sabato 3 dicembre 2011

Come cominciare il nuovo Blog?

Come cominciare il nuovo Blog?
Bella domanda, che presuppone tante risposte, compreso quella di posticipare ad altra data la soluzione del quesito. Però, siamo in prossimità di una grande festività e devo dire che il Natale mi soccorre.
Ecco facciamo cosi:
un aggiormamento del blog con una serie di racconti di Natale e un’altra con poesie sullo stesso tema.
Che ne dite?
Come inizio non mi sembra malaccio.
Quindi, si inizino le danze con i racconti, magari ascoltando  anche questo celebre brano nella versione del grande Kitaro:






 Il Natale del 1929
di Renzo Montagnoli

Quando si avvicina il Natale si avverte nell’aria una sensazione di festa, nonostante il consumismo e la società attuale abbiamo relegato questi giorni a una fiera dell’apparenza, dove fra tante luci, cibarie e regali l’unica cosa che manca, ed è la più importante, è quello stato d’animo che apre il cuore a un sentimento di pace.  
E’ ormai tanto tempo che questa ricorrenza ha perso le sue caratteristiche religiose e spirituali che la rendono unica e così era già nel 1995. Ricordo giornate fredde, ma con il sole e una spruzzata di neve che imbiancava tutta la campagna. Non rammento se fosse la mattina della vigilia o il giorno prima quando andai a far visita al Guercio per porgergli gli auguri e donargli un piccolo presente, un panettone comprato al supermercato.
Tutto il resto invece è ben impresso nella mente, almeno nelle sue linee generali, una caratteristica tipica di uno che inizia ad avvertire i segni dell’età che avanza.

                                               ._._._

La porta di casa era accostata, così che, mentre bussavo, entrai e trovai il mio caro amico seduto in poltrona, intento a leggere il quotidiano locale. Ci fu uno scambio di convenevoli, compresi gli auguri, con il Guercio che si schermì per il piccolo omaggio e che mi fece sedere.
- Parliamo un po’, visto che  non ci si vede spesso.
- Fai pure, parliamo di quel che vuoi.
- Vedi, è proprio dei vecchi dimenticare i fatti del giorno prima e ricordare quelli accaduti tanto tempo fa. Come ti ho visto entrare, la memoria è tornata su un Natale del 1929. Pensa che allora avevo nove anni, ma è come se il fatto che ti racconterò fosse accaduto ieri.
Ripose il giornale e si fece assorto, come se la sua mente cominciasse a leggere quello che stava per dirmi. 
- Oggi questa festa ha perso tutto il suo sapore, è diventata ostentazione e nient’altro, ma ai miei tempi era completamente diverso e anche chi non era religioso viveva questi giorni in uno stato di emozione.
All’epoca poi c’era un motivo in più per attendere il Natale con trepidazione. Non è che in casa ci fosse molto da mangiare, ma in quel giorno si facevano miracoli per preparare un pranzo quasi da re.
Scusa se ti tedio, ma sono divagazioni che si sovrappongono al ricordo principale ed escono così senza che possa frenarle.
- Non preoccuparti, poi sono sempre osservazioni interessanti.
- Dici davvero?
- Certamente.
- Va bene, allora, posso cominciare, sperando che le mie divagazioni se ne stiano quiete dentro alla mia testa.
Era la vigilia, in un inverno freddo e con tanta, ma tanta neve. In strada, benché spalata, ce n’era ancora, perché la vedevo mentre scendeva, in un turbinio di vento. Erano fiocchi piccoli, ma tenaci e che giunti a terra si attaccavano l’uno all’altro, così che la coltre cresceva ed era inutile pensare di toglierla fino a quando non si era fermata, perché sarebbe stata una fatica inutile.
Me ne stavo a guardarla dietro la finestra, per fortuna al caldo, perché nella stufa ardevano dei bei pezzi di legno stagionato, che bruciava sfrigolando e ogni tanto anche con degli scoppiettii, come volesse ricordare a me che lui stava facendo il suo dovere.
Ecco, vedi che sto divagando nuovamente.
- Non preoccuparti, continua.
- Già immaginavo i regali che avrei trovato la mattina, poche cose e di poco conto in verità, ma era un pensiero solo per me. Però quel Natale io aspettavo molto di più. Ci avevo pensato fin da novembre e da allora era sempre stato nelle mie preghiere, tanto che a scuola, dove ci avevano fatto scrivere la letterina a Gesù bambino, l’avevo messo nero su bianco.
Non rammento esattamente le parole, però il senso era questo: oltre a chiedere di mantenere in buona salute la mamma, lo pregavo di farmi trovare quel papà che non avevo mai avuto.
Tutti gli altri avevano il papà, meno io, e mi sembrava di essere un mostro, un paria, un essere inferiore. A volte vedevo i miei compagni che all’uscita da scuola avevano degli uomini che li attendevano, mentre io al massimo avevo la mamma.
Mi sentivo diverso, come incompleto, e arrivavo perfino a desiderare gli scapaccioni di un padre di cui ogni tanto i miei amichetti si lamentavano.
Come sarebbe stato bello prendere uno schiaffo dal babbo, come sarebbe stato bello trovare in famiglia una voce maschile che mi riprendeva, ma che sapeva anche rassicurarmi!
E invece no, io il papà non l’avevo, e quindi potevo solo immaginare, perfino invidiare.
Se Gesù bambino c’era, perché non avrebbe dovuto farmi una grazia del genere? Non chiedevo di avere più degli altri, ma mi bastava come gli altri.
Ero tuttavia già abbastanza sveglio da capire che Gesù ci può donare il suo amore, che è immenso, ma non qualche cosa di materiale, perché quello è proprio degli uomini, e non di un Dio.
Però, ci speravo, mi illudevo, o forse solo lo sognavo.
- E allora?
- Non avere fretta, perché mentre racconto mi sembra di rivivere quel giorno, e poi sono vecchio e devo fare tutto con calma.
- Va bene, non t’interromperò più.
- La giornata trascorse quieta, io al massimo ero indaffarato a preparare il presepio, perché allora si usava così e l’albero con le palline colorate nemmeno potevamo immaginarlo.
Avevo un po’ di febbre, un malanno di stagione, e perciò rimasi sempre in casa, tanto che non sarei andato nemmeno alla più bella delle messe, quella di mezzanotte.
Arrivò la sera, io e la mamma consumammo una cena frugale, di magro, perché tanto l’indomani ci saremmo rifatti abbondantemente, e poi la trepidazione e forse anche la febbre non erano compatibili con l’avere fame.
Andai così a letto presto, senza riuscire a prendere subito sonno.
Ricordo che guardavo il buio, lo fissavo e vedevo; in genere quando è buio non si vede niente, ma io riuscivo a scorgere quello che c’era nel buio.
Apparivano e sparivano di colpo le immagini dei miei compagni insieme al loro papà, sembrava quasi una parata, interrotta ogni tanto dalla figura di mia madre, che non so dire se era una mia fantasia o se era veramente lei che veniva a vedere come stavo.
Alla fine mi addormentai, credo, dico credo perché quello che avvenne dopo non può essere spiegato razionalmente se non come un sogno.
Una voce, maschile, prese a chiamarmi. Mi diceva: Annibale, domani sarò lì con te. E io gli rispondevo:-  Ma chi sei? E quello: - Non mi riconosci? Sono il tuo papà.
E c’era un’immagine confusa di un uomo alto, dalle spalle larghe, ma non vedevo altro che dei contorni.
- Il giorno di Natale sarò con te. Sei contento?
- Sì, ma perché non sei venuto prima e non stai con noi per sempre?
- Perché io esisto solo così.
E’ tutto quello che rammento, così come ricordo la mamma che interruppe il mio sonno e mi invitò a scendere, perché era Natale e giù c’era una grande sorpresa per me.
Ancora addormentato, imboccai le scale, rischiando di ruzzolare giù, ma mi aveva preso una frenesia, forse per effetto del sogno, e io dovevo andare a vedere subito.
In cucina trovai Don Zeffirino e un pacchetto sul tavolo, e accanto al regalo una lettera.
“Buon Natale, Annibale.”
“Buon Natale, Don Zeffirino.”
“Gesù bambino ha letto la tua lettera e l’ha fatta avere al tuo papà. Ma dov’è lui non può venire e allora ha risposto con uno scritto.”
Presi tremando la busta, l’aprii e dentro c’era un foglio con poche righe e anche per questo le ricordo.
Caro Annibale, mio adorato bambino.
Tu non mi puoi vedere, ma io da qui ti guardo.
Il tuo papà è sempre con te, in ogni momento, e anche se non ti stringe la mano, perché non può, sappi che ti vuole tanto bene.
Buon Natale, piccolo mio.
Il tuo papà.
Sinceramente, la ragione mi diceva di non credere, ma la passione, il sentimento prevalsero e così presi la lettera e la strinsi forte sul mio cuore.
- E dopo, passato quel giorno?
- Mi convinsi che non era vero, che la maestra aveva consegnato la mia letterina alla mamma e che lei ne aveva parlato con Don Zeffirino. Quel povero prete di campagna allora si era improvvisato papà, a fin di bene ovviamente, per regalarmi un Natale diverso dagli altri.
- Poi hai scoperto chi era veramente tuo padre e te ne sei anche vergognato.
- Sì, è vero ed è per questo che io ancor oggi penso a quella lettera, scritta da un vero papà. Adesso forse capisci anche perché, nonostante le incomprensioni di carattere politico, io sono sempre stato affezionato a Don Zeffirino, che mi ha sempre dimostrato, quando le circostanze lo richiedevano, di volermi bene come un padre.
- Per te, comunque, la mancanza  di un padre è stata una privazione?
- Nella vita puoi rinunciare a tutto, alla carriera, al lavoro, ma ai sentimenti no, perché sono quelli le uniche cose che contano.
Io avuto tanto, ma mi mancherà sempre la stretta di mano di un papà. 
- Però, hai avuto l’affetto di tua mamma, dei tuoi figli, di tua moglie.
- Sì, sono stato ampiamente ripagato di quanto non ho avuto, ma, se devo essere sincero, tutti i giorni, ma soprattutto in una ricorrenza come questa mi manca tanto la Tilde.
- Purtroppo la vita è così:  quello di cui abbiamo gioito in passato poi sarà un inevitabile motivo di dolore.
- Hai ragione, Renzo. Vedi, noi siamo come ombre nella nebbia e talora capita che un raggio di luce ci illumini. Quando questo viene meno, ritorniamo l’ombra che eravamo e non c’è ricordo che tenga che possa rischiarare la nostra vita.
Mi prese una mano, me la strinse con calore e guardandomi negli occhi mi disse solo: -Tanti auguri, amico mio.
Lo lasciai che celava il volto dietro il quotidiano per non mostrare le lacrime.
Fuori l’aria sembrava meno fredda; guardai il cielo che si era ingrigito. Non feci in tempo a pensare che era un tempo da neve che cominciarono a cadere i primi fiocchi.  Larghi, candidi volteggiavano lentamente fino a posarsi a terra quasi con delicatezza. In fondo alla strada due zampognari iniziarono a suonare. Mi volsi e scorsi il Guercio che mi guardava attraverso i vetri della finestra; se ne accorse e alzò una mano per salutarmi, ma tornò subito a osservare la neve che scendeva sempre più copiosa, proprio come in occasione del Natale del 1929.  

 (Da Storie di paese – seconda serie)

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Regalo di Natale
di Enzo Maria Lombardo
  
Un uomo e una donna, entrambi giovani, forse marito e moglie, seduti uno di fronte all’altro vicino al finestrino dello scompartimento di un treno regionale, guardano scorrere i campi innevati, interrotti da cascine, fabbriche e parcheggi, in parte assorbiti da un cielo di latte.
La donna tiene in grembo un libro aperto ma non legge: assorta, sembra inseguire qualcosa che è dentro di lei.
L’uomo scorre un giornale, guarda spesso l’orologio.
- Il treno è in ritardo – dice – Almeno di un quarto d’ora.
- Forse recupera, Matteo, non preoccuparti.
Il treno rallenta: ora i tralicci passano meno veloci interrompendo a tratti il bianco. Quando il treno si ferma a una stazione, dal tetto gocciolante della pensilina si sollevano tre o quattro grossi uccelli. La donna segue il loro volo per un lungo tratto, poi gli uccelli scompaiono nella nebbia leggera.
- Si ferma di nuovo? – fa l’uomo – Questo treno è proprio una lumaca.
- E’ un regionale, Matteo, le fa tutte. Ma che fretta c’è? – dice la donna - Non essere ansioso.
- Non sono ansioso: odio marcire nei treni.
Passi cadenzati risuonano nel corridoio mentre il treno è ancora fermo. Un vecchio apre la porta dello scompartimento e prende posto nel sedile vicino al corridoio. Quel vecchio ha un cane, un piccolo bastardino marrone dall’aria intelligente e con una macchia bianca sul muso. Lo lascia fuori dallo scompartimento, tenendo in mano l’estremità di un guinzaglio rosso che passa attraverso la porta socchiusa.
- Simpatico il suo cane – dice la donna – Veramente simpatico con quella macchia bianca.
- E non disturba, sa? – dice il vecchio sorridendo compiaciuto – E’ abituato ai treni.
- Oh, no, non disturba. Si vede che è bravo... Guarda, Matteo, guarda come sta buono...
- Lo vedo, lo vedo... – fa l’uomo, distratto – Ma questo treno non parte? E’ già in ritardo. Almeno di un quarto d’ora, forse anche di più, magari aspetta qualche coincidenza... – Poi, rivolto al vecchio:
- Lei sa se il nostro treno aspetta una coincidenza?
Il vecchio alza le spalle, scuote il capo, dice:
- Non credo. Forse un cambio del personale. Succede.
- Succede! Succede sempre qualcosa... E intanto restiamo qui a marcire davanti a una stazioncina!
La donna abbassa gli occhi, sussurra: - Matteo, Matteo... - poi attraverso lo spiraglio della porta guarda il cane che si è accucciato poggiando la testa sulle zampe, il muso insinuato nello scompartimento. Lo osserva con insistenza, gli indirizza piccoli richiami. Il cane, incuriosito, solleva la testa e scodinzola spazzando il corridoio.
- Vedo che le piacciono i cani, signora – fa il vecchio. Anche lei gli è simpatica: vede?, a suo modo le ricambia i saluti.
La donna fa cenno di sì, poi guarda il marito e dice:
- Ecco, Matteo, un cane così mi piacerebbe davvero. Piccolo, ma non troppo. Un cane buono da portare dappertutto, ma anche da tenere in braccio, proprio come un bambino piccolo... Mica di razza, Matteo, no, no, anche da canile, non costa quasi niente e facciamo un’opera buona. Sarebbe il più bel regalo di Natale.
- Che treno! - fa l’uomo - Era meglio se prendevamo l’intercity, se ferma tanto in ogni stazione supererà la mezz’ora di ritardo. E’ una vergogna!
- Matteo, mi hai sentito? Ti stavo dicendo... un cane, piuttosto piccolo, un cagnolino come questo, da tenere in braccio... una cosina morbida, calda... ma che sia un cucciolo, un piccolo cucciolo tenero da coccolare... Prima mi avevi chiesto cosa volevo quest’anno come regalo di Natale. Beh, ora lo sai.
L’uomo sospira, abbassa la voce, si china verso la donna, sussurra:
- Elisa, ne abbiamo già parlato. Non abbiamo un giardino, uno spazio dove tenerlo, non si può in un appartamento piccolo. Se eravamo in campagna, qui ad esempio, c’è tanto spazio, campi… beh, così è diverso... Ne abbiamo parlato, Elisa, non ricominciamo...
- Sì, lo so. Ne abbiamo parlato. Ma un cane piccolo...
- E poi, non è igienico tenerlo in casa, anche questo l’abbiamo detto e ripetuto tante volte. E anche tu eri d’accordo...
- L’avevamo detto, è vero! Ero d’accordo, è vero! – la sua voce, prima morbida, ora diviene tagliente, sale di parecchi toni, le parole sembrano spezzarsi in mille cristalli di ghiaccio – Sì è vero, è vero tutto! Ma questo prima... prima che succedesse... Adesso tutto è cambiato! Che vuoi che m’importi, adesso, della tua santissima igiene... Che vuoi che m’importi di tutto, ormai! Ora ho solo le braccia vuote... le vedi? Le mie braccia sono vuote... vuote...
L’uomo abbassa il capo, appare confuso, riguarda l’orologio, ma lo sguardo è assente.

*  *  *

Il vecchio aveva evitato di guardare entrambi mentre parlavano. Ora, in silenzio, si curva e attraverso la porta dà una piccola spinta al cane che insinua sempre più il muso nello scompartimento, tentando di entrare. 
- No - fa il vecchio – non puoi. Cuccia.
- Perché? – fa la donna - E’ un cane buono. Non dà fastidio, lo ha detto anche lei che non disturba, che è abituato. Lo faccia entrare. Forse anch’io ne avrò uno così... se riesco a convincere Babbo Natale!
Di nuovo qualcosa si incrina nella sua voce, che diviene più acuta, quasi isterica, quando, pur parlando al vecchio ma guardando intenzionalmente il marito, dice, calcando ogni parola:
- E se è per l’igiene non si preoccupi. Non è il caso. Qui, adesso, ringraziando tutti i diavoli dell’Inferno, non ci sono neonati o bambini piccoli!
Il vecchio volge verso l’uomo uno sguardo interrogativo ma quello ha ripreso il giornale, sembra immerso nella lettura, finge di non avere udito. Poi il vecchio si rivolge alla donna:
- La ringrazio, signora. Veramente. Ma il cane sta bene dov’è: lui viaggia sempre così.

Nello scompartimento cade un silenzio opprimente mentre il treno riparte e il fabbricato gocciolante della stazione abbandona pian piano il finestrino. Il treno acquista velocità, ruotano in prospettiva le geometrie dei campi innevati. Spesso il bianco è spezzato da alberi spogli in cui si intravedono, tra i rami più alti, grossi nidi abbandonati.
Il tetto di qualche cascina manda sbuffi sottili di fumo a perdersi nella nebbia.

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 Il viandante
di  Milvia Comastri

Dopo le ultime case del paese e prima che inizi la monotona sequenza dei campi incolti, c’è una chiesetta.  Il transito continuo di automobili e tir sulla Provinciale ne ha deturpato la facciata, un tempo bianca, con una patina opaca di indefinibile colore. Da anni, al suo interno, non si celebrano più messe. Solamente nel mese di maggio qualche vecchia del paese arriva fino a lì, per biascicare il Rosario e tirare fuori dai polverosi cassetti della memoria qualche ricordo di gioventù. Abitudine destinata a scomparire, a mano a mano che scompariranno le vecchie, o che scomparirà la loro memoria. Abbandonata, come un giocattolo dimenticato da un bambino capriccioso, la chiesetta sembra solo aspettare di scomparire, anche lei, come quelle vecchie donne, fra il fragore di una ruspa e un turbine di polvere.

Ulisse appoggiò la mano sul legno ruvido della porta e spinse. Un cigolio prolungato infranse il silenzio della notte. L’uomo  si fermò sulla soglia un attimo, indeciso se entrare o proseguire il cammino.  Poi si disse che faceva troppo freddo, lì fuori. Che il suo rifugio fosse, per il momento,  una chiesa, o una stalla, o un garage, non aveva molta importanza. Quattro pareti intorno e un tetto sulla testa, era questo che cercava.
La notte prima aveva dormito in uno scantinato di una casa in costruzione e il freddo gli aveva fatto lacrimare gli occhi per tutto il tempo.
Lo avvolse un buio denso e un odore di polvere e muffa. Per un attimo si sentì proiettato indietro di decenni, nella soffitta della casa della sua infanzia, per un attimo riprovò quella miscela di eccitazione e paura che, bambino, lo prendeva ogni volta che saliva in soffitta. Ma a Ulisse non piaceva ripensare al passato, e si affrettò a posare lo zaino e a tirare fuori la torcia. Diresse la luce tutt’intorno: un altare sguarnito, un grande crocifisso storto, una decina di banchi ricoperti di polvere.
“Benvenuto al grand’hotel di Dio!”  esclamò a mezza voce. Appoggiò lo zaino sulla panca più vicina all’altare e cominciò a prepararsi per la notte; sacco a pelo, due coperte, una bottiglietta piena a metà di acqua e la cosa più preziosa: un libretto tutto sgualcito, usurato dagli anni e dalle letture. Erano tre anni che si addormentava con le poesie di Rilke fra le mani. Da tre anni, erano le poesie del grande poeta praghese che gli davano la buona notte. Stese una coperta sul pavimento ai piedi dell’altare, srotolò il sacco a pelo, ci si infilò dentro e cercò di avvolgersi alla bene meglio con la seconda coperta. La torcia l’appoggiò sul petto, con la luce diretta sulle pagine del libro.
In grembo alla notte nevosa, d'argento,
immensa si stende dormendo, ogni cosa.
Pensò che era una notte nevosa, anche quella che aveva lasciato fuori dalla ruvida porta della chiesetta. E gli venne in mente, all’improvviso, che era la notte della Vigilia.
Una vita che cambia, che cambia drasticamente, come era accaduto alla sua, conserva ugualmente radici che il tempo e i mutamenti avvenuti non riescono a estirpare. Per la seconda volta, in quella sera, si ritrovò a vivere in quel tempo passato che inutilmente cercava ogni giorno di cancellare.
Le vigilie di Natale con i genitori. I pomeriggi della vigilia in ufficio, con i colleghi, gli scambi di auguri e di battute sciocche. 
E poi le vigilie di Natale con Mara. Le candele i regali il vino il profumo del cibo la tavola apparecchiata i cristalli l’albero le luci jingle bells jingle bells Jingle all the way.
Mara.
I capelli le labbra la lingua il seno le mani il ventre il pube dorato le gambe. L’odore della pelle. L’odore di Mara. Un profumo, il suo, che ancora non lo abbandonava, non cancellato, quell’odore, dall’aroma dei boschi attraversati per  riuscire a sfuggirgli, dagli effluvi dei gas di scarico delle automobili, dal nauseante  tanfo delle cucine dei ristoranti cinesi in cui si concedeva a volte qualche pasto.  Non cancellato da tutti gli odori delle centinaia di chilometri percorsi a piedi, dal mutare dei paesaggi, dallo scorrere delle stagioni.
Le vigilie di Natale con Mara. Fino all’ultima, tre anni prima, quando erano state dette parole che dovevano essere taciute, quando erano esplosi, fra l’anatra all’arancia e il soufflè di castagne, confessioni che avrebbero dovuto rimanere rinchiuse.  L’aborto fatto di nascosto, il suo bambino buttato via, come uno straccio. Che forse non era neppure il suo bambino, lei aveva detto.
E tutto era precipitato. Lasciato il lavoro, la casa, la città, tutto.
Da quella sera, da quella vigilia di Natale, Ulisse era diventato il viandante, un Ulisse che, invece di ritornare in patria, dalla patria voleva solo fuggire. Era impazzito, forse, o forse
no: forse voleva solo diventare un automa, caricato a molla, e andare avanti, avanti, avanti  senza raggiungere nulla.
Viveva di espedienti, piccoli lavori saltuari, che divideva con il popolo di emigranti che batteva le sue stesse strade. Giusto per sopravvivere.
Richiuse il libro, spense la torcia e sperò nell’arrivo del sonno, per sfumare i ricordi.
Lo risvegliò il cigolio della porta e una ventata gelida che gli attanagliò il viso.  Stette immobile, in attesa. La porta si rinchiuse, ripetendo il suo cigolio. Qualcuno si muoveva incerto, nel buio, con passo leggero. Ulisse accese la torcia e la diresse verso lo sconosciuto.
Era una ragazza. Si era bloccata, una gamba avanti all’altra, come in quel gioco delle statuine che si faceva da bambini. Lo guardava, la bocca spalancata da cui non usciva suono, gli occhi con la pupilla dilatata dalla paura.
Teneva le braccia incrociate sul petto, forse, lui pensò, per proteggersi dal freddo.
La ragazza cominciò a indietreggiare, senza distogliere lo sguardo. Poi:
“Chi sei?” chiesero insieme.
Ulisse, avviluppato com’era, si tirò faticosamente a sedere.
“Non aver paura”, le disse. “Non sono nessuno. Solo uno che va, un viandante, niente altro.

La ragazza inclinò il collo verso la spalla.
“Via-ndante?” ripetè incerta.
Una straniera, ecco cos’era quella ragazza. Una migrante.
“Io romena, mio nome è Herta.”  “Come poeta”, aggiunse,  con un tono più sicuro, con una sorta di orgoglio.
“Io mi chiamo Ulisse. Come… come Ulisse, sai, quell’Ulisse…”
“Ulisse, capito. Ulisse io bisogno posto di dormire. Io freddo, e anche mio bambino freddo. Mio bambino, nato oggi.”
Ecco il perché delle braccia strette al petto. Non era per il freddo. Fra le braccia teneva un bambino. Stringeva suo figlio, pensò lui, esterrefatto.
Vieni, avvicinati. Ho coperte, aspetta, ora mi tolgo da questo sacco a pelo, vieni, vieni a scaldarti.” ,disse  sollecito.
Quando fu in piedi, si avvicinò alla ragazza. Vide quanto era giovane, e come fosse pallido il suo viso. Le mise un braccio sulle spalle e la condusse verso il sacco a pelo. Posò a terra la torcia.
“Ecco, sistèmati, a me basta la coperta”
Lei allungò le braccia.
“Tieni”, disse “tieni un pochino, che io mi metto dentro. Poi dammi bambino. Io molto stanca.”
Ulisse si trovò fra le braccia un fagottino tiepido, ne avvertì il respiro e un odore mai sentito, che gli ricordò il fieno tagliato di fresco, ma che aveva qualcosa di diverso, di primordiale, gli venne da pensare.  Era un odore commovente, pensò, l’odore di una vita nuova. Inaspettatamente gli si riempirono gli occhi di lacrime. 
La ragazza, intanto, si era infilata dentro il sacco a pelo e gli stava tendendo le braccia.
“Mio bambino.” disse con tono imperioso. “Dammi.”
Ulisse si accovacciò accanto a lei e gentilmente le posò il bimbo fra le braccia. Il faccino del neonato era rosso, rugoso come quello di un vecchietto. Lui allungò un dito e gli fece una carezza lievissima sulla peluria soffice del capo.
“Ecco, ora riposati, Herta. Io mi metto qui vicino a voi. Così ci scaldiamo a vicenda. Buona notte.” ,sussurrò.
Poi spense la torcia, ma sapeva che il sonno avrebbe tardato ad arrivare. Avrebbe voluto chiedere tante cose, alla ragazza.  Era così assurda, quella situazione, che per un attimo pensò di avere sognato. Ma sentiva ancora quell’odore, l’odore commovente del bambino. E nel buio percepiva il respiro della madre.
Poi sentì la mano di Herta  sul suo viso:
“ Tu dormi? Mio bambino ancora senza nome. Io posso chiamare lui Ulisse?”
Ulisse sentì un groppo in gola che per un attimo gli impedì di parlare. 
“Sì” , disse poi. “ Ulisse. Ulisse va bene.”
Si girò su un fianco e strinse fra le braccia la madre e il figlio.
Era stanco, di una stanchezza buona.
Per le domande c’era tempo. E poi forse non erano importanti, le risposte. Importante era il tempo. E loro tre di tempo, per conoscersi, ne avevano tanto, davanti.
“Buon Natale, Herta, Buon Natale Ulisse”, mormorò, con la voce già si spegneva nel sonno.
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Racconto di Natale
di Renzo Montagnoli


Stava appollaiato sulla vecchia sedia di paglia, con lo schienale appoggiato allo stipite della porta, fuori di casa, al freddo che di ora in ora si faceva più pungente. Ogni tanto lo scuoteva un brivido, nonostante gli abiti pesanti, i pantaloni di spesso fustagno, il maglione di lana grezza, il giaccone di montone che lui stesso si era confezionato. Sembrava che il gelo gli salisse dai piedi, nonostante la paglia che aveva pressato negli stivali. Sì, indubbiamente la giornata era fredda, ma non voleva rientrare, lui, che per q        uasi tutta la vita, era stato all’aperto, estate e inverno, sole e pioggia, perfino neve, ad accompagnare le greggi, per monti e per valli. Vita dura, indubbiamente, ma quella del pastore era un’esistenza libera, un lungo pellegrinaggio da un campo all’altro, un itinerario che lo riconduceva, a volte dopo anche una decina di giorni, alla casa, a queste quattro mura ora silenziose, prive dei belati degli armenti. Giacobbe era vecchio, di quell’età in cui non si avverte più il tempo che trascorre, ma ci si accorge solo di quello passato, e non faceva più il pastore, così che lui e la sua vecchia ora riposavano con quel poco che avevano messo da parte nei lunghi anni del lavoro.
- Vieni dentro, fa freddo, e tu hai dolori.
- Non è caldo, ma nemmeno freddo, e poi oggi sto bene.
Sistemata in questo modo l’apprensione della moglie, Giacobbe ritornò al suo unico passatempo, a quel guardare verso l’orizzonte per veder scorrere dinanzi agli occhi, in quell’immensità senza fine, le immagini dei grandi spazi della sua vita.
Di quegli itinerari percorsi con le greggi serbava una quasi incredibile memoria, di passi lenti lungo mulattiere con la bisaccia a tracolla, di quelle frequenti soste in cui riposava le membra e guardando intorno scorgeva sempre cose nuove.
Gli mancava il risveglio sotto la rugiada dell’alba, i profumi dell’erba erano pure immagini, come se l’olfatto non potesse che essere fermato con una fotografia. Rivedeva le pecore raggruppate e pronte a sciogliersi per riprendere il cammino  e un uomo che si stirava le membra, fra uno sbadiglio e l’altro. Poi si partiva e sfiorando muriccioli di sassi si seguiva il sentiero, il gregge una lunga fila serpeggiante fino ad arrivare al nuovo prato, dove si procedeva in ordine sparso.
C’erano albe livide di pioggia, ma altre che accendevano il cielo e con esse il canto degli uccelli salutava il nuovo giorno, accompagnato dal placido belato delle pecorelle.
L’uomo si sedeva su un masso e osservava il miracolo del sorgere del sole, con il buio ormai quasi vinto che batteva in ritirata, mentre lontano il crinale dei monti disegnava una linea spezzata, quasi confusa con il cielo.
Era un’ora stupenda, ma tutte le ore del giorno lo erano, e mai che una volta capitasse di pensare alla monotonia. No, l’uomo sapeva guardare e ogni volta lo stesso paesaggio cambiava, per il colore dell’erba, più verde in primavera, più secca nell’estate, per il canto degli uccelli, per tutti quei rumori della natura mai sgraziati, mai in contrasto, in un concerto  ogni volta irripetibile.
L’uomo ora gli voltava le spalle e a Giacobbe venne naturale chiamarlo, un ehi appena pronunciato, talmente basso da sembrare più un’idea che un suono. Ma lui lo sentì e si voltò; il sole gli illuminava il volto, lo incorniciava, un’immagine netta, distinta, il Giacobbe di tanti anni fa.
Sorrideva e sembrava felice, sì perché quell’essere parte del mondo, quel divenire ogni giorno viaggiatore della vita dava un senso di infinita serenità.
A Giacobbe si inumidirono gli occhi, perché ogni volta che si rivedeva il ricordo diventava evanescente e tutto sfumava nella nebbia del tempo.
Si era fatto buio e la moglie lo invitò nuovamente a rientrare; si alzò con fatica dalla vecchia sedia e si rinchiuse in quelle quattro mura.
- Cena speciale, è la vigilia di Natale.
- Lo so.
- Insomma, non proprio una roba da ricchi, ma un po’ di più di quel poco che è il solito.
Cenarono, al caldo del focolare, che rischiarava la stanza insieme alla luce tenue del lume a petrolio.
Poi, mentre lei sparecchiava, lui volle uscire di nuovo.
- C’è freddo, non andare, e poi che vai a fare?
Giacobbe non rispose e uscì.
Si rimise sulla vecchia sedia e osservò il cielo stellato.
Quante volte l’aveva visto, quando se ne stava nello stazzo con il gregge, avvolto in una coperta a cercare il sonno.
E magari il chiarore della luna lo teneva sveglio, a fantasticare su quel mondo così vicino che pareva di poter toccare con una mano. La notte, silenziosa, sembrava salire dalla terra, avvolgendo tutto, sempre più in su, finchè trovava l’invalicabile barriera di quel lume, che la fermava, svelandone i contorni, dai grigi più tenui a quelli più marcati.
Allora, a quei tempi, prima di chiudere gli occhi correva il pensiero alla casa, alla moglie, e mentre le palpebre si abbassavano immaginava che fossero le sue mani dalle dita affusolate che scivolavano lungo la fronte, indugiando sui sopracigli, per poi lievemente serrargli gli occhi.
Fu con una certa sorpresa, quindi, che avvertì chiaramente sulla sua fronte le mani calde della consorte.
- Che guardi, Giacobbe, a cosa pensi tutto il giorno?
- Guardo il cielo e mi viene memoria del mio passato.
- Abbiamo fatto una vita spesso lontani; ti sarai chiesto cosa facessi io quando non c’eri, come io mi chiedevo di te.
- Stavi al telaio, tessevi come Penelope nell’attesa del mio ritorno.
- Tu camminavi con le greggi, da un posto all’altro; io sempre ferma e tu sempre in moto.
- Vero.
- Perché non guardiamo insieme il cielo?
- Prendi una sedia, accostati e guardiamo.
Le stelle s’erano accese, tutte, anche la più piccina, e insieme iniziarono a osservarle.
- Che strano - disse Giacobbe - guardo quella là, sulla sinistra, quella che pare che s’accenda e si spenga e vedo una donna china sul telaio, che ogni tanto butta un occhio alla finestra, sperando che il marito sia di ritorno.
- Giacobbe, è incredibile, ma se mi sposto di poco in basso, c’è quella piccolina che si apre in un prato verde, dove, circondato dalle sue pecore, un uomo, con un filo d’erba in bocca, ammira la processione di una colonia di formiche che si snoda dal nido al torsolo di mela che lui ha appena gettato.
- In quella accanto, a destra, c’è una donna che si corica sola nel letto, che allunga una mano a sentire il freddo del lenzuolo libero al suo fianco.
- Un po’ più giù, quella più grossa, il risveglio di un uomo in uno stazzo, gli sbadigli, gli occhi ammirati per un’alba radiosa.
- Se mi sposto ancora a destra, in quella piccina piccina vedo una donna che si alza, che guarda il letto vuoto accanto a lei e che sospira.
- Senti, Giacobbe, proviamo a guardare entrambi la stessa stella, magari quella là, quella più luminosa.
- Sì, va bene.
- Io vedo…un abito bianco.
- Anch’io.
- Una chiesa in un giorno di festa, un matrimonio.
- Gente che ride, che balla.
- Poi, l’uomo e la donna che prima abbiamo visto nelle altre stelle si coricano assieme.
- E’ vero, ma sarà una prima notte di nozze quasi in bianco; ricordi che una pecora doveva partorire? Mi sono alzato e sono rimasto con lei parecchio, fino a quando è nato,  era l’alba.
- E tu sei entrato in camera da letto con in braccio l’agnellino; non sapevo se baciare lui o te.
- E adesso lo sai?
Fu un bacio lungo, un amore col tempo divenuto affetto che ritornò a sbocciare in quella notte di Natale.


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Vigilia di Natale in macelleria
di massimolegnani

Davanti al negozio c’erano, schiacciati contro i vetri, nasi che alitavano nel freddo e mani aperte a lasciare impronte e desideri.
Mancavano dieci minuti all’apertura e Margherita osservava preoccupata la massa di gente assiepata dietro le vetrine.
Sarebbe stato un massacro.
Quegli occhi sgranati come fosse fame e quei nasi premuti rendevano i volti dell’attesa simili alle teste dei maiali appese dietro il bancone; maiali ancora vivi che, fiutato il cibo sotto il fango, scalpitano e si spintonano grufolando, come fosse una vita che non mangiano.
A lei l’odore del cibo alle otto del mattino dava la nausea e l’idea che presto avrebbe dovuto confezionare pacchetti su pacchetti di carne sanguinolenta la faceva stare ancora peggio. Ma i padroni della “Premiata Macelleria e Gastronomia Eredi Cairoli” l’avevano assunta solo per quello.
-         Ricordati che i nostri prodotti passeranno sotto l’albero prima di andare ad arricchire le tavolate delle feste. Le confezioni devono essere eleganti come se dentro ci fossero gioielli.- le aveva detto la signora Adalgisa, mostrandole i nastri argentati, le coccarde un po’ pacchiane e la carta natalizia con cui lei avrebbe dovuto abbellire i tipici involucri gialli, troppo ordinari.
-         La “raffineria” è il nostro fiore all’occhiello.- aveva aggiunto la signora giocherellando con il triplo giro di perle. La ragazza avrebbe voluto chiederle se a tempo perso gli eredi Cairoli commerciassero in prodotti petroliferi, ma lasciò perdere, la padrona non avrebbe colto l’ironia e, se mai avesse afferrato la battuta, l’avrebbe licenziata sui due piedi.
In quei giorni nessuno in macelleria portava il grembiule. Anche Margherita aveva dovuto indossare un abitino elegante, di quelli che usava in discoteca, e adesso temeva di macchiarlo di sangue.
Furono aperte le porte e la gente si riversò all’interno del negozio a contendersi filetti e arrosti. Davanti al bancone furono subito spintoni e liti, e presto si accesero piccole risse per questioni di posizione nella coda o di precedenza nella scelta dei pezzi migliori.
Alla notizia che il patè di fegato di marmotta, vanto della casa, era ormai quasi esaurito, vi fu una vera sommossa; il cav. Glisenti imprecò in piemontese contro una madama impellicciata che a suo dire gli aveva sottratto l’ultima vaschetta di questa ghiottoneria con un meschino sotterfugio (sì, lei aveva spalancato il visone su una generosa scollatura, distraendolo nell’attimo cruciale dell’ordinazione); il conte di Valchiusella per protesta calò con violenza il bastone da passeggio sul banco gastronomico, facendo schizzare in faccia alla signora Giberti, della rinomata Rubinetteria Aldo Giberti e figli, l’insalata di interiora di renna in salamoia.
La padrona veleggiava sorridente tra i clienti inferociti, sicura che bastassero i suoi modi raffinati a calmare gli animi. Ogni tanto però le sfuggiva unbojafauss” a mezza voce.
La situazione andava degenerando.
La signorina Rebecchi, superata nella fila da un giovanotto davvero villano, ebbe un sussulto d’orgoglio e, afferrato a due mani l’ombrello, lo conficcò con tutte le sue forze nella scarpa del malcapitato, inchiodandogli il piede destro al legno biondo del pavimento. Solo dopo essersi servita, riprese il proprio ombrello, come lo stesse sfilando dal porta-ombrelli, e con un sorriso educato liberò il giovanotto che ancora ululava. Nella concitazione il signor Alfredo, l’addetto al taglio delle carni, mozzò di netto un dito di un incauto che aveva cercato di arraffare delle costine di camoscio mentre lui ancora le stava tagliando. Alfredo rimase qualche istante interdetto con un braccio sollevato e il dito ben in vista, come a chiedere a chi appartenesse il pezzo. Poi, dato che in quel marasma nessuno ne reclamava la perdita, lo gettò fra le frattaglie per il cane e riprese il suo lavoro.
Margherita, china sul tavolino da lavoro, ignorava quanto le succedeva intorno. Prendeva dalle mani del cliente di turno, che lo esibiva come un trofeo di guerra, il pezzo di carne avvolto nella carta gialla e lo trasformava con pochi abili gesti in un grazioso pacchetto-regalo. Aveva la schiena a pezzi e la nausea che sopraggiungeva a ondate. Lavorava ininterrottamente da ore e sognava solo l’ora di chiusura e un letto. Alzò lo sguardo e diede un’occhiata fuori. Rimase a bocca aperta.
Davanti al negozio c’erano due ragazzotti che si stavano calando sul volto un passamontagna. Spuntavano solo gli occhi allucinati. Li vide buttare giù qualche pasticca, sbirciare ancora attraverso la vetrina e poi decidersi ad entrare. Margherita si rannicchiò sotto al tavolino.
L’ingresso dei due fu disastroso.
Il primo, spianando una mitraglietta, annunciò con quanto fiato aveva in corpo che quella era una rapina. Nessuno gli badò. Il secondo inciampò malamente in un gradino e cadendo lasciò partire un colpo di pistola. La signora Adalgisa stramazzò a terra; in mezzo alla fronte un “raffinato” foro di proiettile.
A quel punto i clienti che ancora si accalcavano al bancone si voltarono verso gli intrusi. Credendo che questi fossero lì per arraffare con qualunque mezzo le poche prelibatezze rimaste, fecero muro contro di loro e li minacciarono con ombrelli e bastoni: i due malviventi si difesero a colpi di pistola e sventagliate di mitra, ma alla fine furono sopraffatti dalla piccola torma che avanzava compatta e i cui caduti venivano subito sostituiti da altri clienti altrettanto determinati.

Alle sette di sera nel negozio il silenzio era spettrale.
Margherita riemerse dal suo nascondiglio e s’infilò il cappotto. Badando a non calpestare i corpi riversi a decine sul pavimento in strati scomposti, si avviò verso l’uscita.
Appena fuori, udì una musica di zampogne e fisarmoniche che diffondeva pace e amore per la via.

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Il treno del Paradiso
di Salvo Zappulla


La  bambina alla vista del treno sgranò i  grandi occhi azzurri. Rimase col fiato sospeso per lo stupore. Mai visto nulla di simile.  Ma cosa ci faceva quel treno tutto colorato alla stazione? Bello! Sembrava un treno magico. Un enorme giocattolo. Il treno dei desideri. Ogni carrozza aveva un colore diverso: giallo, azzurro, viola, arancione. Era straordinario! Semplicemente straordinario!!!. E poi lucido, nuovo di zecca, con rivestimenti finissimi. Dava un senso di sicurezza. La piccola Vanessa si asciugò le lacrime e finalmente sorrise, nonostante il dolore che provava  dentro il petto. C'era molta nebbia quel giorno  e la stazione era deserta. Provò l'irrefrenabile impulso di salire sul treno. Si chiese come c' era arrivata da sola alla stazione.  E dove erano la mamma e il papà?
 Si guardò intorno sconsolata. Le ritornò la voglia di piangere. E quel dolore al petto che non smetteva di tormentarla. Vagò ancora con lo sguardo. Cominciava a sentire freddo. I suoi occhi si fissarono sul treno e si rese conto che la stava aspettando. Sì, era lì per lei. Non c'era un motivo preciso che glielo facesse credere. Lo sentì e basta, come una premonizione.  Quel treno meraviglioso, che sembrava un serpentone mansueto, era un regalo. Un regalo destinato a lei.
Doveva fare il biglietto e salire, senza alcuna esitazione.
Controllò nella tasca, aveva solo pochi spiccioli, i soldi della merenda che la mamma quella mattina le aveva dato per andare a scuola. Già, ma perché non c'era andata, quella mattina, a scuola? E come mai si trovava invece alla stazione?  Non riusciva a ricordare.
Si avviò verso l'ufficio del capo stazione, determinata a fare il biglietto. Dovette alzarsi in punta di piedi per guardarlo negli occhi: era un uomo particolare con una gran barba bianca che gli arrivava sul pancione prominente, e i capelli lunghi e lanosi gli scendevano fino alle spalle. “Sei tu il capo stazione?”  chiese Vanessa, trattenendo una risata. L'uomo sollevò la testa  dalle sue scartoffie, la osservò con una grande tristezza, una tristezza secolare, accumulata giorno dopo giorno, pena dopo pena. “Sì, sono io. E tu sei la piccola Vanessa.  Perché ridi di nascosto?”.
“Perché sei tutto bianco! Sembri un orso. Sembri babbo Natale. Ma come fai a conoscere il mio nome? Mi stavi aspettando?”.
“Sì, ti stavo aspettando”.
“Voglio comprare il biglietto e salire sul treno. Ecco, ti tutti i miei soldi”. Frugò nella tasca.
“Non occorrono soldi per salire sul treno. Vai pure, manchi solo tu per partire”. E si tastò i lunghi peli della barba. Provava una grande amarezza, per la bambina, per se stesso e il lavoro ingrato cui lo avevano destinato. “Vai pure Vanessa, troverai altri bambini sul treno. Andrete in un posto bellissimo ”.
“Ma la mia mamma, il papà?”
“Stai tranquilla, loro sanno già”.
La bambina si avviò felice.
 L'uomo ritornò con la mente a quanto era successo quella mattina:il boato, la nuvola di polvere, le macerie, i corpi martoriati, e provò un brivido di orrore.   
Scosse la testa, sospirò e infine chiamò  due inservienti: “Accompagnatela fino alla carrozza rosa, e nascondete le ali, non vorrei si spaventasse”.


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Piccolo racconto di Natale
       di Renzo Montagnoli


“E’ una festa meravigliosa, amore mio; da quando siamo insieme ho imparato il vero significato della parola felicità.” e guardava estasiato la donna che aveva portato all’altare da appena sei mesi.
“Non parlare; parlo io, aggiungo solo che sono felice.” E fece per abbracciare l’amata, allorché avvertì netta, devastante, una stilettata al cuore. Barcollò, strabuzzò gli occhi e vide il pavimento avvicinarsi sempre di più; poi la corsa in ambulanza, mani febbrili che si agitavano sul suo petto, il pianto straziante della sua donna. E l’anima scivolò fuori dal corpo ormai esanime. “Non è possibile, morire proprio oggi che è Natale” urlò questa frase che nessuno sentì. Lentamente, eterea, l’anima salì al cielo, dove un compassionevole Iddio l’accolse.
“Se tu veramente comandi il mondo, non staccarmi così da lei; fa che io almeno possa restarle accanto.”
Un cenno della mano ed ecco che lo spirito si trasformò in un canarino che veloce scese a terra.
Nevicava, a larghe falde, e sbattendo le ali per il freddo si posò sul davanzale della finestra della camera da letto. Con il becco picchiettò sul vetro; la donna, stravolta dal dolore, era distesa sul letto e volse lo sguardo. Quel piccolo essere intirizzito in quella giornata di morte le sembrò meritevole di soccorso e lo fece entrare. Nei giorni successivi gli diede anche una casetta, una piccola gabbia di metallo che troneggiava in cucina accanto alla pendola.
Il tempo passava e lei non si risposò; lavorava tutto il giorno ed alla sera quando rincasava si sentiva rincuorata dalla presenza del canarino, che la fissava sempre e sembrava pendere dalle sue labbra. Aveva provato a trovargli una compagna, ma lui non l’aveva voluta; se ne stava ore ed ore zitto a guardare la donna affaccendata nei lavori domestici.
E venne un altro Natale. “Certo che come canarino non canti per niente; te ne stai sempre lì muto, a fissarmi, come se mi volessi dire qualche cosa. Che cosa ti frulla in quella testolina?” E il canarino cominciò a cantare una melodia strana, che lasciò stupefatta la donna.
“Ma questa, questa è la canzone che ci piaceva tanto, che il mio povero marito definiva la melodia del nostro amore!” e le lacrime cominciarono a sgorgarle dagli occhi. Il canarino si interruppe e ridivenne nuovamente muto. Per quanti sforzi, per quante preghiere, per quante lusinghe la donna adottasse non riuscì a farlo più cantare,  e questo silenziò durò fino al Natale successivo, quando nuovamente il canarino cantò la canzone amata. Poi, di nuovo il silenzio nei giorni seguenti fino ad un nuovo 25 dicembre. Si andò avanti così per degli anni: l’uccellino che restava muto tutto l’anno e poi immancabilmente il giorno di Natale riprendeva a cantare, solo una canzone, solo quella.
Che avesse cominciato a capire qualche cosa la donna? Non è dato di sapere, anche se più volte in tarda età accennò a un’amica la stranezza di quell’esserino, che avrebbe già dovuto esser morto da un bel po’ e che invece restava giovane, tale e quale di quando lo aveva conosciuto.
Lei, invece, era naturalmente e progressivamente sfiorita e ormai, assai avanti con gli anni, giaceva da tempo a letto, accanto al quale aveva voluto fosse messa la gabbietta con il canarino.
E così si arrivò ad un nuovo Natale; nevicava, a larghe falde, e faceva freddo. La donna era ormai più di là che di qua, ma aprì gli occhi che corsero subito alla gabbietta a cercare il suo piccolo amico e questi iniziò a cantare…..
Fu nel pomeriggio che la sua amica la trovò esanime nel letto; istintivamente guardò la gabbietta e vide che adesso c’erano due canarini; non nevicava più, era spuntato il sole con un tepore quasi primaverile. La vicina si asciugò le lacrime e parve capire; aprì la finestra e poi la gabbietta. I due canarini iniziarono subito a cantare una canzone che lei aveva già sentito a ogni Natale.
“Andate, andate, finalmente insieme.”
E le due bestiole si involarono verso il cielo, sempre più su, finché scomparvero alla vista degli umani.     

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Piccola favola natalizia
di Franca Maria Bagnoli


Si avvicinava il Natale. Le vetrine dei negozi mostravano, sotto luci abbaglianti, alcune vestiti eleganti, altre cibi ricercati ed altre ancora giocattoli di tutti i tipi, da quelli elettronici a quelli di legno dipinto, come il bel cavallino a dondolo.
Roberto era fermo con la mamma davanti ad una vetrina dove troneggiava una grande macchina da corsa dotata di telecomando. R Guardò la mamma e le chiese: "Che dici? Se chiedo a Gesù Bambino di portarmi quella macchina, mi accontenterà?" La mamma sorrise e rispose: "Tu provaci. Poi vedremo!". Roberto sperava, sperava. La notte sognava la grande macchina rossa e la mattina, quando si svegliava, pregava Gesù Bambino. I giorni passavano e le strade diventavano sempre più affollate e luminose perché c'erano appese, da un capo all'altro, lampadine di tutti i colori che formavano abeti, stelle e ghirlande.
Intanto Roberto aveva allestito, con l'aiuto del papà, un grande albero di Natale molto originale. Era stato realizzato con tanti rami di quercia che il papà aveva uniti, con molta bravura, a forma di abete. Con i grandi pupazzi che risalivano addirittura ai bisnonni di Roberto avevano fatto, tutta la famiglia insieme, anche un Presepe., Ai piedi dell'albero, dopo qualche giorno, comparvero i doni tra i quali uno scatolone con dei buchi su tutti i lati.
Quando venne il momento di aprire i pacchi, il papà trovò uno strumento per lavorare il legno, la sorellina di Roberto una bella bambola di pezza con i capelli di lana, biondi e la mamma una collana di conchiglie marine. Roberto aveva aspettato ad aprire il suo pacco per prolungare la gioiosa attesa. Era sicuro di trovare la macchina. Alla fine lo aprì. La macchina non c'era! In fondo allo scatolone c'era un cagnolino che dormiva tranquillo. Aveva un collare nel quale era infilata una busta. Roberto, deluso, aprì la busta e, nel foglio che conteneva, lesse: " Caro Roberto, la macchina era troppo costosa ed io dovevo comprare tanto cibo per molti, molti bambini che altrimenti sarebbero morti di fame. Ne sono già morti tanti! Il mio cuore è triste ma ho voluto regalarti un amico che ti farà compagnia. Ti abbraccio. Gesù Bambino."
In quel momento il cagnolino, un cucciolo, si svegliò e abbaiò piano. Roberto lo prese in braccio mentre le lacrime gli sgorgavano dagli occhi. Non erano lacrime di delusione, ma di commozione. Prese la lettera, la baciò e la ripose nel cassetto della sua scrivania.

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Vendetta, tremenda vendetta!
di Sergio Sozi



L'ho visto entrare nel caminetto col suo solito fare goffo e prepotente: per poco non distruggeva il comignolo per passarci con tutta la stazza, ché mica è piccolo, lo sanno tutti.
Dopo averne osservato, grazie alla luna piena, la consueta fretta di consegnare i doni, ho lasciato il posto d'osservazione per farti il solito rapporto scritto, come vedi. Sarà stata la trentesima volta che ti anticipava in quel paesino, Capo, coi suoi pacchi dorati infiocchettati e vistosamente fatti in serie.
Posso fare un analisi in dettaglio della faccenda, Capo? È una domanda retorica, perché tanto so che accetti sempre aiuti dal basso, tu, anche se duemila anni fa questo ti costò caro.
Allora ecco. Secondo me quello non lavora da solo, anzi sta dentro un'organizzazione internazionale ben strutturata con dei mandanti e una marea di esecutori che studiano le tue mosse e appena accenni un movimento scattano per fregarti la piazza. Hanno gli industriali dalla loro parte e sono in tanti a vestirsi con le braghe rosse e il barbone bianco. Allo stato attuale delle cose sono i piú forti, è indiscutibile. Avrebbero comunque un punto debole: il fatto che la gente li chiama solo il venticinque dicembre e poi se li dimentica per tutto l'anno, ma non credo che dovremmo sentirci meno in crisi per questo loro neo. Anche con te infatti la gente parla solo quando ha qualcosa da chiedere o da lamentare, mica perché ti senta vicino ogni minuto.
Bisognerebbe, a modesto avviso del semplice Ergonomico che sono, bisognerebbe dico organizzarsi meglio e lavorare sulle loro mancanze strutturali, che sono tante, senza insistere sul dato di fatto che non sono altro che dei guitti da palcoscenici di periferia. Se dicessimo ai bambini ''Diffidate di Babbo Natale che è solo un attore americano di serie b'' rischieremmo di provocare delle perfide controdeduzioni tipo ''Allora magari anche voi avete i vostri scheletri nell'armadio''. No, no. Piuttosto, per esempio: vediamo che i biancorossi non sono capaci di dare un significato profondo alla Festa e allora cos'aspettiamo? Lavoriamoci su e diciamo alla gente che noi abbiamo una tradizione bimillenaria alle spalle, con dei sacrifici mica tanto usuali da parte di tutti noi per portare avanti l'organizzazione; aggiungiamo che noi da sempre siamo in pochi in organico e che abbiamo avuto difficoltà a cacciar via i dipendenti in malafede ma ci abbiamo sempre provato, nonostante certi comportamenti da teppisti che hanno avuto costoro – ti ricorderai, Capo, le Inquisizioni, le Guerre di Religione, i colonizzatori con in una mano la Bibbia e nell'altra la spada, i Papi corrotti e ipocriti, i maniaci d'ogni ordine e grado che si spacciano per tuoi dipendenti.
Be', ecco: noi sappiamo di aver sempre cercato di toglierci dagli stivali questa gentaglia, ed ora dovremmo dichiararlo apertamente per differenziarci dall'Americano Barbuto, il quale invece è nato male, almeno alla sua seconda vita terrena, e male si comporta anzi sempre peggio.
Ecco, bisognerebbe sensibilizzare ancor piú il buon vecchio caro San Nicola di Patara, che ora risiede a Bari dopo aver fatto tante elargizioni a Mira, la cittadina turca dove fu vescovo nel quarto secolo. Servirebbe dirgli: ''Nicola, hai visto a Nuovaiorche come ti scimmiottano? Lo sai che adesso sei un venditore di bibite e cioccolatini su vasta scala? Ti piace questo? No eh, manco un po' ti piace 'sta commediola dei signori produttori di beni. Allora Nicola muoviti, dài una mano al Capo per scacciare i mercanti dal Tempio, su, risorgi almeno tu, visto che il Capo è troppo arrabbiato col genere umano per farlo ancora, magari stavolta a Milano o ad Algeri, dove ci sarebbe un gran bisogno di rivederlo in giro per strada a chiarire le idee alla gente.''
Comunque tu Capo sai quanto io, Ergonomico da Montecucco, sia solo una tua misera spia, l'ultimo dei tuoi seguaci, uno che non si vuole né si può mostrare in pubblico da quanto è carogna e viziato. Non intendo dunque pretendere di dare il buon esempio, di parlare in prima persona agli altri uomini: so benissimo di essermi offerto volontariamente per servirti e che tu giustamente non mi ritieni un santo o un galantuomo. Non mi hai chiamato tu, Capo, mi sono offerto io per vergogna e appunto ti ho chiesto solo di concedermi l'onore di farti da spia in terra, là dove ti sei stufato di andare personalmente, anche se potresti visto che sei onnipresente, quando vuoi.
Se mi hai accettato al tuo servizio inoltre – questo va precisato – io ancora non l'ho capito, solo provo a fare qualcosa senza pretesa di ufficialità, so di essere solo uno con un piede dentro ed uno fuori dall'organizzazione. Cosí ora stendo questo rapporto natalizio per chiederti di reagire con le tue pacifiche e amorevoli forze alla violenza ingorda e malpensante dei Babbi attuali: io e loro siamo fatti della stessa pasta ma almeno io sogno di vederti risorgere ignudo e puro come Mamma ti fece quella volta in Galilea. I regali quel giorno li portarono i potenti locali a te, perché a loro bastavi tu come regalo – e magari, guarda, stavano anche cercando di arruffianarsi un pochino visto che avevano delle doti speciali e capivano che ben presto avresti dato loro rogne e grattacapi. Umano anche se bruttino questo portare oro incenso e mirra per mettersi con le spalle al sicuro... ma non ne sono convinto, di questa supposizione, forse è solo una mia malignità, conosci bene la mia miseria morale.
Fatto sta che tu divenisti un infante ignudo ed eri il regalo: un bimbo ignudo è sempre un regalo, dico non per sminuirti eh, ma solo perché ho capito che i bimbi tu ce li mandi ignudi in quanto loro sono il tuo sommo omaggio alle bestioline terrestri che non siamo altro. E noi cosa facciamo? Prendiamo il tuo regalo ignudo e lo vestiamo pensando ''Eh no! che diamine! un uomo ignudo non è dignitoso, bisognerà arricchirlo almeno coi vestiti!''
E quei nostri vestitini sono solo il primo passo verso la perdizione: poi vengono in fila indiana tutte le altre maschere, è solo questione di dimensioni e fattura, a crescere esponenzialmente per finire con gli assegni al portatore e i regni finanziari, le orge di sesso, potere e psicopatologie varie e assortite, accavallate – e benvestite, in pubblico, sempre benvestite.
Visto, infine, cos'è successo? Che a voglia di coprire le pudenda non sappiamo piú distinguere tra la profumuzza (profumo piú puzza) del nostro bruttel (brutto piú bel) corpo e le essenze artificiali dei flaconi dei Babbi Natale, e non capiamo la differenza tra le nostre gambe e le ruote delle automobili, tra le braccia e i robot, tra un occhio e lo schermo di un televisore, tra un sasso e il respiro di un bambino! Abbiamo, Capo, reificato la vita, l'abbiamo pietrificata insomma. I sogni della vita poi li abbiamo ridotti a pellicole e i sentimenti sono aspirazioni: ''Ah, magari potessi sentire un po' di amore per qualcuno'' diciamo noi uomini sotterrati fra vestiti ed ingordigie; ''magari?!'' Magari un corno! Mica diciamo ''Magari potessi divenire capoufficio'' noi, se vogliamo diventare capoufficio noi lottiamo con le unghie e con i denti e calpestiamo gli altri senza riguardi. Per far divenire qualcun altro capufficio invece ''Ah, magari potessi!'' usiamo il periodo ipotetico dell'irrealtà.
Ed è per questo che ti chiedo scusa, a fine rapporto, Capo, se pochi minuti fa sono caduto nella mia umana tentazione di applicare le tue leggi a modo mio ed ho ancora una volta distrutto tutti i regali che quel Babbo Natale aveva lasciato nel caminetto di quella casa. Licenziami pure, io meglio di cosí non so fare.


8 commenti:

  1. Bella serie di racconti.
    Commplimenti.

    Alberto Navarra

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  2. Complimenti. Mi scuso per il refuso.

    Alberto Navarra

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  3. Caro Renzo, prima di tutto un affettuoso augurio per la nascita di questo nuovo blog, che mi sembra esteticamente molto bello. Mi sembra ieri che auguravo lunga vita al tuo primo blog... Non ho letto ancora i racconti, perché in questi giorni sono stata molto impegnata, ma conto di farlo al più presto...
    E poi... che sorpresa e che onore che appaia anche il mjo nome, in questo primo post! Davvero, ne sono onorata! Grazie, dunque, grazie ancora una volta.

    Milvia

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  4. Complimentissimi, Renzo
    grazia (ora in wordpress)
    http://giornalistacuriosa.wordpress.com

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  5. ottimo Renzo!
    me li leggerò con calma.
    a presto margueritex

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  6. Come inizio mi sembra eccellente. Auguri Renzo
    Domenico Sergi.

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  7. Che belle fantasie!
    Sono tutti racconti molto interessanti.
    Originale anche l'ultimo già dal titolo (Vendetta, tremenda vendetta!) che spiazza un po' nei pressi del Natale, ma è un bel dialogo condotto con perizia e con una intelligente interpretazione dei nostri attuali problemi alla luce dei rapporti con il Capo!
    Bella lettura, anche commovente (v. il primo racconto di Renzo, che ringrazio)
    Ciao
    Car

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  8. Che piacere leggere questi racconti, Renzo! Ognuno con uno stile diverso, ognuno un "dono" di Natale per noi lettori.
    Belli e profondi. Rimane il ricordo di tutti i protagonisti, ognuno con una sua precisa personalità. Il Natale è il filo conduttore, ma c'è molto di più, ci sono le difficoltà della vita, le amarezze, le atmosfere di certi momenti, lo sguardo degli autori sul mondo.
    Grazie, Renzo, e grazie agli amici che hanno scritto questi racconti.
    Piera

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