Giallo d’Avola
di Paolo Di Stefano
In copertina: I corvi di Vittorio Corona, 1926 circa
(particolare)
Sellerio Editore
Narrativa romanzo
Collana La memoria
Pagg. 340
ISBN 9788838930171
Prezzo € 14,00
Presunzione di
colpevolezza
In tutti gli ordinamenti giuridici
moderni vale il principio della presunzione d’innocenza e quindi nel processo
penale l’onere della prova della colpevolezza dell’imputato ricade sulla
Pubblica Accusa che, sulla scorta solo di prove certe, imposta il suo iter, la
sua azione in aula. Quindi non sussiste mai la presunzione di colpevolezza,
come anche espressamente evidenziato dal secondo comma dell’art. 27 della
nostra Costituzione, che così recita: L’imputato non è considerato colpevole sino
alla condanna definitiva.
Stupisce quindi quanto accaduto nel
lontano 1954 a
Salvatore Gallo e a suo figlio Sebastiano, imputati di avere assassinato Paolo
Gallo, rispettivamente fratello e zio, e di averne occultato il cadavere. Vero
é che era notorio un permanente stato di litigiosità e pure vero é che spesso
Paolo veniva aggredito e malmenato da Salvatore, ma da lì a imbastire un
processo senza uno straccio di prova, sulla base solo dei precedenti pessimi
rapporti, è senz’altro azzardato, anche perché per poter parlare di omicidio
necessitava la presenza di un cadavere, che appunto non c’era. E che l’abbaglio
venisse dalla Pubblica Accusa ci può anche stare, ma che poi si riconfermasse
nel collegio giudicante in tutti e tre i gradi processuali è veramente
inconcepibile. E tanta era la sicurezza, viziata dalla presunzione di
colpevolezza, che si arrivò addirittura ad accusare di falsa testimonianza chi
aveva visto, vivo e vegeto, il cadavere. Fu solo grazie alla tenacia di un
avvocato e di un giornalista se finalmente, anche se in notevole riardo, fu
fatta giustizia, con la liberazione dal carcere di Ventotene, dove scontava
l’ergastolo, di un Salvatore Gallo ormai ridotto a un relitto umano. Tutto
bene, quindi? No, perché lo stato è un Moloch mostruoso e si piega di fronte
all’evidenza dei fatti, ma non si spezza e si prende la sua rivincita. Non
aggiungo altro della trama, che ripercorre puntualmente un fatto realmente
accaduto e che non solo in Italia ebbe vasta risonanza.
Il merito di Paolo Di Stefano è stato
di riproporcelo, fedele alle carte processuali, ma anche con la capacità di
trasmettere al lettore il pathos di una vicenda che si snoda in una Sicilia
arcaica, fra povera gente, ricca solo di miseria, e per lo più anche ignorante.
Il dramma dell’individuo ingiustamente condannato viene delineato non per
sollecitare la commozione del lettore, ma per
dimostrare come i preconcetti siano sempre frutto di una illogicità che
nasconde un’altra ignoranza, quella di chi crede di sapere perché può
giudicare, un enorme potere che in mani sbagliate sancisce, inequivocabilmente,
il trionfo dell’ingiustizia.
Giallo d’Avola è un legal thriller per nulla simile
ai tanti, per lo più di autori americani, che ogni tanto tornano ad affollare
le librerie; qui si rievoca e si fa tornare in vita un’epoca che molti non
conoscono o hanno dimenticato, in un’Italia che allora cominciava a beneficiare
del boom economico, che tuttavia
appariva così lontano dai terreni aridi e sassosi in cui contadini analfabeti
si rompevano la schiena solo per sopravvivere, senza speranza, un mondo statico
e spesso feroce, teatro di delitti anche familiari e in cui è potuto perfino
accadere il dramma psicologico del “morto-vivo” di Avola.
Paolo Di Stefano sa scrivere bene, sa
coinvolgere il lettore con attenta gradualità e il suo “Giallo d’Avola” è uno di
quei romanzi che non si scordano facilmente.
Paolo Di Stefano è nato ad Avola (Siracusa) nel 1956. È inviato del «Corriere
della Sera». Ha pubblicato inchieste e romanzi, tra cui Baci da non ripetere (1994, Premio
Comisso), Tutti contenti
(2003, Superpremio Vittorini e Flaiano), Nel
cuore che ti cerca(2008, Premio Campiello e Brancati). Con questa
casa editrice La catastròfa. Marcinelle
8agosto 1956 (2011, Premio Volponi) e Giallo d'Avola (2013).
Recensione
di Renzo Montagnoli
Avevo abbandonato da poco il collegio e lavoravo nella masseria di famiglia, non troppo distante da dove avvenne il caso Gallo inteso "Sacchitieddu". Conoscevo anche di vista il Salvatore. La fama e il suo modo di fare che mi limito a definire rude, ha contribuito non poco all'errore giudiziario. Non mi sbilancio sul ruolo che le donne coinvolte hanno avuto nel consolidare il "vox populi vox dei". Forse pe curiosità lo leggerò.
RispondiEliminaL'ho letto e l'ho trovato molto bello. Di Stefano scrive veramente bene e quindi concordo con la recensione del sig. Montagnoli.
RispondiEliminaAgnese Addari
Un caso che in quegli anni avrà coinvolto moltissimo l'Italia, una vicenda che avrà procurato ai protagonisti, mi sembra di capire al fratello in particolare, un dolore tale da distruggerlo fisicamente. Non avevo mai sentito parlare di questo fatto, la tua recensione mi ha colpito molto, spinge all'approfondimento e alla lettura del libro, senz'altro molto coinvolgente.
RispondiEliminaGrazie.
Piera