Il Natale dei pensionati
di Renzo Montagnoli
Fra continui annunci del governo che prometteva il pagamento delle pensioni di dicembre e tacite smentite si arrivò al 24 dicembre, vigilia di Natale, allorché si sparse la voce, iniziata da non si sa chi, che presso tutti gli uffici postali c’erano le agognate risorse. Fu come un temporale estivo, con i primi cupi brontolii e poi in un crescendo di tuonate, sicché vecchi e meno vecchi, invalidi, storpi, colpiti da Alzheimer, ciechi che prima non vedevano la luna a un palmo di naso, si misero in cammino vocianti, tutti diretti al più vicino sportello delle poste. La stessa cosa accadde a Verzù, piccolo paese della pianura lombarda, ricco di sole e calore in estate e di nebbie e di freddo in inverno. I locali carabinieri, allarmati per questa fiumana che andava ingrossando lungo il percorso, si disposero ad attenderli, muniti di casco, scudo e manganello, nella piazza del municipio, dove appunto c’era anche l’ufficio postale, i cui dipendenti sprangarono l’ingresso, pronti a resistere come i soldati di Forte Apache.
Ma chi avrebbe mai potuto fermare quell’orda di affamati, a digiuno da parecchi giorni, che già poco mangiava quando pagavano i due soldi delle minime?
Il maresciallo invitò alla calma i facinorosi, ma fu tutto vano: i sei carabinieri della stazione furono travolti, aggrediti a calci, pugni e morsi, e chi riuscì a fuggire fu visto correre di sghimbescio con una protesi dentaria agganciata a una natica, sì, perché la fame e l’impotenza di fronte a un governo ladro e inetto rende il popolo disperato, che usa qualsiasi mezzo per far sentir le sue ragioni, anche la bocca, soprattutto quella che insieme allo stomaco è da giorni inattiva. La porta fu sfondata, si saltò il balcone, si carcerarono invano quei soldi che non c’erano, e allora, tutti, come a un segnale convenuto, gridarono: - All’Ipermercato! Fu peggio della rivolta dei forconi, anzi sarebbe stata ricordata come la rivolta delle forchette, impugnate con entrambe le mani per poter mettere qualcosa sotto i denti.
Il grande emporio commerciale era indifeso, ormai accessibile, perché i dipendenti pensarono bene di tagliare la corda. La fiumana piombò nei locali e arraffò di tutto; i più fortunati misero le mani, pardon infilzarono i rebbi delle forchette nella preziose carni e si ingozzarono senza cuocere; c’era chi girava tenendo in equilibrio cinque o sei scatolette di sardine sott’olio, altri, quelli meno fortunati e dalla vista corta, cercarono inutilmente di aprire degli strani barattoli con sopra disegnate delle mosche e delle zanzare. Il colpo più grosso lo fece il geom. Sollievo, un novantenne cieco come una talpa, che si sforzava di mandar giù quella che credeva margarina vegetale e che invece, a detta di molti, era crema per le mani.
Comunque, tutti, chi più chi meno, ebbero l’antipasto, perché con lo stomaco impigrito da giorni di digiuno anche una trota intera, divorata cruda, serviva solo a solleticare l’appetito. Fra rutti e peti quella folla lasciò l’ipermercato, decisa a soddisfarsi negli altri negozi del paese. Non uno sfuggì al linciaggio e così furono divorati i fiori del fioraio (qualcuno poi dirà che i migliori erano quelli finti, anche se un po’ duretti), del bar non restò che la macchina da caffè fracassata e non sfuggirono allo scempio nemmeno la merceria, con i bottoni scambiati per succose caramelle, e la tabaccheria, che vide stecche e stecche di sigarette trangugiate, anziché andate in fumo. Il sindaco, il rag. Porcelloni, grande e grosso com’era s’azzardò ad arringare la folla, ma fu travolto, calpestato, perfino mordicchiato.
Ormai non c’era più nessun freno e fra quelli che erano riusciti a mettere nello stomaco qualcosa ci fu anche chi tentò di usar violenza alla perpetua del prete, la Cesira, storta e gobba, e forse anche a lei non sarebbe dispiaciuto, ma vuoi per il momento di tensione e diciamo anche francamente per l’età, si risolse in un nulla di fatto, con il vecchietto che si rialzò continuando invano a cercare con la mano dentro la patta dei pantaloni.
Poi qualcuno, non si sa chi, gridò: - A morte i politici! E il grido percorse tutto stivale. A Roma in Parlamento, al governo si richiese l’intervento dell’esercito, ma questo nicchiava, perché non era pagato da quasi un anno e allora avvenne un fuggi fuggi, chi con l’auto blu, chi con l’elicottero blu, chi con l’aereo blu, insomma sembrava la grande fuga dei Puffi.
Brutta cosa la folla inferocita, peggio di un bisonte impazzito e i politici che non furono svelti ad eclissarsi ne uscirono malconci. L’onorevole Trepalle, famoso per i suoi discorsi roboanti e inconcludenti, fu visto l’ultima volta correre in mutande in Piazza Venezia, per poi gettarsi nel Tevere; il senatore Scartino, sì proprio lui, il difensore, a parole, dei pensionati, finì fra gli addobbi del gigantesco pino natalizio di Piazza Navona, e fu anche fortunato, perché il direttore generale dell’INPS, legato come un salame, fu fatto rotolare giù per i sette colli. Ovunque risuonava un unico grido: Pane! E ai pensionati si erano intanto aggregati i disoccupati, i cassaintegrati, gli studenti senza speranza, le casalinghe , i poliziotti, i carabinieri, insomma il paese era diventato un vulcano in eruzione.
In mezzo a tutti questi clamori si arrivò alla mezzanotte e fu allora che si udì una voce forte scendere dal cielo: - Basta, figlioli, tornate a casa, i vostri nemici sono fuggiti, fate in modo che non ritornino, trovate della brava gente che vi guidi e celebrate questa grande festa.
Poco a poco i rivoltosi si dispersero, tornarono alle dimore, stanchi, ma speranzosi, trascorsero il Natale dormendo, e così anche Santo Stefano, e quando si risvegliarono accesero i televisori e, con sgomento, videro che i politici erano di nuovo sugli scranni del potere. Spensero sconsolati gli apparecchi, abbassarono gli occhi, misero la coda fra le gambe, restarono come inebetiti per non più di cinque minuti e poi come cani bastonati si ricordarono della droga dei poveri; riaccesero allora il televisore appena in tempo, perché l’arbitro stava fischiando l’inizio del derby cittadino fra Inter e Milan.
Il tesoro dei poveri
di Gabriele D’Annunzio
C'era
una volta, non so più in quale terra, una coppia di poverelli.
Ed
erano, questi due poverelli, così miseri che non possedevano nulla,
ma proprio nulla di nulla.
Non avevan pane da mettere nella
madia, nè madia da metter vi pane.
Non avevano casa per
mettervi una madia, nè campo per fabbricarvi casa.
Se
avessero posseduto un campo, anche grande quanto un fazzoletto,
avrebbero potuto guadagnare tanto da fabbricarvi la casa.
E se
avessero avuto la madia, è certo che in un modo o in un altro,
in un angolo o in una fenditura, avrebbero potuto trovare un pezzo di
pane o almeno una briciola.
Ma non avendo nè campo, nè casa,
nè madia, nè pane, erano in verità assai tapini.
Ma non
tanto del pane lamentavano la mancanza, quanto della casa.
Del
pane ne avevano abbastanza per elemosina; e qualche volta avevano
anche un po' di companatico, e qualche
volta anche un sorso di
vino.
Ma i poveretti avrebbero preferito rimanere sempre
a digiuno, e possedere una casa dove accendere qualche
ramo secco e ragionar placidamente dinanzi alla brace.
Quel
che vi ha di meglio al mondo, in verità, a preferenza anche del
mangiare, è posseder quattro mura per ricoverarsi. Senza le sue
quattro mura, l'uomo è come una bestia errante.
E i due
poverelli si sentivano più miseri che mai, in una sera triste
della vigilia di Natale: triste soltanto per loro, poichè tutti
gli altri in quella sera hanno il fuoco nel camino e le scarpe quasi
affondate nella cenere.
Come si lamentavano e tremavano, su la
via maestra, nella notte buia, s'imbatterono in un gatto che
faceva un miagolìo roco e dolce.
Era, in verità, un gatto
misero assai, misero quanto loro, poichè non aveva che la pelle
sulle ossa e pochissimi peli sulla pelle.
S'egli avesse
avuto molti peli sulla pelle, certo la pelle sarebbe stata in
migliori condizioni.
Se la sua pelle fosse stata in condizioni
migliori, certo non avrebbe aderito così strettamente alle ossa.
E
s'egli non avesse avuto la pelle aderente alle ossa, certo
sarebbe stato forte abbastanza per pigliar topi e per non
rimanere così magro.
Ma, non avendo peli, ed avendo invece la
pelle sulle ossa, egli era in verità un gatto assai
meschinello.
I poverelli son buoni e s'aiutano fra loro.
I
due nostri dunque raccolsero il gatto, e neppur pensarono a
mangiarselo; chè anzi gli diedero un po' di lardo che avevano avuto
per elemosina.
Il gatto, com'ebbe mangiato, si mise a camminare
dinanzi a loro e li condusse a una vecchia capanna
abbandonata.
C'eran là due sgabelli e un focolare, che un
raggio di luna illuminò un istante, e poi sparve.
Ed anche
il gatto sparve col raggio di luna, cosicchè i due poverellì
si trovaron seduti nelle tenebre, innanzi al nero focolare, che
l'assenza del fuoco rendeva ancor più nero.
- Ah! -
dissero - se avessimo appena un tizzone!
Fa tanto freddo! E
sarebbe tanto dolce scaldarsi un poco e raccontare favole!
Ma,
ahimè l non c'era fuoco nel focolare, poichè essi erano
miseri; in verità, assai miseri.
D'un tratto due carboni si
accesero in fondo al camino: due carboni gialli come l'oro.
E il
vecchio si fregò le mani in segno di gioia, dicendo alla sua
donna:
- Senti che buon caldo?
- Sento, sento! - rispose la
vecchia.
E distese le palme aperte dinanzi al fuoco.
-
Soffia ci sopra, - ella soggiunse. - La brace farà la fiamma.
-
No, - disse l'uomo. - si consumerebbe troppo presto.
E si
misero a ragionare del tempo passato, senza tristezza, poichè si
sentiva n tutti ringagliarditi dalla vista dei due tizzoni lucenti.
I
poverelli si contentan di poco e son più felici. I nostri due si
rallegrarono, fin nell'intimo cuore, del bel dono di Gesù
Bambino, e resero fervide grazie al Bambino Gesù.
Tutta la
notte continuarono a favoleggiare scaldandosi, sicuri ormai d'esser
protetti dal Bambino Gesù, poichè i due carboni brillavan
sempre come due monete nuove, e non si consumavano mai.
E,
quando venne l'alba, i due poverelli che avevano avuto caldo e
agio tutta la notte, videro in fondo al camino il povero gatto che li
guardava con i suoi grandi occhi d'oro.
Ed essi non ad altro
fuoco s'erano scaldati, che al baglior di quegli occhi.
L’angelo messaggero
di Giovanna Giordani
L’angelo messaggero iniziò il suo viaggio intorno alla Terra per raccogliere notizie da riferire al suo amato Gesù che fra poco avrebbe compiuto ben 2019 anni. La festa in cielo per questo compleanno era magnifica: gli angeli cantavano canzoni dolcissime e le anime di coloro che nella vita avevano amato Gesù si univano ai cori gioiosamente. La splendida luce delle stelle illuminava ogni cosa.
L’angelo messaggero aprì dunque le sue grandi ali e iniziò a volare scrutando attentamente il mondo. Egli vide che in certe zone brillavano infinite luci artificiali sulle case e sui palazzi, ma soprattutto nei grandi magazzini. Ne fu quasi abbagliato. Continuando il suo volo notò che in altre zone, invece, brillavano delle piccole luci che però non erano artificiali bensì delle gioconde fiammelle.
Lo annotò sul suo “diario di bordo” e, finito il giro intorno al nostro pianeta, tornò dal suo Gesù.
Ho visto in certi luoghi miriadi di luci splendenti come fossero impazzite – riferì l’angelo - si vede che gli uomini ci tengono al tuo compleanno! Strade, negozi, bancarelle, era tutto un luccicare festoso e ne sono stato quasi abbagliato. In certe zone però non vedevo luci abbaglianti e ho dovuto abbassarmi per vedere meglio. Mano a mano che scendevo potevo notare delle piccole fiammelle che tremolavano nel buio. In quel luogo, notai inoltre, con mia grande gioia, che c’era un’atmosfera di pace e serenità. –
E poi cos’altro hai visto? – Chiese Gesù.
Non vorrei dirtelo - rispose l’angelo - ma dato che me lo chiedi devo confessarti che ho visto anche delle enormi chiazze di luce che uccidevano gli uomini. Laggiù le chiamano armi, o bombe, credo, e la loro vista mi ha procurato tanta tristezza .
Anche a me questa tua notizia procura immensa tristezza e dolore - rispose Gesù. – Ti dirò anche - proseguì – che le fiammelle di cui mi hai parlato sono quelle che brillano nei cuori che vorrebbero vivere in pace assieme a tutti i loro simili e sanno il vero significato della parola ‘Amore’ . Sono loro che un giorno saranno qui fra noi a festeggiare in letizia il mio compleanno –
Capisco – rispose l’angelo – spero proprio di vederne tante di quelle fiammelle nel mio prossimo viaggio! –
Poi si sedette accanto a Gesù e gli consegnò il suo “diario di bordo” mentre tutto intorno era un andirivieni di angeli e anime indaffarati per i preparativi della festa. L’angelo messaggero li osservava sorridendo, poi, rivolgendosi al suo grande amico e Signore gli disse: ti vogliamo bene, buon compleanno, Gesù! -
La bacchetta magica del Natale
di Danila Oppio
Fata Serenella era perplessa, non sapeva cosa regalare ai bambini del mondo per Natale.
Molti piccoli avevano di tutto, altri proprio nulla. Ma non sono i giochi quel che lei desiderava donare ai bambini, piuttosto cose o situazioni di cui avevano veramente bisogno.
Le guerre esplodevano quasi in ogni luogo, e a lei questa faccenda non piaceva per nulla.
In alcuni luoghi del mondo mancava l’acqua, i bimbi morivano di sete, e non solo loro.
In altre zone soffrivano la fame, o venivano colpiti da malattie piuttosto gravi.
Insomma, Serenella era molto preoccupata, allora chiese alla Regina delle Fate di darle una bacchetta magica che facesse meraviglie.
La Regina le disse che per poterla usare, doveva caricarla di tanto Amore, altrimenti non avrebbe funzionato a dovere.
Oh, di amore ne ho tanto nel cuore, ma quella bacchetta dovrebbe farlo nascere anche nel cuore degli umani, altrimenti quel che desidero donare ai bambini non sarebbe sufficiente.
Stai tranquilla, farò in modo che questa bacchetta trasformi i cuori degli uomini.
Grazie mia Regina!
Fata Serenella pensò che dovesse cominciare a volare sul mondo molto prima di Natale, per riempire i cuori di tanto Amore.
Volò sopra i Paesi dove infuriavano le guerre, e gettò la polverina magica che fuoriusciva della bacchetta.
Poi volò sopra quei Paesi dove non pioveva da tanto tempo e la siccità bruciava ogni cosa.
Fece piovere, di una pioggia leggera che non causasse alluvioni o allagamenti.
Inviò poi medicine per curare quelle malattie che facevano soffrire i bambini.
Quindi, sempre usando un particolare movimento della bacchetta, creò una carovana di camion pieni di cibarie, di ogni tipo e sapore, per nutrire i bambini e le loro famiglie, che da tempo non avevano nulla da mettere sotto i denti.
Sperava che per Natale tutti fossero felici, perché non sono le cose inutili a donare felicità, ma il necessario per vivere serenamente.
Il lavoro di Serenella non è cosa da poco, ma se gli esseri umani non si impegnano ad abbracciare la fratellanza, la generosità e tutti quei sentimenti che fanno parte della parola Amore, la sua sola bacchetta magica può fare ben poco.
Il Natale più bello è apprendere che le guerre sono scomparse dal mondo, che nessuno muore di fame o di sete, che tutti abbiano l’opportunità di curare la propria salute.
Cara Fata Serenella, tu fai quel che puoi, e noi ci impegneremo di affiancarti in questi bellissimi doni natalizi, perché l’Unione fa la Forza. Purtroppo, una sola bacchetta magica non serve, se tutta l’umanità non si impegna sul serio.
Noi abbiamo apprezzato le tue buone intenzioni, ma il cuore degli uomini non sempre accoglie il vero Amore. Che sia un Natale colmo di buone notizie!
Un regalo di Natale molto speciale
di Piera Maria Chessa
Era ormai tardi, bisognava andare a dormire, ma Ferruccio, quella sera, non aveva proprio voglia di riposare. Col papà Diego e la mamma Sandra aveva appena guardato alla televisione il telegiornale, dove in un servizio ricordavano ciò che era avvenuto esattamente un anno prima in Trentino, luogo in cui loro vivevano, quando la tempesta Vaia, con le sue terribili piogge, aveva procurato la caduta di un numero impressionante di alberi, raccontavano anche che cosa in quell'anno appena trascorso era stato fatto, e com'era ora la situazione, soprattutto nella foresta di Paneveggio, forse la zona più colpita dell'intera regione.
Ferruccio, che aveva solo nove anni ma una maturità straordinaria per la sua età, non aveva perso una virgola dell'intero servizio, e generoso com'era non si dava pace, nutrendo già per la natura un amore sconfinato. La mamma e il papà cercavano di rasserenarlo spiegandogli che ci sarebbe voluto ancora tanto tempo ma che non bisognava disperare, in qualche modo avrebbero trovato delle soluzioni.
Lui, che leggeva già tanto e di tutto, rivolgendosi ai genitori aveva detto:" Ma sapete quanto tempo occorre perché un albero abbattuto possa essere sostituito, non cresce mica in un giorno! Quanti anni passeranno? E ora ne è trascorso uno soltanto... Io, che sono un bambino, diventerò un ragazzo, e poi un uomo come te, papà, prima che tutti i nuovi alberi diventino grandi come quelli caduti. E' una cosa terribile!"
I suoi genitori non trovarono parole per replicare, e rimasero in silenzio, Ferruccio aveva ragione. Tutti e tre, dispiaciuti, andarono a dormire.
Si era a fine ottobre, il tempo passava veloce e dicembre non tardò ad arrivare, il Natale era ormai vicino. Ferruccio non vedeva l'ora, lo aspettava con impazienza, come tutti i bambini della sua età, ma la sua testolina sempre attiva non smetteva di lavorare. Soprattutto in quegli ultimi due mesi, quante volte aveva ripensato alla tempesta Vaia e ai danni che aveva procurato!
Era figlio unico, avrebbe desiderato tanto un fratello o una sorella, ma non erano mai arrivati, in compenso lui "era venuto su bene", come dicevano gli amici dei suoi genitori, che col tempo se n'erano fatti una ragione. Erano soddisfatti della loro vita e fieri di avere un figlio così. Ne capivano le necessità e lasciavano che si circondasse di amici; per questo motivo la loro casa e il loro giardino erano sempre molto "vissuti" e colmi di voci infantili che si rincorrevano.
Verso la metà di dicembre, come tutti gli anni, Ferruccio scrisse la sua lettera di Natale. In realtà, da qualche tempo, pur avendo solo nove anni, aveva smesso di credere alle belle favole e ai bei doni che sarebbero dovuti arrivare chissà da dove sulla slitta trainata dalle renne. Era stato purtroppo un suo compagno di scuola, un po' più smaliziato degli altri, a prendersi la briga di fugare ogni dubbio.
"Guardate che a me l'ha detto il mio papà, lui è grande e non dice bugie. E mi ha anche detto che non devo mai "farmi illusioni", proprio così ha detto!"
E fu così che Ferruccio e i suoi compagni quel giorno persero un pezzetto della loro infanzia e di colpo diventarono un pochino più vecchi.
Lui non perse tuttavia la bella abitudine di scrivere la sua lettera, e i nuovi destinatari diventarono i suoi genitori.
Lo faceva di nascosto, alla sera, quando si ritrovava da solo nella sua cameretta, e scriveva, scriveva... Raccontava di sè, dell'affetto che provava per loro, di quelli che erano i suoi desideri.
Ma quella sera non concluse la lettera, in fondo aveva ancora del tempo, voleva pensarci bene, magari nei giorni successivi gli sarebbe venuta qualche buona nuova idea sui regali da chiedere.
Andò a dormire sereno, soddisfatto di ciò che aveva già scritto. Il tepore della sua camera, e soprattutto del suo letto, gli conciliarono il sonno.
"Che freddo", disse Ferruccio, "perché sento tutto questo freddo? Mamma, ho la febbre!"
Aprì gli occhi spaventato, guardandosi intorno e cercando sua madre, ma intorno a sè vide soltanto buio. Che cosa stava succedendo?
"Ho paura, mamma, dove sei?", chiese sottovoce. Ma la mamma non c'era.
Per fortuna, lentamente, incominciava ad albeggiare. Sempre più preoccupato continuò a scrutare intorno. Si trovava in un bosco da solo, disteso vicino a dei grossi sassi, e percepiva sotto di sè il freddo della terra umida. Si mise seduto e guardò meglio. Vi era tanto verde, era l'erba cresciuta in quei giorni di pioggia. Guardò verso l'alto. Quanti alberi! Li riconobbe, erano i suoi amati abeti, e poi tanto muschio intorno che ricopriva i sassi. Si alzò per sgranchirsi le gambe, si sentiva indolenzito e sempre più infreddolito, meravigliato per quel che stava vivendo. A un certo punto sentì, sugli alberi che lo circondavano, il trillo di un uccello, subito dopo lo vide accanto a sè. Aveva il piumaggio rosso e verde, e lo osservava incuriosito emettendo un verso che a Ferruccio parve molto melodioso. Forse era il suo modo consueto di salutare, così pensò. Ma non fece in tempo ad abituarsi a quella singolare compagnia che d'improvviso avvertì uno strano brusio che, a mano a mano che si avvicinava, diventava più forte. La luce dell'alba, che ora filtrava tra i rami degli abeti, gli permise di vedere meglio.
Su un sentiero ricoperto d'erba avanzavano decine e decine di minuscoli ometti luminosi, così parvero a Ferruccio, poi, quando arrivarono ormai a pochi passi da lui, capì che si trattava del colore dei loro striminziti abitini gialli. Si posizionarono intorno formando un ampio cerchio, uno di loro si fermò nel mezzo. Sempre più sbalordito, Ferruccio sentì il suo cuore che batteva forte. L'omino al centro, forse il capo, o forse il più anziano del gruppo, prese solennemente la parola. La sua voce era quasi un bisbiglio, gentile ma ugualmente ferma.
"Ciao, ragazzo, ci presentiamo subito, siamo l'esercito degli Omini gialli e viviamo in questi boschi da tanto tempo, secoli o millenni, questo non te lo so dire, posso però dirti che non abbiamo età, non festeggiamo i compleanni, come fate invece voi umani, e rimaniamo sempre uguali a noi stessi. Vedi, siamo piccoli piccoli, ma non invecchiamo mai. Abbiamo un compito ben preciso, quello di difendere questi boschi straordinari, ci opponiamo alla natura, quando diventa matrigna, ma l'aiutiamo quando ha bisogno di noi. E soprattutto quando dobbiamo difenderla dagli uomini. Siamo molto piccoli, ma anche numerosi, e uniamo le nostre forze. Proprio come fanno le formiche, così capaci di trasportare persino grossi pesi. Quando ritornerai a casa, dovrai dire ai tuoi amici, ma soprattutto agli adulti, i più pericolosi, di non fare del male alla natura, perché non rispettandola fanno male innanzitutto a se stessi. Sono grandi e grossi, mica come noi, ma privi di cervello. Ora vai, e Buon Natale! Perdonaci se ti abbiamo spaventato.".
"Ferruccio, dormi ancora? Guarda che si fa tardi, oggi non è domenica, si va a scuola. Presto però potrai dormire a lungo, pochi giorni e sarà Natale!".
"Ma come? Dove sono? Quando sono tornato?" Ferruccio non si capacitava, dunque, aveva solo sognato? Guardò la mamma con uno sguardo perso, un po' il sogno, un po' la sorpresa lo avevano completamente disorientato. Lei aspettò con pazienza che si svegliasse per bene, doveva aver dormito profondamente quella notte. Ma Ferruccio si riprese in fretta e incominciò a raccontarle il suo strano sogno. Non lo avrebbe invece raccontato ai compagni, forse lo avrebbero deriso, ma soprattutto voleva tenerlo per sè, soltanto i suoi genitori avrebbero capito e non si sarebbero presi gioco di lui.
Ora avrebbe atteso il Natale con trepidazione, aveva ancora un impegno da assolvere: la sua lettera non era conclusa; quella sera stessa, prima di andare a dormire, avrebbe chiesto ai suoi genitori i due regali per lui più belli.
In fondo non abitavano poi così lontano dalla foresta di Paneveggio, desiderava tanto vederla, dopo ciò che era successo voleva accertarsi che, sia pure lentamente, le cose stessero migliorando. Alla televisione ne avevano parlato ancora, ricordava che qualcuno aveva fatto una proposta, quella di "adottare" un albero. Avevano usato proprio quel verbo, come si fa con i bambini, si disse, lui queste cose le sapeva, un suo compagno era stato adottato.
Avrebbe chiesto informazioni ai genitori, ecco, quello sarebbe stato un regalo di Natale davvero speciale per lui, che voleva sinceramente fare qualcosa per i suoi amati alberi.
Un’aquila a Natale
di Aurelio Caliri
C’era una volta un bambino che si chiamava Federico ed era un tipo molto dormiglione. Quella mattina, inspiegabilmente, si svegliò all’alba e mentre si vestiva si chiedeva il perché di tale levataccia. Era la vigilia di Natale e sentiva come un richiamo, come se qualcosa di misterioso lo spingesse a scuotersi, ad agire. Uscì sulla terrazzina della mansarda che dava sui tetti e rimase sorpreso dallo splendore strano del sole che s’affacciava all’orizzonte e irradiava con sfumature giallastre la sua luce sulle case. Ma c’era qualcos’altro di cui non si capacitava: non avvertiva il benché minimo senso di freddo, nonostante la stagione invernale ormai inoltrata; l’aria poi sembrava immobile, come incantata e, soprattutto, c’era un silenzio quasi allarmante: nessun rumore di macchine, di treni, di persone, di animali. La vita si era fermata.
Il bambino, pur affascinato dalla novità, fu pervaso da un senso di inquietudine, ma poi, al pensiero che il padre e la madre dormivano nella camera accanto, si sentì confortato e cercò subito di analizzare la situazione e capire. Ecco, era come se qualcosa d’ignoto incombesse sulla natura, come se un evento soprannaturale stesse per manifestarsi. Si guardò intorno per valutare meglio il fenomeno e, d’un tratto, giunse al suo orecchio un frullare distinto di ali che s’avvicinava, quindi il sole per un attimo fu oscurato da un uccello enorme che planò dinanzi a lui e tranquillamente si posò sul tetto, a un paio di metri di distanza.
Era un’aquila maestosa, le sue penne brillavano al sole e i suoi grandi occhi, che non avevano nulla della ferocia dei rapaci, guardavano fissi il bambino. Questi rimase immobile dalla meraviglia, come ipnotizzato, ma sulla paura istintiva ebbe la meglio la curiosità, il desiderio di conoscere quella nuova realtà. Lo sguardo dell’animale aveva un che di umano, sembrava volesse comunicare un messaggio,
volesse parlare, e infatti inaspettatamente l’aquila parlò. Disse:
“Vuoi venire con me? Vuoi trascorrere in un modo speciale questa vigilia? Vedrai, sarà bellissimo: sarà il mio regalo di Natale!”.
Il bambino deglutì, l’emozione gli impediva di articolare le parole, ma riuscì infine a dominarsi e rispose:
“Ma dove mi porti? Vengono con me anche i miei genitori?”.
“No, mi dispiace”, replicò l’aquila, “ma non ti preoccupare: vedrai che ti raggiungeranno nel posto in cui andiamo!”.
Il bambino era indeciso sul da farsi: l’uccello misterioso, l’avventura inaspettata esercitavano su di lui un’attrattiva fortissima e nello stesso tempo aveva timore di lasciare la sua casa. Chiese:
“Ma è sicuro che i miei genitori mi raggiungeranno? E poi, in che modo vengo con te?”.
L’animale si accostò zampettando sulle tegole fino al margine del muretto che delimitava il tetto e gli disse:
“ Sali e tieniti stretto. Per il resto ti assicuro che non avrai alcun problema”.
Il bambino accantonò ogni perplessità e, issatosi agilmente sul parapetto, con un balzo si mise a cavalcioni del pennuto e fece appena in tempo ad aggrapparsi al suo collo vigoroso perché subito si librò in volo distendendo le ali immense e muovendole ritmicamente.
Che spettacolo la terra vista dall’alto che scorreva a perdita d’occhio! Il bambino era stordito dall’aria e dalla luce che lo investivano con impeto, ma non provava alcuna apprensione, anzi si sentiva sicuro. L’aquila col suo sguardo dolce e quasi umano, con i suoi modi gentili, gli aveva comunicato quella sicurezza, insieme a un grande senso di libertà che lo colmava di gioia.
L’uccello atterrò dolcemente vicino a una casa che si trovava sul limitare di un bosco e parlò ancora:
“Scendi ed entra: ti stanno aspettando!”.
“Ma chi mi aspetta?”, chiese il bambino, “e tu, non vieni con me?”
“No, non posso, vado dai miei aquilotti su in montagna: anche per noi è Natale! Ma verrò dopo. Tu intanto vai …vedrai …”.
Dette queste parole si alzò in volo e in breve scomparve al di là degli immensi alberi secolari.
Il bambino s’avviò titubante verso l’ingresso socchiuso e saliti diversi scalini e attraversata una specie di anticamera si trovò in una vasta cucina fuligginosa e semibuia dove c’era un grande fermento. Il forno era stato appena acceso perché la fiamma era ancora alta e dei ramoscelli secchi scoppiettavano allegramente. Una signora sui quarant’anni vi accudiva con un rastrello di ferro e quando lui si avvicinò lei si voltò e lo salutò:
“Ciao! Ti stavamo aspettando. Tra poco ti farò una bella focaccia!”.
Aveva un sorriso tenero, struggente, ed era così affettuosa che si sentì riscaldare dentro. Intanto, guardandosi intorno, trasalì dalla sorpresa: in un angolo stavano seduti i suoi nonni, Turi e Nina, i genitori di Maria, sua madre, che lo guardavano sorridendo. Si avvicinò e li abbracciò. Chiese:
“Ma voi che fate qua?”
“Siamo venuti per vederti: è Natale, no?”.
Che strano! Erano tanti anni che non li incontrava e, mentre cercava di capire come mai si trovassero là, gli si avvicinò un bambino della sua età e al vederlo si sentì ancora pervadere dalla meraviglia. Gli somigliava moltissimo, era come avere davanti un altro se stesso: stessi lineamenti, stessi occhi, stessa statura. Era suo fratello? fratello gemello? Ma l’unico suo fratello, Mirko, era già grande, biondo, con gli occhi azzurri. Nemmeno allora ebbe il tempo di riflettere perché il bambino, dopo aver dato un bacio alla madre Bettina, che badava al forno, lo prese per un braccio e affettuosamente gli disse:
“Vieni, ti faccio vedere qualcosa!”.
Lo portò nella parte opposta della cucina e in una gabbia vide i propri scoiattolini che saltavano da una estremità all’altra senza un attimo di sosta, come impazziti dal piacere di rivederlo. Ma che succedeva? Come mai si trovavano in quella cucina? Come se non bastasse, vicino c’era un’altra gabbia più grande e dentro vide Ciccia, la sua coniglietta bianca, soffice, bellissima. Ebbe un tuffo al cuore. Aprì la gabbia, la prese, la baciò, se la strinse forte al petto. Ma cosa significava tutto ciò? Non vedeva Ciccia da molto tempo: che ci faceva in qual posto?
L’abbaiare di un cane lo distolse ancora una volta dalla sua riflessione.
“Viola, zitta!”, le intimò il bambino che sembrava suo fratello gemello.
Ma allora era Viola, la cagnetta di suo padre, quando questi era piccolo, che uscita da sotto il forno gli si era avvicinata e gli faceva festa abbaiando e scodinzolando. Come poteva essere possibile?
Non ci capiva più niente. Era un miracolo di Natale? Forse! Ma qualunque cosa fosse, non gli importava, sapeva solo che traboccava di felicità, come forse mai era successo. Un solo pensiero appannava quel momento: i suoi genitori quando sarebbero arrivati? e l’aquila? Sentiva la sua mancanza e avrebbe voluto rivederla.
Trascorse un tempo indefinito tra giochi e scherzi insieme all’altro bambino ed ecco che la signora dal sorriso tenero e struggente sfornò il pane e le focacce. C’era in quella cucina d’altri tempi un profumo invitante, inebriante, anch’esso d’altri tempi. Arrivarono intanto i fratelli e le sorelle del suo piccolo compagno, preceduti da strepiti e risate, ed entrò anche un uomo corpulento, affabile, Vito, che doveva essere il padrone di casa, il marito della Signora. In piedi, attorno a un grande tavolo
sgangherato, mangiarono con gusto, quindi, accostate le sedie, tutti insieme giocarono prima a carte, poi a tombola. Il bambino pensava che mai aveva trascorso momenti così appaganti, ma che tutto sarebbe stato perfetto se ci fossero stati anche i suoi genitori.
Improvvisamente, non sapeva come, si era fatta sera e suonarono le campane che annunciavano la messa di mezzanotte. Non si trovavano sul limitare di un bosco? Lo chiese al compagno, il quale, invece di rispondere, prendendolo per mano gli disse:
“Andiamo!”.
Uscirono. Il bosco era scomparso, c’era invece davanti alla casa un piazzetta e la chiesa antica che la sovrastava, la Matrice, che lui conosceva.
Entrarono. C’era molta gente. La messa era cominciata e tutti cantavano “Adeste fideles”. Che canto fantastico, sublime! Si sedettero su una panca e proprio in quel momento scoccò la mezzanotte e, caduto un drappo rosso sull’altare maggiore, apparve il Bambinello di cera, disteso su di un giaciglio di paglia, sorridente e benedicente, mentre l’organo intonava con forza “Tu scendi dalle stelle” e accompagnava il canto dei fedeli.
Si udì un frullare di ali. Era l’aquila? Avrebbe voluto ringraziarla. No, era una colomba che attraversava la navata centrale. Il bambino si girò verso il compagno come per partecipargli l’ennesima sorpresa, ma era scomparso. Al suo posto invece si era come materializzato suo padre che sedeva accanto a sua madre, ed entrambi
gli sorridevano, complici. Pensò: ma allora il compagno che gli somigliava tanto e suo padre, Aurelio, erano la stessa persona, in due momenti diversi della vita?. Mentre rifletteva su questo mistero ed era invaso dalla felicità per aver ritrovato i genitori, le campane cominciarono a suonare in segno di giubilo, a lungo, insistenti. Tanto insistenti che il bambino si svegliò.
Attraverso l’imposta socchiusa della finestra della sua cameretta su in mansarda la luce filtrava luminosa, mentre le campane della Cattedrale suonavano a distesa.
Che bello: era Natale!
In un periodo come il nostro, di estrema decadenza, leggere e gustare racconti come questi non può che farci bene. Grazie, Renzo.
RispondiEliminaE grazie sempre per quello che fai.
Piera