma di facile presa sulla massa: noi tedeschi abbiamo perso, perché?, perché non siamo “noi tedeschi”, in mezzo a noi ci sono dei non-tedeschi, i quali ci corrompono e ci indeboliscono. Per questo abbiamo perso. La nostra sconfitta è colpa degli ebrei. Eliminando gli ebrei, compiamo una giustizia retroattiva. In Céline c'è un punto in cui il grande scrittore esclama: “Non è forse chiaro a tutti che questa guerra è colpa degli ebrei?”. Naturalmente non c'è mai un episodio, un fatto, una situazione in cui si possa individuare una colpa degli ebrei verso la Germania o la Francia, ma accusare gli ebrei della sconfitta nella prima guerra aveva molti effetti utili a Hitler, in primo luogo questo: si liberava la coscienza dei soldati tedeschi dal peso di una disfatta, si scaricava quella disfatta su un nemico interno, e così i soldati potevano tornare a sentirsi invitti ed invincibili. Da notare che anche storici non-tedeschi hanno scritto che le condizioni di pace imposte ai tedeschi a conclusione della Prima Guerra Mondiale erano inique e insopportabili, il popolo tedesco non poteva in nessun modo reggerle, erano in un certo senso vendicative. E dunque l'esplosione di Hitler sarebbe stata la vendetta per una vendetta. Ma io non sono uno storico, le ragioni per cui andavo a parlare con Levi non erano storico-politiche, ma morali e sociali.          

 

E' indubbiamente vero che condizioni di pace imposte di fatto costituirono i prodromi della seconda guerra mondiale, ma giustamente come dice lei i motivi che l'hanno indotta a intervistare Primo Levi non sono di carattere storico o politico, bensì morali, forse ancor più che sociali. E quindi è opportuno rientrare nel tema principale, che presenta spunti di notevole interesse, come quando Levi fornisce una spiegazione alla sua domanda volta a comprendere, come psicologicamente parlando, si riuscì a condizionare, meglio ancora a circonvenire un popolo quale quello tedesco. Levi risponde che il mezzo fu la propaganda e l'arma spettacolosa la comunicazione di massa, la manipolazione della folla, sperimentata dapprima dai regimi totalitari e poi, come anche ora, in costanza di una democrazia più di apparenza che di sostanza. Passo comunque al altro, all'argomento 6, quello del lager nazista e di quello comunista.

Verso la fine c'è una Sua domanda che partendo dal fatto che Se questo è un uomo è considerato oggi un testo esemplare della cosiddetta “letteratura concentrazionaria” cerca di comprendere i motivi per i quali gli editori l'hanno rifiutato per diversi anni. E qui fra la risposta di Levi trovo una stranezza, una non sincerità. Infatti dice: Se spegne il registratore glielo dico. E poi il risultato  non è eclatante, bensì si accenna a una disattenzione nella lettura.

Non ci credo, non posso crederci, perché lo spegnere il registratore equivale a non voler ufficializzare un discorso. Ora non so quel che poi Le ha detto Levi e se Lei possa ora riferirlo, ma comunque, in ogni caso, ha un'idea del perché di questi ripetuti rifiuti di pubblicazione?   

 

La mia “Conversazione con Primo Levi” ha avuto più edizioni e più editori, e credo che le ultime edizioni diano una risposta al suo dubbio. Io il libretto l'avevo pensato per Garzanti, gli avevo proposto una collanina agile, di volumetti di poche pagine, 100 o meno, di autori o su temi di attualità, saggi, racconti, confessioni. Lui rifiutò dicendo: “Libri come coriandoli? Mai”. Allora i primi libretti di quella collanina, progettata come collana-rivista, li feci io a casa mia. Li stampavo in una tipografia veneta, le tipografie venete, e del Nord-Est in generale,  costano molto meno di quelle lombarde. Di ogni volumetto tiravo 5-6 mila copie, e le spedivo alla sede grafica della Garzanti, a Cernusco sul Naviglio. Avevamo un contratto, Garzanti ed io, lui alla consegna pagava come già venduta la metà della tiratura che riceveva. Io con quei soldi pagano tutte le spese e ne avanzavo. Il primo volume andò bene, il  secondo pure, gli altri (ne feci 6) pure, e a quel punto Garzanti decise di fare lui una collanina sulle 100 pagine, di formato snello, e la chiamò proprio “Coriandoli”. La inaugurai io, con un racconto intitolato “Il canto delle balene”. Ricordo ancora il giorno che presentammo la collana, in via della Spiga, Franco Fortini, Piero Camporesi ed io. La “Conversazione con Primo Levi” però aveva ormai una sua storia, non la trasferimmo nei “Coriandoli”. Esaurita la mia tiratura, la ripubblicammo in una collanina intitolata “I libri di”, poi la chiese Guanda ed è ancora in Guanda, ci sarà una prossima edizione presso le edizioni della Università di Pisa ma sarà un'edizione su licenza di Guanda. Nelle prime edizioni ho rispettato il volere di Primo Levi, e quando pronuncia il nome di chi rifiutò il suo libro per Einaudi e mi chiede di spegnare il registratore, affinché quel nome non restasse, io quel nome non l'ho messo. Poi c'era troppa pressione dei lettori e dei giornali, che volevano saperlo, quel nome. Allora, nelle ultime edizioni, l'ho messo. Il “Corriere della Sera” sul supplemento culturale, allora diretto da Riccardo Chiaberge, imbastì una discussione. Il nome è quello di Natalia Ginzburg, ed è stupefacente che una scrittrice ebrea non abbia sentito la potenza della denuncia di quel libro di un fratello ebreo, che doveva restare nei secoli e nel mondo il testimone numero 1 dello Sterminio. La Ginzburg era ancora viva, quando il “Corriere” aprì la polemica, e intervenne, ma senza dire niente d'importante: le solite cose, non ero io che decidevo, decideva tutto Cesare Pavese, e così via.  Non credo ci sia niente di misterioso sotto: si tratta del giudizio sbagliato di una consulente inadeguata. Tutto qui. Primo Levi però non è facile da capire e da valutare. Più tardi, la casa francese Gallimard ripeté l'errore di rifiutarlo, e questo quando Levi era già noto nel mondo, proprio alla fine della sua vita. Ci ho sofferto molto, per quel rifiuto. È una storia complicata.  

 

La Sua risposta è indubbiamente convincente, perché come sappiamo non è la prima volta che un consulente editoriale cade in un errore grossolano (al riguardo basti pensare alla tormentata vicenda della pubblicazione del “Gattopardo”) e può darsi che la Ginzburg sia stata anche condizionata dal fatto di essere ebrea, il che, magari nell'incertezza che dovrebbe avere avuto sulla validità dell'opera, deve aver pesato non poco, nel timore che un giudizio positivo, seguito da un insuccesso commerciale, potesse esserle rimproverato per una scelta che qualcuno in azienda e anche fuori poteva attribuire alla comune appartenenza. In fondo stupisce di più il rifiuto della Gallimard, poiché ormai Levi non era certo uno sconosciuto. È a conoscenza dei motivi per cui l'editore francese decise di non pubblicare l'opera?

 

Era un mio ripetuto consiglio al direttore editoriale della Gallimard, di pubblicare “I sommersi e i salvati”. Il direttore era Hector Bianciotti, nato in Argentina, da genitori italiani, piemontesi, poi fuggito dall'Argentina e vissuto in Francia, a Parigi. Un grande scrittore, un suo libro autobiografico è tradotto in italiano da Feltrinelli. Persona mite, affabile, gentile, con un senso squisito per i libri. Fu nominato membro de l'Académie Française, la cosiddetta Accademia degli Immortali, un posto a cui teneva molto, perché gli assicurava una rendita mensile. Per la cerimonia d'insediamento lui doveva presentarsi vestito come un cavaliere del Settecento, calzoni aderenti corti al ginocchio e giaccia attillata color verde, bordata in oro, con al fianco uno spadino. I suoi invitati dovevano indossare lo smoking. M'invitò, ma io non avevo uno smoking. Mi scusai e non ci andai. Col senno del poi, e visto che lui è morto prestino, non solo me ne pento, ma anche me ne vergogno. Mi giustifico attribuendo la causa alla mia cronica mancanza di denaro. Ma questo avvenne dopo. Torniamo a Levi.

Levi non era tradotto in Francia, e questo mi sembrava assurdo. Io avevo tutte le opere tradotte da Gallimard e avevo un rapporto col suo direttore Bianciotti.  Insistevo perché traducesse “I sommersi e i salvati”, gli mandavo lettere. Lui mi chiamava al telefono e mi rispondeva: “Ferdinandò, non ci piace”. Io rispondevo: non vi piace? Ma come lo leggete? seduti? Non dovete leggerlo restando seduti, dovete cadere in ginocchio. Era una lotta lunga, era ancora in corso quando concludevo con Levi la conversazione contenuta in questo libretto. Per aiutare “I sommersi e i salvati” sono andato a Torino, a incontrarlo di nuovo, era una domenica, e insieme con lui scegliemmo una decina di pagine da pubblicare subito su “Panorama”. Lui preferì le ultime, quelle che terminano con l'affermazione: “C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. Esce l'intervista su “Panorama”, e chiamo “Libération” per chiedere spazio, un paio di pagine nelle quali spiegare ai francesi perché devono leggere Levi. “Libération” accetta. Mando il mio pezzo, piuttosto lungo. Levi muore di sabato. “Libération” mi chiama alla domenica, mi legge tutta la traduzione del pezzo, lo approvo parola per parola, il pezzo esce. Il martedì mi arriva una lettera di Primo Levi. Levi era morto al ritorno dalla solita passeggiatina di fine settimana, e io mi dico: ”Se mi arriva oggi, martedì, questa lettera l'ha imbucata sabato, a metà passeggiata, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi”. Apro la lettera. È una lettera vitale, piena di progetti, “mi mandi l'articolo di Libération quando esce, mi sappia dire se Gallimard vuol qualche altra copia dei miei libri”, non è affatto la lettera di uno che dieci minuti dopo si suicida. Perciò io sono fra coloro (siamo tre o quattro) che non credono al suicidio. Non ho le prove del voler-morire, mentre ho le prove del voler-vivere. Due giorni dopo mi chiama Bianciotti: “Ferdinandò, l'editore Albin Michel vuol prendere “I sommersi e i salvati”, ti preghiamo di dire alla vedova, signora Lucia, che anche noi vogliamo prendere “I sommersi e i salvati””. Due settimane dopo altra telefonata: “Albin Michel vuol prendere due libri di Levi, di' alla signora Lucia che anche noi prendiamo quelle due opere”. Un mese dopo mi trovo a Brescia, alla libreria Ulisse (che adesso non c'è più, era una libreria raffinata, diretta da un libraio che era anche uno scrittore squisito, Umberto Stefani), sto presentando il mio libro “La donna dei fili”, squilla il telefono: era ancora Bianciotti che mi cercava trafelato per darmi questo incarico: “Albin Michel vuol prendere quattro libri, ti preghiamo di trasmettere alla signora Lucia, e alla casa Einaudi, questo messaggio: la Gallimard è disposta  a prendere tutti i libri di Levi che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di nessun altro”.  Non è finita. Un mese dopo, altra telefonata di Bianciotti: “Ferdinandò, Albin Michel vuol portarci in processo, perché dice: voi lo avete rifiutato e io l'ho preso, perché adesso mi ostacolate? Ritiratevi”, se tu Ferdinandò ci mandi quella lettera di Levi, nella quale lui esprime il desiderio di essere pubblicato da Gallimard, ci aiuti”. Mando una fotocopia della lettera, e la questione si chiude, Primo Levi esce da Gallimard. C'è un piccolo strascico: quando esce in Francia “I sommersi e i salvati”, l'Istituto Italiano di Cultura organizza una giornata di presentazione, lei conosce la sede dell'Istituto, è in Rue de Varenne 50, pubblica anche una rivista che si chiama col nome della via e numero del civico, è una sede magnifica, ampia e sontuosa, le stanze sono piene, tutta la Parigi colta aspetta, io arrivo e un signore che non conosco mi s'accosta mormorando una cantilena: “Monsieur Camon, io non la benedico, io non la benedico”, il Direttore dell'Istituto accorre e mi trascina via, io gli chiedo: “Chi è questo signore? E perché non mi benedice?”, “Non ci badi – fa il Direttore -, è il traduttore che Albin Michel aveva già assunto, gli dispiace molto di non tradurre Levi, e pensa che la colpa sia di Camon”. Ecco, le cose andarono così. La mia conclusione è questa: “Levi è troppo”, al primo impatto (Natalia Ginzburg, Hector Bianciotti…) ispira un rifiuto che è un gesto di autodifesa, un istinto di sopravvivenza. Levi non commuove il lettore, non lo turba: lo tramortisce. 

 

E' una vicenda quasi da vaudeville e non a caso il teatro è la Francia; dispiace molto che Levi non ne abbia visto la conclusione e che la morte l'abbia colto anzitempo. Al riguardo, potrebbe essere stato un incidente, un malore improvviso, o anche un subitaneo sconforto; di certo non lo sapremo mai, ma in fondo poco importa, perché la morte è uno di quegli eventi che prima o poi accade a tutti, quella morte a cui era sfuggito quasi miracolosamente ad Auschwitz; mi sembra che questa “fortuna” (ma il termine è probabilmente improprio) gli sia tuttavia pesata, un po' come per il protagonista di Diceria dell'untore. Poi, come emerge dall'intervista, qualcuno addirittura ha voluto vedere un disegno superiore in questa sua salvezza, circostanza che ha indignato Levi perché, come dice lui stesso, sembrerebbe che Dio avesse concesso dei privilegi, salvando qualcuno e condannando qualcun altro. Con questo arriviamo alle ultime righe della conversazione, al punto in cui Lei domanda: “Cioè Auschwitz è la prova della non esistenza di       

Dio?” e Levi risponde: “ C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio.” (Sul dattiloscritto, a matita, ha aggiunto: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo).  

Credo che queste ultime righe, oltre a concludere una conversazione di estremo interesse, siano molto emblematiche; personalmente vedo un Levi certamente non ateo, e tantomeno agnostico, però è un uomo che cerca di capire, ricorre alla razionalità per cercare il trascendente, in un percorso senza sbocco. E allora arrivo alla domanda: secondo Lei, Levi credeva in un'Entità superiore, o comunque era alla continua ricerca di una risposta al perché della morte e soprattutto al perché della vita?

 

È lui stesso che risponde, nella conversazione. Dice che aveva ben ricevuto un'educazione religiosa, ma che Auschwitz l'ha spazzata via. La sua conclusione è: “C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. La mia impressione è stata allora, e torna ad essere ogni volta che rileggo questo passo, che Levi volesse proprio introdurre nel pensiero filosofico una prova della non-esistenza di Dio, da contrapporre ai sistemi dei filosofi che sostengono l'esistenza, per esempio Sant'Anselmo d'Aosta. “Dio c'è per questa e questa ragione”, dicono questi filosofi. “Dio non c'è, perché c'è Auschwitz” obietta Levi. Per me, la conversazione si chiudeva lì. Quando gliel'ho mandata, per un'ultima approvazione, mi aspettavo che lui correggesse qualche parola, ma non un concetto così essenziale, così fondamentale. Ci ho ragionato molto.  Dopo le prime edizioni, a partire dalla traduzione francese, ho aggiunto una prefazione con cui chiarisco ciò che per me significa quell'aggiunta: Levi aveva espresso una negazione assoluta dell'esistenza di Dio, ma se ne pente e riapre la questione: afferma che Dio non c'è, dunque il problema è chiuso, questa è la soluzione, ma subito corregge che “non trova una soluzione”, dunque il problema resta aperto, chiarisce che il non-trovarla non mette fine alla ricerca, infatti aggiunge ancora “la cerco ma non la trovo”: il messaggio finale è quello di una continua ricerca continuamente esposta allo scacco. La conclusione “c'è” o “non c'è” sarebbe comunque pacificante, la conclusione “non trovo ma cerco” resta aperta a un'angoscia che non ha fine.

 

Secondo me questa continua ricerca dimostra che in fondo Levi credeva che esistesse qualche cosa; la sua non era una negazione assoluta, anzi partiva da una deduzione personale quando diceva: “Dio non c'è, perché c'è Auschwitz.”  In fondo in lui era inconcepibile che Dio avesse consentito l'olocausto e se fosse stato ateo il problema non si sarebbe posto, anzi il fatto stesso della Shoah sarebbe stato un rafforzamento della sua convinzione. Comprendo che per lui questa ricerca sia stata un problema angosciante, ma solo perché ha voluto fare di una deduzione un ragionamento logico e senza dimenticare che l'essenza stessa di chi crede è il persistere del dubbio.

Siamo alla fine di questa conversazione, che per fortuna non ci ha impegnato per tutto il tempo che ha caratterizzato la Sua con Primo Levi e credo che questo sia il momento di tirare delle somme, di azzardare dei giudizi.

So che non è facile e so pure che parlare di quest'uomo Le riesce difficoltoso, ma è proprio per questo che la domanda che segue ha il suo senso.

Che cosa ha rappresentato e continua a rappresentare per Lei Primo Levi?

 

Il rapporto tra me e Primo Levi è il rapporto tra uno scrittore “minore” e uno non soltanto “maggiore”, ma “massimo”. Levi era come dev'essere uno scrittore, e come, nel mio piccolo, tento di essere io: uno scrittore “separato”, che si presenta al mondo con i libri, non in tv, non nei giornali, non nei premi. Perciò era uno scrittore dimenticato. Si stampavano storie della letteratura, in cui Levi non c'era. Ricordo che il manuale di storia letteraria più diffuso allora nei licei e nelle università, cioè quello di Natalino Sapegno, era giunto alla 43esima ristampa, e a Primo Levi non dedicava neanche una riga. Ne ho parlato col direttore del supplemento letterario della “Stampa”, che allora era Luciano Genta, e lui mi ha consigliato: “Scrivi un ‘Parliamone'”. Il “Parliamone” era una rubrica-jolly, firmata ora da un collaboratore ora da un altro, in cui si esponeva un problema letterario-culturale-editoriale del momento. Scrivo il “Parliamone”. La mia domanda era: “Si può ristampare 43 volte una storia letteraria, e dimenticare sempre Primo Levi?”. Alla 44esima edizione, Natalino Sapegno include Primo Levi con queste parole: “È forse il più grande scrittore italiano del secolo”. Allora la mia domanda diventa: può una storia letteraria italiana dimenticare per 43 edizioni il più grande scrittore del secolo? Da che cosa nasceva questa dimenticanza? Dal fatto che Levi viveva rintanato, non andava a convegni, non partecipava a dibattiti, non si faceva notare in nessun modo; se pubblicava un libro, l'editore mandava le copie alla stampa, ma non sollecitava nessuna risposta. Si comportava come deve comportarsi uno scrittore: scrive i libri e sparisce. Sono convinto che fargli avere il Nobel sarebbe stato possibile e facile. Questa mia “Conversazione”, della quale stiamo parlando qui, è uscita in Svezia, sono andato a presentarla a Stoccolma, all'Istituto Italiano di Cultura e all'Università: c'erano molti ascoltatori, studenti, docenti, giornalisti, scrittori (a Stoccolma, se vien presentato all'Istituto di Cultura Italiano un autore, gli intellettuali svedesi accorrono perché sanno che lì si trova il vino italiano; non è che nei negozi e nei ristoranti il vino italiano sia introvabile, ma è carissimo, perché è gravato da una pesante tassa che non va al Fisco ma alla Casa Reale), c'erano anche membri dell'Accademia di Svezia, votanti al Nobel, e parlando con loro ho avuto la netta sensazione che, se Levi fosse stato presentato al Nobel, gliel'avrebbero dato. Ma questa è un'operazione strana, che non dipende per niente dal Ministero della Cultura o dell'Istruzione, ma solo dal Ministero degli Esteri. I nostri Istituti Culturali all'estero sono gestiti dalla Farnesina. Anche questa è un'assurdità. Ma parliamoci francamente: cosa aggiungerebbe il Nobel, a Primo Levi? Nulla.




4 commenti:

  1. Una lettura interessante e coinvolgente che mi ha consentito di conoscere meglio Primo Levi, soprattutto sotto il profilo umano.
    Domande e osservazioni accurate e approfondite, risposte chiare che suscitano non poche riflessioni. Una doppia intervista veramente arricchente.
    Grazie.
    Piera

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  2. E' stata un'intervista lunga; ci siamo lasciati tutto il tempo necessario per formulare le domande e le risposte.

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  4. Intervista lunga e, naturalmente, interessante. Molto gradita.
    Vorrei soffermarmi solamente su questa frase di Primo Levi. “C’è Auschwitz quindi non può esserci Dio “ Riflettendo su questa affermazione mi viene da pensare che, se Dio significa giustizia e amore, forse un po’ di Dio era in quei tedeschi che resisi conto della immane tragedia che si stava compiendo sotto la direzione del loro “innominabile” capo di stato, si erano coraggiosamente attivati per eliminarlo. Purtroppo i loro tentativi non andarono a buon fine e gli stessi furono giustiziati in modo orribile. Forse un po’ di Dio c’era anche in quel padre Kolbe che ha offerto la sua vita per salvare quella di un padre di famiglia. Forse un po’ di Dio c’era anche in quelle persone note e meno note che, con grave rischio personale, cercavano di salvare tante vite innocenti. Dio continuava (e continua purtroppo ) a essere ucciso come è stato per Gesù Cristo. Non mi piace sentir dire che “Non cade foglia che Dio non voglia”. Tutto il bene e il male ci può venire dall’uomo e non da Dio. Siamo esseri liberi di scegliere. Siamo dotati di ragione e coscienza (dove abita il Dio buono). Certo, sarebbe stato meglio che fra le gravi patologie che ci affliggono fossimo stati preservati dalla follia, nelle sue varie forme evidenti o, peggio, nascoste sotto apparente normalità. Follia che ha fatto e può fare orribili danni specialmente quando riesce ad essere contagiosa, insinuandosi nei singoli e poi nelle folle.
    Gio

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