venerdì 5 novembre 2021

I magnifici sette

 




La Certosa di Parma -  Stendhal - Newton Compton Editori

 

Quando lessi per la prima volta questo romanzo è stato all'incirca una quarantina di anni fa; all'epoca ero uno studentello che si sentiva quasi importante per avere fra i suoi autori preferiti Henry Beyle e la Certosa di Parma aveva tutto quanto può rendere interessante la lettura a un giovane spensierato: passione, intrighi, duelli, insomma un cappa e spada in piena regola.

A distanza di così tanto tempo la rilettura è andata quasi inconsciamente a cercare un'altra visione dell'opera, perché troppo semplicemente era facile attribuirle i connotati di un romanzo d'avventura, fuori dai canoni letterari propri di Stendhal .

E allora mi sono soffermato su quelle pagine che da giovane mi avevano destato minor interesse e così ho scoperto l'autentica grandezza di quest'opera, scritta in poco più di un mese e mezzo quasi alla fine della vita del suo autore.

Stendhal non aveva affatto l'intenzione di realizzare solo un romanzo d'avventure; il suo scopo è stato ben più elevato e non a caso l'ambientazione è in uno stato assolutista quale era il Ducato di Parma. La sua è una ferma condanna alla politica, che tutto piega alla ragion di stato, tanto che mi verrebbe spontaneo dire, rifacendomi a quanto osservò Balzac, entusiasta dell'opera, La Certosa è il romanzo che avrebbe scritto il Macchiavelli se fosse vissuto a quell'epoca e fosse stato messo al bando dai poteri imperanti.

Insomma, secondo me, tutti i romanzi di Stendhal, ma soprattutto questo, sono delle vere e proprie dissertazioni di amoralismo politico.

E ciò è tanto più vero se si osservano i tre personaggi principali:

 

Fabrizio Del Dongo

Vive come distaccato dalle azioni che compie, è un essere per certi versi più spregevole del Julien Sorel de Il rosso e il nero, perché, benché ne abbia tutte le opportunità, reputa di scarso peso occupare una nicchia ben precisa nell'umanità, al punto, anche, di essere incapace di amare.

 

La Sanseverina

E' una romantica pura, passionale al massimo, nel suo amore per Fabrizio che si accresce tanto più quando deve essere protettiva e allora sboccia immediata l'arguta trama politica, intesa sì come una necessità per porre rimedio ai gesti inconsulti del giovane Del Dongo, ma anche come gioco necessario per poter a pieno titolo essere parte di un mondo di sottili intrighi, di rivalità, di capovolgimenti di fronte, di alleanze tradite e riprese.

In poche parole per essere colei che conduce la politica.

 

Il conte Mosca

Il politico per eccellenza che si adopera per accontentare tutti senza scontentare nessuno. A suo modo è una figura simpatica e sembra di vederlo questo aristocratico cavalcare le varie fazioni con la dignità che gli è propria, ma la mancanza di rispetto per se stesso. Preciso che la personalità del Mosca è quella di una brava persona, ma che manca di ideali, tanto che, fedele servitore del Principe, finisce con il suggerire soluzioni inapplicabili, in modo che qualche cosa abbia momentaneamente a cambiare per riconfermare alla fine l'immobilismo più assoluto.

 

Questi tre personaggi, apparentemente diversi nel comportamento, finiscono con l'essere accomunati dalla tragicità di non credere a nulla, di vivere il loro rapporto a tre come se al mondo esistessero solo loro, in una totale mancanza di ideali a cui cercano di supplire tramite i rapporti personali, alla ricerca di una felicità impossibile in chi può far progetti e invece vive, o meglio vegeta, alla giornata.

 

C'è, inoltre, un quarto personaggio a cui Sthendhal guarda con la più viva simpatia, desiderando in cuor suo di potergli somigliare: Ferrante Palla, un liberale condannato a morte in contumacia, un po' vanesio, se non pazzo, e che del politico è esattamente l'opposto, con una fede incrollabile nel suo ideale, tanto da esser disposto a tutto, anche a sacrificare la vita. E' innamorato della Sanseverina, anche se sa che questo sentimento sarà senza speranze, ma è egualmente felice, perché, come crede nei suoi principi liberali, crede anche fermamente nel suo amore. Da notare che questa figura, simpatica nelle sue vesti di Robin Hood, assume toni ridicoli, quasi a diventare una parodia della libertà e della giustizia, a cui solo chi non è savio di mente può credere come realizzabili, sembra dirci Stendhal.

 




Il giardino dei Finzi Contini -  Giorgio Bassani - Mondatori

 

L'opera fa parte di un grande impianto romanzesco a cui Giorgio Bassani lavorò per circa quarant'anni e che comprende anche “Dentro le mura”, “Dietro la porta”, “L'airone”, “Gli occhiali d'oro” e “L'odore del fieno”, testi non strettamente connessi, ma che presentano una comune simbologia poetica e un'ambientazione che costituisce anche una metodologia di osservazione degli eventi storici, con una Ferrara quasi mitizzata, dalle ampie e silenziose strade, con una vena di esile malinconia che riflette tuttavia il piacere di un vivere in un mondo quasi a sé, fra nebbie perlacee che tutto celano e che lasciano scoprire all'improvviso case, mura, alberi, affinché lo stupore della visione si accompagni alla quiete silente di una provincia quasi fuori dal tempo.

Questa atmosfera è descritta benissimo ne Il giardino dei Finzi Contini, un romanzo che sorge e cresce sul filo del ricordo. Raramente mi è accaduto di immergermi inconsapevolmente in un ambiente, di sentirmi parte della narrazione, come se dietro l'io narrante ci fossero tutti i nostri sentimenti, i nostri sogni di una vita quieta, lontana da ogni clamore, come se gli eventi del mondo fossero lontani anni luce.

E se nel prologo ci sono le immagini di una necropoli etrusca, che portano a una riflessione sulla morte, non atroce, ma malinconica, come un evento ineluttabile che chiude la vita, pure il romanzo inizia con la descrizione del cimitero ebraico di Ferrara, quasi a prendere atto che tutto ha un termine, fugando così il naturale timore della dipartita.

Anche nella tragedia della famiglia dei Finzi Contini, distrutta nei campi di sterminio, non c'è traccia di orrore, non c'è ansia atroce, ma solo il mesto ricordo di un amore giovanile perduto per sempre.

In questo senso è assai emblematico il personaggio di Micol Finzi Contini, la fanciulla di cui l'io narrante è perdutamente innamorato senza che tuttavia lo dimostri apertamente, perché le decisioni, nel mondo ovattato e sospeso del giardino dei Finzi Contini, non devono esserci. Sarebbe, infatti, un ritornare sulla terra, affrontando una realtà che spesso non è piacevole.

Quanti giardini ci sono nel nostro animo, quanti rifugi irreali in cui nei momenti di difficoltà ci piace adagiarci per fuggire il quotidiano!

Ecco, l'invito a leggere questo romanzo, di una delicatezza e di un pudore incredibili, è d'obbligo, perché alla fine, quando il protagonista rinuncia a Micol, sarà per tutti chiaro che il sogno non è un comodo rifugio e che la realtà, tutto sommato, è l'unica prova della nostra esistenza, pur con il suo carico di dolori, ma anche di brevi gioie.

 



Memorie di Adriano -  Marguerite Yourcenar - i Einaudi

 

Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti…”

 

Con i versi della poesia che Adriano scrisse lo stesso giorno della morte termina lo stupendo romanzo di Marguerite Yourcenar.

Frutto di un lavoro di ricerca durato anni, di un'indagine attenta e laboriosa, rappresenta un ritratto di fulgida bellezza di questo imperatore.

Come raccontare la storia di un uomo, del suo modo di vedere, di ascoltare, di sentire, dando un quadro della sua grandezza? Come riconoscergli l'immortalità, una vita oltre la morte?

L'autrice parte da dati storici, da tracce, da scritti anche autografi e, anziché narrare la sua vita, fa parlare lo stesso Adriano, che ripercorre le tappe della sua esistenza, in una sorta di monologo interiore, per mezzo di una lunga lettera che scrive a Marco Aurelio.

E' un uomo vecchio, malato, ormai incapace di sopportare i pesi di governo quello che ci viene rappresentato, in una sorte di poema d'amore alla vita.

E così Adriano racconta della sua ascesa agli alti gradi militari, le campagne di guerra condotte con capacità nonostante lui ami la pace, il rispetto per l'avversario mai definito nemico, il desiderio di conoscenza che non lo abbandonerà poi, il matrimonio di convenienza che lo lascerà insoddisfatto, le astuzie e gli intrallazzi per arrivare al trono, l'amore per il giovane Antinoo, il dolore disperato per la sua morte, sentimenti, emozioni e passioni di un uomo per il quale tuttavia il senso del dovere e dello stato vengono sopra ogni cosa, in quella responsabilità,  che avverte sempre presente, della bellezza del mondo.

E lui è uomo in tutto, anche nel vivere la sua morte, nelle profonde riflessioni del suo ultimo scorcio di vita, nell'accettazione rassegnata del destino, consapevole della gravità del suo stato, nei suoi sentimenti di riconoscenza per chi gli è sempre stato vicino e che non l'abbandonerà fino al momento fatale.

In questo contesto l'autrice ha il merito di essersi messa al servizio del personaggio, quasi nella veste del messaggero che porterà la lettera; sempre fedele ai fatti, tutto il resto è affidato alla sua grande sensibilità.

Ne esce un Adriano di grandissimo spessore, ma uomo come noi, alla  continua ricerca di un modo per conciliare dovere e felicità, sentimenti e intelligenza, sogni e realtà. 

Così, mentre consegna le sue spoglie mortali all'Ade, l'autrice ne immortala il ricordo in un autentico capolavoro della letteratura, un libro da leggere e rileggere, un raro esempio del felice incontro di due grandi:  Publio Elio Traiano Adriano e Marguerite Yourcenar.

 

Seguono poi i Taccuini di appunti, con i quali si può verificare l'accurata meticolosità del lavoro intrapreso, nonché l'interessante resoconto della traduttrice Lidia Storoni Mazzolani.





Nero di Maggio -  Leonardo Gori - TEA


 In un caldo maggio del 1938 a Firenze ci sono la visita di Hitler, i frenetici preparativi della città per il memorabile evento, due omicidi di prostitute assai giovani, un capitano dei Reali Carabinieri dotato di notevole intuito, la sua fidanzata, ebrea, che vuole dare un senso alla vita con un gesto clamoroso, un giovane gerarca di primissimo piano e tutto un contorno di personaggi di assoluta credibilità.

Il ricorso a una ricostruzione storica esemplare conferisce una dignità letteraria di notevole livello a un romanzo giallo, ben congegnato e con una trama avvincente, densa di pathos che resiste benissimo fino alla soluzione finale.

L'impressione che ho avuto è che l'autore sia ricorso al thriller come un pretesto, per descrivere invece atmosfere e personaggi di un epoca nemmeno tanto lontana e questo è il pregio principale dell'opera.

Fra l'altro è addirittura superlativa la capacità che ha avuto nel delineare la figura dell'alto gerarca fiorentino, nel romanzo senza nome, ma facilmente identificabile in Alessandro Pavolini, il più nazista dei fascisti, uomo colto, brillante, costantemente in preda a un delirio di rinnovamento accompagnato da uno spietato cinismo.

I dialoghi fra Bruno Arcieri, l'abile capitano dei Reali Carabinieri e questo personaggio di primo piano, affabile, ma anche crudele, sono la parte migliore di un romanzo in cui l'aspetto storico è a mio avviso predominante.

La meticolosa ed esatta ricostruzione del corteo che porta dalla stazione ferroviaria al centro Hitler e Mussolini è stupefacente per il coinvolgimento del lettore, a cui pare addirittura di trovarsi presente, fra la folla assiepata ai lati delle strade.

Un altro elemento da non sottovalutare è poi il conflitto fra il profondo senso di giustizia del capitano Arcieri e il concetto della stessa, del tutto personale e delirante, del gerarca.

Quindi, non solo un bel giallo, avvincente e ricco di tensione, ma anche un grande affresco storico che riesce a darci una visione di un'Italia alla vigilia della seconda guerra mondiale, un paese che inizia ad avvertire i primi sintomi di un piccolo benessere, senza accorgersi che è il miglioramento, apparente, del moribondo prima del decesso.

Del resto l'apparenza domina su tutto, ogni cosa deve sembrare fulgida anche se non lo è e i problemi non esistono, perché basta non parlarne, caratteristiche che, purtroppo,  ricompaiono anche ai nostri giorni.




Una terra chiamata Alentejo - José Saramago -  Einaudi

 

L'Alentejo, che vorrebbe dire al di là del Tejo, meglio conosciuto da noi come Tago, si trova a est di Lisbona ed è una terra destinata esclusivamente all'agricoltura.

Non sono trascorsi molti anni da quando l'immagine di questi territori propri dell'Europa del Sud richiamava subito alla mente i grandi latifondi, poco coltivati e con metodi quasi primitivi da miseri braccianti, sottopagati e in balia del potere dei padroni.

Una terra chiamata Alentejo (il titolo originale è Levantado do Chao) è stato scritto da José Saramago nel 1980 e racconta la storia secolare di una famiglia di braccianti in quel territorio.

Sono quattro generazioni della famiglia Mau-Tempo (Maltempo, un nome quanto mai emblematico) che vengono a comporre questa saga contadina, il cui elemento d'unione è la miseria più nera, in un periodo che va dalla fine della monarchia, attraversa gli anni neri del regime di Salazar e si conclude con la luce della rivoluzione dei Garofani (25 aprile 1974).

Nel corso di questo lungo periodo, mentre in Europa avvengono sconvolgimenti che incidono profondamente sulla storia, in questo remoto angolo, quasi dimenticato da Dio si passa dalla dura e inclemente battaglia per sopravvivere alle lotte per ottenere una condizione di vita almeno dignitosa.

Sì, perché quello che manca a questi miseri contadini è la dignità dell'essere umano, è la speranza in un futuro diverso. In balia dei latifondisti, sfruttati con orari di lavoro propri degli schiavi, aggrappati a una religione che diventa ulteriore mortificazione, vista la connivenza fra il clero e i padroni, si nasce, si vive e si muore in un'inedia provocata dai patimenti, dalle fatiche, dalle ingiustizie e dalla penuria di alimenti.

E' inevitabile, dato l'argomento, che la mente corra subito allo splendido I Malavoglia di Giovanni Verga, il cui verismo fece conoscere realtà per convenienza sempre sottaciute.

In Saramago è evidente la formazione marxista che distingue la sua opera da quella di Verga, quest'ultima non ideologica e pertanto assai più cruda ed immediata.

Però, se anche si avverte nelle righe il pensiero politico dell'autore portoghese, resta un'immagine indelebile di un mondo arcaico e di torti, dove solo un elemento pare non partecipe, pur assumendo di fatto la caratteristica di personaggio principale: il paesaggio.

Infatti il romanzo inizia con “ La cosa più importante sulla terra è il paesaggio…”  e le descrizioni di Saramago sono veramente splendide, tanto che sembra di vedere le pianure, i sughereti, i temporali improvvisi, perfino i rilievi.

Se non bastasse questa eccelsa capacità dell'autore, del tutto particolare è la forma della scrittura utilizzata, uno stile personale, una specie di scrittura orale che inserisce il parlato nel racconto, senza che vi siano pause o addirittura, spesso, punteggiatura.

In tal modo viene a essere vivacizzata la narrazione, necessariamente lenta altrimenti per l'assenza di eventi determinanti, e l'impressione che se ne ricava è che Josè Saramago esca dalle pagine e lì davanti a noi prosegua nel suo racconto, con una voce dal tono a volte acceso, ma più spesso ironico, una sorta di amico che ci partecipa le sue riflessioni su un mondo alla rovescia.

Una terra chiamata Alentejo è un autentico capolavoro.





I sassi -  Sacha Naspini - Il Foglio


In fondo ogni uomo è una pietra, a suo modo. Ogni vita lo è. Le vite sono come i sassi, rotolano una accanto all'altra, cozzano, si rompono in frammenti; e i frammenti si scontrano con altri frammenti… Ogni vita è ricordo e possibilità di un'altra vita. Una vita può raccontare altre vite, o esserne il riassunto. Riassunto di un'identità, dove si capisce cosa porta qualcuno alle proprie scelte, cosa le comanda, se davvero esiste un libero arbitrio al di là del vortice dove ogni giorno ruotiamo di moto proprio, sulla spinta di altri moti che ci hanno toccato prima, che ci toccheranno…”

 

Spesso si considerano i noir romanzi di pura evasione, ma mai si pensa di associarli ad altri non di genere e che per qualità rientrano di diritto nella buona letteratura.

Penso che questa omissione dipenda dal fatto che la trama è spesso, per non dire quasi sempre, l'elemento essenziale dell'opera, mentre altri aspetti, comunque importanti, sono meno curati, quando addirittura trascurati.

Non è così per I sassi, di Sacha Naspini, che non voglio considerare un semplice noir, pur essendo presenti tutte le caratteristiche di questo genere, in una storia complessa che se parte lentamente poi accelera gradualmente al punto da tenere letteralmente incollato il lettore. E del resto della vicenda non intendo parlare, di questa storia narrata in epoche alternate e con una conclusione degna di un maestro della penna.

Quello che invece mi preme evidenziare è l'aspetto letterario dell'opera, perché c'è qualità, e non poca, nelle 149 pagine di questo romanzo, aspetto tanto più rilevante ove si consideri la giovane età dell'autore, nato nel 1976. Alla base c'è una formazione culturale di tutto rispetto che consente di esprimere concetti non facili con apparente semplicità e mi riferisco in particolare alla figura complessa della protagonista, intorno alla quale è poi costruito l'intero canovaccio. Infatti ci sono alcune pagine che definirei prioritarie per l'opera e sono quelle in cui lei parla di se stessa al suo interlocutore, per il momento sconosciuto, e nelle quali si delinea sapientemente la sua personalità di bimba adottata che sa di non essere la figlia naturale dei genitori legittimi. Questo stato di appartenenza e di non appartenenza alla famiglia che la ospita, la sua proiezione del senso di solitudine sono pagine di autentica elevata letteratura. L'autore ben sapeva che quella parte del libro era determinante per reggere tutta l'impalcatura della vicenda, una sorta di fondamenta, e infatti non ha risparmiato negli elementi di sostegno, con una caratterizzazione di pregevolissima fattura.

Mi corre anche l'obbligo di evidenziare come l'atmosfera sia stata oggetto di attento studio e che i risultati al riguardo raggiungano livelli di eccellenza, nonostante le evidenti difficoltà di trattare di epoche diverse, di  più luoghi e di situazioni, che, pur concatenate, trovano giustificazione in quanto accaduto anni prima.

La vicenda, come ho già detto, è complessa, la protagonista e anche altri personaggi sono complessi, perché in fondo un essere umano è l'unione di tanti elementi, di qualità e di difetti, di atteggiamenti e di intimi convincimenti. In questo senso Naspini ha delineato delle figure vive, reali, che animano, quasi autonomamente dal suo creatore, l'intera trama. Questa quasi assenza dell'autore, che riesce a essere presente senza che ci si accorga, unita alla capacità di fornire indicazioni non elaborate degli ambienti e delle situazioni consente al lettore di avere una visione propria, di sviluppare la sua creatività, facendolo diventare partecipe. Non è un caso, infatti, se la lettura delle prime pagine, essenziali propedeuticamente, è stata lenta, ma poi è tale il senso di progressiva attenzione, quasi una crescente e ossessiva necessità di conoscere, di scoprire, che il testo viene quasi divorato. Non si riesce insomma a staccare gli occhi dal libro, con una fretta e un'ansia di arrivare in fondo, a quella pagina 149 che, girata, e bianca sul retro, ci fa provare il rammarico di essere giunti al termine.

Allora interviene una pausa di riflessione e ci si ricorda che c'è ancora qualche cosa da leggere, quella prefazione spesso trascurata e che nel caso specifico porta la firma di Walter Serra. Si tratta solo di una paginetta più qualche riga, dove si trova conferma delle sensazioni e delle emozioni, ancora vive e forti, provate durante la lettura del romanzo. Non c'è un moto di delusione, ma si è contenti di trovare conferma, in altra persona, del giudizio ampiamente positivo. Non è finita, però, perché nel foglio successivo è riportata una frase di Daniele Boccardi che dà tutto il senso all'opera, qualora non fosse stata compresa nella sua globalità:

Un bambino non è mai tutto suo padre.

Anche questo è un passo avanti (Genetica).

Leggete questo romanzo e capirete anche perché questa frase non è stata messa lì a caso, tanto per giustificare una pagina in più.




 La vendetta del longobardo -  Marco Salvador - Piemme

 

 Alcuni giorni fa ero in libreria a cercare un titolo che mi interessava e, guardando negli scaffali, ho trovato all'improvviso questo volumetto. Premetto che ho letto già i romanzi di Salvador non di genere storico (La casa del quarto comandamento e Il maestro di giustizia), ma mi era sempre rimasta la curiosità di poter conoscere almeno uno dei tre libri ambientati in epoca longobarda.

Per farla breve, ho smesso di cercare e ho acquistato unicamente La vendetta del longobardo.

Il romanzo, con le sue 427 pagine, risulta piuttosto corposo, ma la lettura è senz'altro agevole, oltre che veramente piacevole.

Il periodo affrontato dall'autore sono gli ultimi anni del regno longobardo (VIII secolo d.C.) e, fra l'altro, riporta la decadenza di un popolo che riuscì, abbastanza a lungo, a regnare sull'Italia. Ritroviamo così i re Astolfo e Desiderio, figure importanti nella storia, dotate anche di notevoli capacità, ma che nulla poterono per contrastare un declino naturale. Ci sono pure i grandi avversari, come Pipino e suo figlio Carlo e la politica assai terrena di una Chiesa romana sempre più votata al potere temporale.

In queste vicende, fra guerre, intrighi di corte, paci traballanti, emerge la figura del franco-longobardo Evaldo, la cui vita è improntata alla vendetta da compiersi contro il crudele Pipino. Se tutti gli altri personaggi sono esistiti veramente, questo penso sia il parto della fertile fantasia di Salvador. Tuttavia, è degna di nota la capacità di far assumere a questo protagonista una veridicità quale potrebbe esserci solo nel caso che fosse effettivamente vissuto, inserendolo in modo preciso nella vicenda e rendendolo di fatto il narratore della stessa.

Salvador non si è limitato a raccontarci la fine del regno longobardo, ma ha anche saputo ricreare le atmosfere, delineare, facendoli rivivere, personaggi di cui serbiamo memoria dai banchi di scuola, in un quadro d'insieme che ha il pregio non da poco di educare divertendo.

E così, pagina dopo pagina, comprendiamo che cosa accadde tanti secoli fa e anche il perché, un lavoro di ricerca che appaga lo storico e il lettore.

Quindi, La vendetta del longobardo mi è talmente piaciuto che, oltre a  raccomandarne vivamente la lettura, mi impegna a reperire anche gli altri due testi (Il longobardo e L'ultimo longobardo), che potranno così accrescere la mia conoscenza di un popolo che francamente conoscevo in modo approssimativo.





1 commento:

  1. Davvero una bella e interessante lettura, Renzo! Alcuni dei libri che hai recensito li conoscevo, altri, no, li terrò presenti per nuove letture.
    Grazie.
    Piera

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