Foto da web
Andarsene con dignità.
Alle cinque della sera
di Renzo
Montagnoli
Era un pomeriggio afoso, di quelli che
nemmeno il sottile respiro delle colline intorno a Ronda riusciva a rendere
sopportabile.
Pablito si asciugò la fronte, madida di
sudore, guardò l’orologio e vide che mancava ancora un po’ di tempo per la sua
discesa nell’arena, fissata per le 17. Ancora un quarto d’ora, a ripensare al
passato, dagli esordi ai trionfi; sì, perché lui era il più grande torero
vivente e forse il migliore di tutti i tempi.
Sapeva unire la forza e la
determinazione con la grazia dei movimenti, ballava intorno al toro, lo
irretiva, lo incantava e, solo quando quel gioco di gambe e di braccia
diventava superfluo, affondava la spada, poneva fine allo spettacolo, fra
l’esultanza del pubblico.
Era passato molto tempo dalla sua prima
corrida, ma non si sentiva vecchio, anzi aveva raggiunto quell’equilibrio che
nella tauromachia viene considerato il maggior pregio per un torero, cioè la
tranquilla consapevolezza delle proprie capacità.
Tutto era avvenuto senza che se ne
rendesse conto, frutto di allenamenti, di costanza d’intenti, di calcolo
accorto che gli impediva di assumere rischi oltre limiti ragionevoli, e così la
paura delle prime volte poco a poco era scomparsa, per lasciare il posto a una
grande capacità di autocontrollo, quell’autocontrollo che di colpo era
scomparso una ventina di giorni prima. Era accaduto che avvertiva dei vaghi
malesseri e allora si era sottoposto a degli accertamenti diagnostici, il
risultato dei quali, sia pur con delicatezza, gli era stato comunicato dai
medici: cancro al fegato, nessuna possibilità di cura, prognosi quindi del
tutto infausta e ancora poco da vivere (chi gli diceva un mese, chi due, i più
ottimisti tre).
Ecco, quel cancro era un toro contro
cui nulla potevano le sue qualità, e alla fine di quella corrida, che si
prospettava anche dolorosa, la sua sconfitta era certa.
Si era confidato allora con il suo
miglior amico, Alfonso, un vecchio compagno di scuola.
Era una giornata torrida e mentre
parlava sentiva il sudore che gli scendeva lungo la spina dorsale.
- Non c’è nulla da fare; questa volta
me ne vado. Non mi spaventa la morte, che affronto quasi ogni giorno, ma le
corsie degli ospedali che puzzano di disinfettante, le lenzuola del letto che
ti avvolgono come un sudario, la sofferenza, una sofferenza inutile, perché non
ha per premio la vita, ma la morte. No, non ci sto.
- Allora cosa intendi fare?
- Vedi, mi immagino già i titoli dei
giornali: Il famoso torero Pablito stroncato da un male incurabile. E la gente
che legge, che mormora “Poverino, finire così senza gloria.”.
L’amico stava zitto e teneva gli occhi
bassi.
- No, se devo morire, muoio come voglio
io, come muore un uomo, non un infermo.
- E allora?
- Alla prossima corrida vincerà il
toro.
-
L’hai detto a Maria?
-
No, lei non deve sapere, deve restare nella convinzione che il nostro
amore sia stato troncato da un incidente.
Maria, l’aveva conosciuta all’incirca
due anni prima, capelli corvini, occhi neri e profondi; a differenza delle
altre donne che s’innamoravano del torero, lei si era innamorata di lui e lui,
per la prima volta, si era accorto di valere per qualcuno dismessi gli abiti
sfarzosi di scena. No, a lei non interessava la sua celebrità, le interessava
solo il Pablito uomo e quante volte l’aveva supplicato di smettere, di iniziare
una vita insieme meno pericolosa. Con Maria stava bene, aveva ritrovato quel
profumo di sincerità che da troppo tempo gli era mancato e proprio per questo,
per non addolorarla ulteriormente, le aveva mentito, le aveva nascosto quel
male subdolo e crudele che l’aveva colpito e ora lei non avrebbe dovuto sapere
che non si sarebbe trattato di un incidente. Doveva ripagare con la menzogna la
sincerità, ma non avrebbe potuto fare altrimenti: meglio lasciarla
nell’illusione che quella vita che avevano intrapreso insieme avrebbe potuto
durare a lungo se non fosse intervenuta una perfida incornata. Meglio il dolore
bruciante di un momento che un continuo stillicidio di sofferenza nel vedere il
proprio amato agonizzante in un letto d’ospedale.
Lo chiamarono, erano già le 17. Quando
apparve nell’arena fu accolto da un’ovazione e il pubblico, scandendo il suo
nome, cominciò a fare la “ola”.
A passi lenti, guardandosi intorno e
ogni tanto facendo un inchino si portò al centro, a pochi passi dal suo
avversario, un gigantesco miura, già fiaccato dalle banderillas.
Gli si inchinò davanti, fissando quegli
occhi bovini e mormorò - Amico, non temere.
Poi cominciò un gioco di muleta,
nascondendo la spada dietro la schiena.
La bestia, schiumante, caricava e lui,
con la leggerezza di una ballerina, si scansava di millimetri, mandando in
visibilio il pubblico sugli spalti.
Passavano i minuti, ma non si era
ancora arrivati ai tradizionali dieci del tercio de muleta. Pablito era
abituato a sfruttare tutto quel lasso di tempo, onde avere la certezza di
infilzare il toro senza che questi potesse avere ancora la forza per
incornarlo.
Cinque, poi sei minuti e il toro aveva
ancora forza; era il momento e così alzò la spada, non guardando la bestia, ma
volgendo gli occhi al cielo.
Fu un attimo e arrivò l’incornata nel
fianco destro, poi si sentì scaraventare in alto, poi sbattere a terra, indi di
nuovo sollevato. Avvertiva dei suoni lontani, le urla degli spettatori, il tempo
sembrava fermato in un attimo infinito, una luce accecante senza calore lo
sovrastava e in quel bagliore rivide i capelli corvini e gli occhi neri di
Maria, ma già sopravveniva il buio e, non senza aver mormorato prima “Bravo,
Toro”, riuscì appena a biascicare l’inizio di una preghiera.
- Nuestra senora de la muerte…
In un angolo Alfonso piangeva, il sole
calava all’orizzonte, nell’arena ritornò il silenzio.
il tuo bellissimo narrare!...
RispondiEliminacb
Sì, è vero, il protagonista ha scelto di lasciare il mondo con dignità. Racconto che emoziona e induce a riflettere sulla libertà dell'essere umano.
RispondiEliminaAgnese Addari
Sublime. Ogni ulteriore commento da parte mia ne intaccherebbe la qualità.
RispondiEliminaCorrado s.
Un bel racconto apparentemente diverso dai tuoi, apparentemente perché il tema principale è sempre quello dell'uomo che affronta coraggiosamente la realtà, anche quella estrema della propria morte.
RispondiEliminaMi è piaciuta anche l'ambientazione andalusa. Avevo dimenticato che la tragicità della corrida era fonte di ispirazione nel passato e mi ha fatto molto piacere rivedere Ronda in un testo letterario e ricordare le poesie di Lorca.
Sempre bravo
franca
Renzo, si sa che sei uno splendido scrittore, ma....io ABORRO la corrida..
RispondiEliminaNon volermene
Gio
Prosa impeccabile, ma io avrei preferito che avesse smesso con questa ridicola prova tipica di coraggio maschile. Esistono forme più elevate e nobili, per le quali vale davvero la pena di rischiare la propria vita. Una forma che esalti la vita e giustifichi la morte, come due anime che, divise per un pur breve periodo di tempo, si ritrovano per proseguire nuovamente unite.
RispondiEliminaNeanche la sua Maria è riuscita a condurlo sulla strada delle scelte migliori. Povero Pablito!
Lorenzo
Sì, Renzo: la corrida è odiosa, ma sono d'accordo con gli altri commentatori: hai una prosa superba. Bravissimo.
RispondiEliminaNon amo la corrida, amo e rispetto gli animali, eppure questo bel racconto mi ha mostrato l'aspetto più umano di uno "sport" crudelissimo. Ho provato empatia verso il protagonista, la sua sofferenza, la presa di coscienza di una vita che volge al termine. In quei momenti, così veloci ma densi, rivediamo, uno dopo l'altro, i fotogrammi di un'intera esistenza. Bella questa figura di uomo così profondamente "umano", capace all'improvviso di dialogare col suo antagonista di sempre: "Bravo, Toro".
RispondiEliminaDignità nel momento più difficile, e non è da tutti.
Ciao.
Piera