I
Natali di Ermengarda
di
Renzo Montagnoli
Era
stata la maestra di tutto il paese, aveva insegnato a diverse
generazioni, dai primi anni ‘20, turbinosi, con gli scontri di
piazza pressochè quotidiani ,agli anni del boom economico. Minuta,
non bella, ma dagli occhi vivaci e penetranti, Ermengarda Alberti era
per tutti la “maestra”. Non si era mai sposata e lei si riteneva
la madre di tutti quei pargoli che si accostavano, timidi e
impacciati, alla sua cattedra, che si sporcavano le mani con
l’inchiostro, che finivano dietro la lavagna quando facevano
arrabbiare. Li raccoglieva come una chioccia sotto le sue ali dalla
prima elementare e li portava fino alla quinta, per poi vederli volar
via verso studi superiori o verso il mondo del lavoro. Non si
risparmiava, viveva per insegnare e insegnava per vivere, contenta
quando i suoi allievi suonavano il campanello della sua casetta per
porgerle gli auguri di Natale e ancor più felice e commossa quando
gli stessi, ormai adulti, si ricordavano appunto della loro maestra
durante le feste natalizie o agli inizi dell’anno nuovo. Riceveva
questi ultimi come fossero parenti stretti, insisteva per preparare
un caffè o perché accettassero una fetta di quella buona torta di
more che solo lei sapeva fare. Durante la guerra, quando suonavano le
sirene dell’allarme aereo, faceva scendere i suoi piccoli allievi
nello scantinato della scuola, li raccoglieva intorno a sé e cercava
di lenire la loro più che giustificata paura. E quando qualcuno
s’ammalava, andava a trovarlo a casa e, se per mala sorte, moriva
si disperava come fosse stata sua madre. L’ho avuta anch’io come
insegnante e la ricordo esigente, ma non severa, sempre pronta a
spiegare di nuovo se qualcuno non capiva. Al di fuori della scuola,
la sua era una vita di solitudine, senza marito, senza genitori, che
aveva perso quand’era ancora giovinetta, l’unico svago era la
lettura e credo che nella sua non breve vita sia riuscita a leggere
tutti i libri della nostra biblioteca. Andata in pensione, rimase per
tutti sempre “la maestra”, ma poco a poco le visite degli ex
allievi diradarono. I tempi erano cambiati, la televisione, le gite
in auto, i locali di ballo, una frenesia che pareva aver colto tutti
fece sì che venisse dimenticata. Anch’io la persi di vista, ma un
dicembre, era la vigilia di Natale, me ne ricordai, anche perché
correvano voci in paese sul suo stato di salute, e l’andai a
trovare.
Mi
riconobbe subito, ma fui io che ebbi difficoltà nel ritrovare in
quel corpo storpiato dall’artrosi, in quelli occhi che erano
diventati opachi, la mia cara maestra. Insistette per il caffè e per
una fetta della sua torta di more, ma non erano buoni come una volta:
il caffè sembrava acqua sporca e il dolce un pasticcio mal riuscito.
D’altra parte gli anni c’erano e si vedevano tutti; novanta non
sono pochi e poi la malattia faceva il resto. Parlava a fatica, ma a
tutti costi volle dirmi come erano sempre stati i suoi Natali. A
parte l’uscita per la messa, restava sempre in casa con la speranza
che qualche alunno le venisse a far visita, il che quando insegnava
capitava sovente, ma dopo quasi mai. Ore e ore a leggere sperando che
suonasse il campanello, in preda alla propria solitudine e poi,
arrivata a sera, la cena frugale e infine il letto. - Non ho mai
chiesto molto alla vita mi disse - ma per me voi eravate come i miei
figli e se i figli non fanno visita alla madre almeno il giorno di
Natale, mi sento come se la mia vita fosse inutile, come se
quell’affetto che vi ho portato per voi non contasse niente.
Poi
tacque, si tamponò gli occhi con un fazzoletto, mi diede la mano
augurandomi buon Natale e sulla porta, mentre uscivo, sussurrò,
tanto che lo percepii appena - Grazie, bimbo mio.
Morì
l’anno successivo, in novembre, e al suo funerale c’era tutto il
paese, i suoi vecchi allievi che avevo contattato perché quell’anno
andassimo a casa sua a farle gli auguri di Natale. L’accompagnammo,
invece, nel suo ultimo viaggio, silenziosi, commossi e anche un po’
pentiti per averla così a lungo dimenticata.
Il
dono
di
Giovanna Giordani
La
scatola di latta della mamma era rimasta tale e quale come lei
l’aveva lasciata prima di andarsene fra gli angeli.
Agnese
l’aveva riposta sullo scaffale in soffitta pensando che un giorno o
l’altro l’avrebbe aperta, ma con calma, non era una cosa da fare
in fretta. Erano urgenti le incombenze della vita che andava avanti.
Dopo
tanti anni e vicende, fu in uno di quei pomeriggi uggiosi di fine
novembre che Agnese si decise a salire in soffitta per riordinare.
Eccola
là, fra un sacco di cianfrusaglie, la scatola tanto familiare,
sembrava chiedere di essere aperta al più presto. E Agnese decise
che era arrivato il momento. Si strinse nel pesante maglione e, presa
la scatola, la poggiò su un vecchio tavolino scrostato.
Un
odore di stantio le impregnò le narici appena riuscì a sollevare il
coperchio. L’umidità aveva lasciato il segno. Cominciò lentamente
a prendere in mano il “tesoro” della mamma. Tutta una serie di
rocchetti di filo colorato e da rammendo, qualche ditale (quelli
recuperati dai tubetti della conserva), un logoro puntaspilli, un
dado nero con i numeri bianchi, l’uovo di legno, un paio di
forbici, un rosario, un bigliettino per condoglianze scritto con la
inconfondibile calligrafia della mamma “partecipo
al vostro dolore”,
rimasto lì perché sostituito probabilmente a causa di
quell’antiestetico baffo d’inchiostro uscito dalla stilo, e poi
ancora un santino di San Leopoldo confessore, i biglietti degli
annunci di matrimonio dei figli, il quaderno con incollate le ricette
ritagliate dalla rubrica di zia Betta di Famiglia Cristiana, qualche
moneta da 50 e 100 Lire.
Ma
ecco che, nel frugare fra quegli oggetti testimoni di vita, Agnese si
trovò fra le mani un rotolino di plastica legato da un nastrino
riciclato chissà dove. Dopo averlo liberato dal nastrino, lentamente
lo distese e si accorse che aveva le sembianze di un tappetino
ornamentale. Non tutti i fiorami di plastica erano rimasti incorrotti
e il tutto era piuttosto ingiallito. Il ricordo esplose subitaneo.
Certo, era il regalo di Natale, di un lontanissimo Natale, che lei e
il fratellino avevano comprato per la mamma. Avevano convinto il papà
a dare loro una piccola somma ed erano corsi al negozio più vicino
del paese, che poi era quello del fruttivendolo, carichi di speranza
di trovare in fretta qualcosa poiché il tempo stringeva. Era la
vigilia. Il tappetino era lì, sul ripiano fra le cassette di frutta,
bello disteso, tutto bianco con bei ricami plastificati, e il prezzo
era adeguato alle loro possibilità.
Alla
mamma doveva piacere. Infatti lei ringraziò con la sua consueta
dolcezza e lo mise in bella mostra sulla credenza in cucina. Un
ornamento così avrebbe impreziosito la festa a beneficio di tutta la
famiglia, la piccola Agnese ne era convinta.
Poi
ci fu il presepe, l’albero con le candeline vere, le canzoni
indimenticabili.
E
l’attesa di Gesù Bambino, con i suoi doni. Doni che spesso
coincidevano con quelli che desiderava la mamma, ad esempio quando
lei diceva che sarebbe stata contenta se avesse portato una piccola
lavagna, dei gessetti o magari un libro. Caspita! Lui come
l’ascoltava! Lo stupore nel trovare proprio quei doni sotto
l’albero era indescrivibile.
Agnese
richiuse la scatola stringendosela al petto e, cercando di tenere a
bada il magone, si sorprese a sorridere mormorando fra sé: - per
fortuna i doni che desideravi tu, piacevano anche a noi, tesoro mio
-!
Il
giorno di Natale al paese
di
Renzo Montagnoli
Mi
piace ogni tanto tornare con la mente al passato, a certi suoi
aspetti, a come si viveva, a volte peggio di adesso, a volte meglio.
In particolare c’erano dei giorni, cosiddetti canonici, in cui
tutto pareva trasformarsi, e uno di questi era quello del Natale.
Ero
alle elementari e nella settimana che precedeva la festività, una
settimana ridotta, perché cominciavano le vacanze, la maestra non si
stancava di ripetere: “Bambini, il 25 é Natale e pertanto quel
giorno dovete essere più buoni. Rispettate il papà, la mamma, i
fratellini, le sorelline, i nonni, ecc.”. Quello che mi
impressionava nel discorso era quell’eccetera e mi domandavo a chi
si riferisse; ci costruivo un castello, in cui figuravano zii, zie,
prozii, prozie, cuginetti di non so quali gradi, insomma una sorta di
farneticazione in cui l’impegno maggiore era ricordarsi come si
chiamassero quei parenti, tanto più che appena ricordato un nome,
nel tentativo di estrarne un altro dalla memoria, finivo per
dimenticarmelo. Diventava quasi uno scioglilingua, di cui mi liberavo
mandando tutti al diavolo e quindi finendo con l’essere meno buono.
All’epoca
non si era ricchi come adesso, diciamo pure che si era poveri, perché
il famoso boom economico non era nemmeno nelle previsioni e c’era
il lungo e faticoso lavoro di ricostruzione di un’Italia distrutta
dalla guerra. Non si mangiava tanto, anzi ci si nutriva poco, fatta
eccezione per il Natale. Allora si grattava il fondo del barile, cioè
dei pochi risparmi, e nelle case era tutto un preparare i tortelli di
zucca, gli agnolini, il brodo con il cappone, ingredienti per una
mangiata pantagruelica. Se la vigilia si cenava di magro, cioè più
o meno la cena di tutti i giorni (e c’era chi la saltava, potendosi
permettere solo il pranzo), il giorno di Natale le tavole
traboccavano, ma prima c’era un’incombenza a cui non era
possibile mancare: la Santa Messa. Quel giorno in chiesa c’erano
tutti, dalle assidue beghine che già erano state presenti a quella
della mattina presto, ai compagni che, nell’occasione, si
toglievano il fazzoletto rosso e si vestivano da borghesi, dai
baciapile inveterati agli atei, che in un sussulto di dubbio dovevano
aver pensato che in fondo una messa non era un peccato.
Quindi
un pienone completo, un’adunata oceanica di mussoliniana memoria,
pochi quelli che riuscivano a trovare una panca o una sedia, tanti e
pigiati quelli che restavano in piedi. Nell’occasione le famiglie
danarose sfoggiavano un abito nuovo o addirittura, caso raro, ma
capitava, una pelliccia, e allora entravano per ultime percorrendo il
corridoio centrale come in una sfilata di moda, mettendo in mostra la
nuova collana, o gli orecchini appena ricevuti in dono. Lentamente,
come in processione, si avvicinavano all’altare e subito dai primi
banchi si alzavano quelli che li avevano occupati fin dalla prima
messa e che avevano tenuto il posto per i “signori” in cambio di
cento o duecento lire.
Ora
la Messa poteva cominciare, ma in tutto quell’assembramento, che
pareva denotare una fervida religiosità, non pochi pensavano a ben
altro e io li vedevo dall’altare, dove da buon chierichetto aiutavo
il sacerdote nella funzione. Non era ignoto il fatto che la signora
Egle, consorte del ricco cavalier Lisandri, soprannominato il cappone
per via – così si diceva – di una innata incapacità a
congiungersi con la moglie, si consolasse in altro modo; non era né
giovane, né bella, però pagava e guarda caso se ne stava a
contrattare con Il camaleonte, al secolo Gerolamo Corbezzi,
giovanotto di bell’aspetto, ma senza arte né parte, però capace
di mimetizzarsi perfettamente quando suo padre lo cercava per fargli
fare qualche lavoro. Non capivo cosa si dicessero, perché parlavano
anche piano, ma una cosa era certa: l’affare andava puntualmente in
porto e il più soddisfatto sembrava il marito, che con un aria beata
e da bue fissava l’altare. E che dire dell’Ornella Galavotti,
ragazza all’apparenza insospettabile, ma sempre alla ricerca di un
nuovo uomo; mio papà diceva che era una ninfomane, ma non capivo
cosa significasse. Più in fondo, vicino alla porta, pronto a
scappare, c’era “mano morta”, l’ufficiale di posta così
chiamato perché attratto irresistibilmente dal corposo deretano di
qualche signora. Non c’era una Messa di Natale in cui non si udisse
il suono sonoro di uno schiaffo e non si notasse subito dopo che lui
guadagnava in fretta l’uscita. Una volta gli andò male e in
quell’occasione perse il vizietto, perché anziché lo schiaffo, si
prese una gragnuola di pugni dal marito della signora oggetto delle
sue attenzioni; in seguito chiese il trasferimento all’ufficio di
un altro paese e fece bene, perché già in giro correvano voci di
una denuncia nei suoi confronti. Insomma, fra queste amenità, la
Messa arrivava alla fine e allora si spalancava la porta e la gente
cominciava a defluire, ma non andava subito a casa, si fermava sul
sagrato a chiacchierare un po’. Era il momento delle maldicenze in
cui eccellevano le beghine e i baciapile, veloci nel tirare il sasso,
nascondendo subito la mano. Ce n’era per tutti, compreso il prete e
mi chiedo ancor oggi se in confessione gli dicessero di questi loro
peccati, anche se ho i miei dubbi, vista la perniciosa riservatezza
con cui sparlavano: “Hai saputo?” E un ammiccamento verso una che
usciva di chiesa. “Che non si sappia in giro, fin per carità, ma
la figlia di Dolfini é incinta, e non è ancora sposata. Davvero? Ha
uno sguardo così pio, va sempre a testa bassa, ma é una puttana.
Del resto come il padre, che prima di sposarsi era sempre al casino,
quello a Mantova di Vicolo San Longino, con le puttane da quattro
soldi. “.
E
cosi via fino all’ora di pranzo, quando le vie del paese
diventavano deserte.
Grandi
mangiate, fino quasi a scoppiare, una lenta digestione da
coccodrilli, con tanto di pennichella, ma alle 16 tutti al cinema,
beninteso quello parrocchiale, perché in paese non ce n’erano
altri.
Ricordo
i titoli natalizi: Biancaneve e i sette nani, I dieci comandamenti,
insomma pellicole adatte a tutti, ma ciò nonostante l’inesplicabile
censura della San Paolo, che noleggiava i film, qualche taglietto lo
praticava, magari a una scena con un innocente bacio e allora in
sala, dato che per un attimo si interrompeva la sequenza, si udivano
i mugugni e spesso e volentieri le bestemmie. In un ambiente non
ampio, anche se c’erano platea e galleria, al buio, nel fumo delle
sigarette, l’ufficiale di posta si ripeteva e la cosa strana era
che se la vittima faceva finta di niente lui si stancava, ma il più
delle volte volava un altro schiaffo, accompagnato questa volta da un
coro di invettive (porco maiale) che lo seguivano nel corso della sua
precipitosa fuga. Al cinema non c’era mai la signora Egle, con ogni
probabilità piacevolmente impegnata, ma giustificata dal marito, che
chiamava sempre in causa una improvvisa emicrania che le aveva
impedito di uscire.
Le
pellicole preferite erano quelle di maggior durata, come appunto I
Dieci Comandamenti, perché assicuravano il modo per tirare a sera.
Si usciva un po’ indolenziti, per le troppe ore seduti, e ci si
sgranchiva un po’ nel tragitto verso casa. Una volta arrivati, il
tempo era breve per giungere all’ora di cena, con gli avanzi del
pranzo, non pochi, anzi tanti, ma la fame era scemata e si finiva con
il mangiare più con gli occhi che con la bocca. Due chiacchiere,
giusto il tempo per arrivare all’ora di andare a letto e infine un
po’ di riposo fra le lenzuola. Prima di addormentarmi mi passavano
davanti agli occhi le immagini della giornata trascorsa: il pranzo,
con tanto di dolce, il film e sulla scena di Mosè che fa spalancare
le acque al mar Rosso mi si chiudevano le palpebre. Ma non le
orecchie: dalla strada saliva il canto sguaiato di qualche ubriacone,
parole incomprensibili come quelle che possono uscire da una bocca
impastata e da un cervello annebbiato. E con questo concerto stonato
terminava il giorno di Natale.
La
notte di Natale
di
Angela Fabbri
C’era
una stella in cielo che per molti giorni e molte notti aveva
viaggiato.
Ma
adesso i pastori che ne avevano seguito il cammino, con
un’inspiegabile ansia di pace nel cuore, la vedevano ferma. A
illuminare tutta la collina lassù, la vedi?
I
pastori salirono fra i sassi e le mamme pecore seguivano con gli
ultimi nati, talmente appena nati, che dopo un po’ ogni pastore si
trovò in collo un agnellino, così che si facevano caldo in due,
perché la notte era molto molto fresca.
Un
piccolo vocìo arrivò a loro nella notte tutta illuminata e spinse
tutti pecore e pastori, a correre a vedere.
Era
nato un altro piccolino e noi tutti sappiamo che l’avrebbero
chiamato Gesù e sappiamo anche tutto il grande seguito della sua
storia. Ma in quel momento era solo un cucciolo ancora bagnato di
rugiada.
Le
pecore, mamme già da molte volte, accorsero e lavarono il cucciolo
Gesù da capo a piedi, rivolgendo poi la loro attenzione alla madre,
una Signora di nome Maria che era tanto tanto stanca, adesso che la
nascita si era compiuta.
La
guardarono e comunicarono con il pensiero. “Questo è solo
l’inizio. Aspetta che si metta sulle zampe e vedrai quel è la vera
fatica. Ti diciamo questo perché ci siamo già passate. Sarà gioia
e apprensione tutto il tempo. Ma è proprio questo tempo, che vale la
pena di vivere”.
E
Maria si addormentò serena col suo bimbo fra le braccia.
Le
pecore del Natale
di
Angela Fabbri
Le
pecore, quiete, scendevano adesso giù dai monti e qualcuna ogni
tanto si girava ancora cercando nel buio dei boschi lassù le ombre
nere che le avevano cacciate via e rotolate giù per i dirupi.
Il
pastore… Dov’era il pastore, loro compagno e guida?
La
pecora anziana, la vecchia madre, portava avanti adesso la compagnia
delle pecore. Fra gli sterpi e nel buio.
“ Sopravviveremo?
Dobbiamo arrivare in valle. Allora il cielo brillerà di nuovo, sul
vecchio torrente. Questa è la strada che conosco. L’ho percorsa
per anni.
Ma
senza un Pastore, noi, poi, cosa faremo? Cosa faremo di noi? “
Rispose
la luce delle stelle, la voce del torrente, il profumo dell’erba
bagnata.
Così
le Pecore del Natale scesero al piano, dove trovarono altre pecore,
tante altre pecore, innumerevoli altre pecore, ciascun gruppo con il
suo pastore.
Si
mescolarono a loro, attratte dal calore, dall’affettività, dalla
consuetudine. Ma poi… una a una si ritrovarono di nuovo insieme e
una fila di pecore si delineò fra le altre.
<<
Ma dove andate? Perché non restate con noi? >>
“Cerchiamo
un pastore” rispondeva ora all’una ora all’altra la pecora
anziana “Non abbiamo un pastore”
<<
Sono pecore senza pastore? >>
<<
Ma non si è mai sentito! >>
<<
Oh poverette! >>
Intanto,
le pecore senza pastore, uscivano dalla massa di greggi e
s’inerpicavano su una collina, morbida questa, ben lontana dagli
sterpi e dai dirupi che avevano attraversato.
E
lì si accovacciarono e si addormentarono, ignare che intanto il loro
nuovo Pastore era arrivato.
Piccoli
discoli nel Natale del ‘46
di Stefano
Giannini
La
guerra era finita da circa due anni. Eravamo una quinta classe
elementare, composta di diciotto ragazzetti (dieci maschi e otto
femmine). Avevamo ancora negli occhi e nella testa le brutte
impressioni del passaggio del fronte.
Avevamo
visto bruciare Sarsina e a Sorbano fucilare per rappresaglia dieci
civili, abbattere i ponti di ferro sul fiume Savio. Avevamo visto,
sempre i soldati tedeschi, portare la confusione, la disperazione, i
lutti e tanto dolore fra la gente tranquilla dei nostri greppi. Lo
chiamavano “rastrellamento” : portavano via, con prepotenza,
dalle stalle, gli animali , i bovini, le pecore, i maiali.
Sparavano con la pistola alle galline. Un giorno vidi dei soldati
che, dopo aver ucciso in quel modo una gallina, la misero a cuocere
in un pentolone pieno di latte. Spesso assieme agli animali,
prelevavano anche i contadini e li portavano in Germania.
Avevamo
visto, per la prima volta, gli uomini neri, i polacchi. gli indiani,
e gli americani ; questi ultimi per noi ragazzi, avevano sempre
pronto un pezzo di cioccolato da darci. Ci dicevano :
“Beby, boys piace
cioccolata OK ?”
Oramai
tutto questo era passato. Noi ragazzetti eravamo ritornati allegri e
spensierati come prima.
Non
c’era più da spaventarsi per le cannonate. Non c’era più da
correre, impauriti, nei rifugi.
Avevo
undici anni. Nella mia classe c’era anche Renzo, lui di anni ne
aveva tredici, perché, essendo un bel zuccone, era stato bocciato
ben tre volte.
Il
nostro maestro era un gran buon uomo, come un padre per noi. Abitava
a Serra di Tornano e veniva ad insegnare a Sorbano a piedi. Il
percorso di andata e ritorno era di 33 Km..
Renzo,
che era il capo banda dei ragazzi più discoli e indisciplinati, era
stato messo nell’ultimo banco. Tutti i giorni ne combinava una
delle sue. Invece di fare il tema, inventava i più strani scherzi
che, particolarmente, faceva alle femminucce e, alle volte, anche al
maestro. Gli attaccava dei cartellini alla giacca, metteva le pulci o
la colla nella sedia della cattedra.
Noi
ragazzetti più piccoli e timidi eravamo sempre sorpresi e
meravigliati del suo coraggio e della sua faccia tosta. Per noi era
il re dei monelli, da ammirare e imitare.
Per
divertire gli altri, alle volte sfotteva e prendeva in giro anche me.
Spesso
il maestro lo espelleva dall’aula anche per un’ora. Ritornava poi
con una bacchetta di vimini o di salice, tutta lavorata : incisa
col bellissimo coltello con la lama grande, lucida e affilata che
portava sempre con sé in tasca legato con una catenina alla cintura.
Ne avevo uno anch’io, ma molto più piccolo : un temperino.
Ogni
volta, quella bella bacchetta, il maestro, gliela rompeva addosso a
furia di sferzate, per punirlo di tutti gli scherzi e birichinate che
combinava durante le lezioni.
Ma
lui restava impassibile e muto, senza un lamento, sembrava che non
accusasse nessun dolore.. Non piangeva mai. Sopportava tutte quelle
sferzate sorridendo e il giorno seguente riprendeva i suoi scherzi,
imperterrito, come nulla fosse successo.
Così,
quasi ogni giorno, si ripeteva la stessa storia. Quel povero maestro
era quasi alla disperazione, non sapeva più cosa fare per
“addomesticarlo”. Oggi si direbbe essere “un ragazzo
difficile”.
Malgrado
tutto, Renzo non era cattivo, anzi era molto generoso. Nella sua
borsa di cartone, tutti i giorni, portava una pagnotta di pane e un
mezzo formaggio di pecora che offriva un po’ a tutti.
Avevamo
tanta fame…. In casa nostra le fette di pane e di formaggio erano
razionate. Per acquistare i generi di prima necessità occorreva la
tessera annonaria rilasciata dal Comune che stabiliva i quantitativi
in proporzione al numero dei componenti la famiglia.
Renzo,
invece, ne aveva in abbondanza, non perché i suoi genitori fossero
ricchi, ma perché avevano il mulino ad acqua giù nel fiume Savio.
Per ogni sacco di grano che macinavano avevano diritto, per legge, di
prelevare quattro chili di farina.
Questo
episodio, avvenuto poco prima delle vacanze di Natale, è forse il
più emblematico per dimostrare la tempra di quei “discoli”
postbellici. Tutta la classe sapeva che Renzo, nella borsa, insieme
al pane e ai libri, portava anche una bella pistola funzionante,
alquanto rudimentale, costruita da lui stesso mettendo insieme pezzi
di pistole trovati in giro o dimenticate dai soldati quando, durante
la guerra, si erano fermati a casa sua.
Con
il suo coltello aveva sagomato e intarsiato un bellissimo calcio di
legno, come solo lui sapeva fare ma, non avendo le pallottole, la
caricava con la polvere e i pallini che rubava a suo padre,
cacciatore, il quale possedeva un vecchio fucile ad avancarica a
doppia canna.
Dopo
la scuola, per la strada o dietro dei ruderi, sparava a dei barattoli
quali bersagli e, mentre le femminucce fuggivano via impaurite, noi
maschietti seguivamo i giochi pericolosi di Renzo, incuriositi e
divertiti, incoscienti dei pericoli che correvamo per eventuali
incidenti.
Quel
mercoledì, una settimana esatta prima di Natale, all’uscita di
scuola, stufo di essere preso in giro da Renzo, che spesso cantava
questa zirundela : “Stavanin
stasiv a cà, magna la pastasuta e’baccalà, e baccalà sla
pastasuta, t’è una testa cum’è una zùcca” !
Approfittando di una sua distrazione, gli presi la borsa e, correndo
verso casa, la gettai in un boschetto di rovi. Seppi poi che la
ritrovò dopo due ore di affannose ricerche.
Il
giorno seguente, mentre tornavamo da scuola, lungo la strada
Nazionale N°71, proprio nel luogo dove due anni prima i tedeschi,
per rappresaglia, avevano fucilato dieci persone di Sarsina, qualcuno
dei suoi fedeli gregari disse a Renzo che a nascondergli la borsa ero
stato io.
Mi
corse dietro e in breve mi arrivò ; prendendomi per il
grembiule mi disse con calma: “Stefanino
caro adesso
te la farò pagare
cara”,
e mentre, con le mani mi coprivo il capo, aspettandomi delle gran
botte, mi strappò la borsa dalle mani, la mise sopra un paracarro e
tirata fuori la pistola, da tre quattro metri di distanza, prese la
mira e sparò un colpo. L’aveva caricata con dei chiodini da
calzolaio che, sfondarono la borsa, trapassarono i libri e quaderni
che conteneva, mentre io venivo trattenuto con la forza da
tre/quattro ragazzetti della sua banda.
Piangendo,
con la mia borsa sforacchiata, e con i libri e quaderni ridotti un
colabrodo, corsi a casa.
A
mio padre dissi che era stato Renzo e che io non l’avevo provocato.
Non mi credette !
“Qualche
motivo glielo avrai dato di sicuro, altrimenti non ti avrebbe fatto
questo”
mi
disse. Insistette tanto che alla fine dovetti raccontargli tutta la
storia. Mi fece una bella paternale, dicendomi fra l’altro di non
tentare di vendicarmi perché: “la
vendetta non paga mai !”
Il tutto condito con un paio di ceffoni ben appioppati.
Il
sabato 21, ultimo giorno di scuola, anch’io avevo una pistola,
trovata per puro caso. Avevo notato la Mariuccia, madre di Bramo, un
ragazzo di sedici anni, che sgridandolo gliel’aveva presa e
scaraventata nella rupe di Sorbano. Con molte difficoltà e rischio
di cadere nel sottostante fiume, l’andai a prendere e la ripulii
bene. Era una pistola americana a tamburo, in ottimo stato.
Nel
tamburo vi erano 8 pallottole, integre .
La
provai sparando ad un gatto....Il malcapitato scappò via miagolando,
l’avevo ferito alla schiena.
Con
la mia arma nella borsa e la vendetta nella testa andai a scuola.
Anche quel mattino Renzo, per farmi arrabbiare, iniziò a sfottermi
col solito ritornello. Può darsi che fosse geloso perché ero ben
voluto dal maestro, avevo una buona condotta ed ero molto bravo in
matematica, mentre lui molto scarso in tutto.
Renzo
fece girare sottobanco alcuni bigliettini dove aveva scritto una
filastrocca piena di sfottò e di parolacce nei miei confronti.
Quelle
ragazzine ridevano ed io, umiliato, e impotente, mi vergognavo e
tacevo.
Anche
la Mimma che era mora e bellina, (mi piaceva tanto ; diventavo rosso
solo a guardarla), dopo aver letto il biglietto, si girò
ridacchiando.
Quando,
verso le ore tredici, uscimmo da scuola, corsi via avanti a tutti,
pieno di rancore nei confronti di Renzo e propositi di vendetta nel
cuore.
Giunto
in località “ La Fontanaccia” mi nascosi dietro una spessa siepe
di sambuco che costeggiava la strada per il mulino, da cui doveva
passare Renzo per andare a casa.
Estrassi
dalla borsa la pistola caricata, alzai il percussore e col cuore in
tumulto, restati in attesa del suo arrivo.
Poco
dopo lo vidi apparire; con la sua borsa in una mano avanzava a passo
lesto verso di me, fischiettando. Nello stesso tempo, per fatalità,
dalla parte opposta della strada, cioè dal mulino, veniva a piedi,
Luigino, figlio di Geo, un ragazzo di 16 anni, il quale con una
sporta in mano portava da mangiare a suo padre che lavorava col
cantoniere alla strada nazionale.
Dal
mio nascondiglio non era visibile. Intanto continuavo a seguire
l’avanzare di Renzo e quando fu a circa 6/7 metri dalla siepe, con
le mani tremanti, puntai la pistola verso la sua borsa nel medesimo
istante che egli incrociava Luigino (che non avevo visto), chiusi gli
occhi e tirai il grilletto... Centrai in pieno, non la borsa di Renzo
e neanche la sua testa per fortuna, ma la sporta di Luigino, mandando
in frantumi tutto il contenuto : la bottiglia del vino, la
gavetta con la minestra e tutto il resto.
Corsi
subito come una lepre verso casa, su per il sentiero che conduce alla
Cassandra ma, mentre Renzo, alquanto impaurito, proseguì verso casa,
Luigino, passato il primo spavento, con quattro salti mi arrivò. Era
robusto e molto più alto di me. Mi dette un sacco di botte “da
olio santo” : pugni e calci in faccia e in tutto il corpo.
Dal
naso e dalle gengive iniziò a colare il sangue come da una fontana.
Bene
o male arrivai a casa ridotto ad una maschera di sangue.
Mia
madre, poveretta, appena mi vide in quello stato, iniziò ad urlare
dallo spavento.
Non
venni certamente coccolato, come succederebbe ora, anzi fui
severamente punito. Per una settimana, tutte le sere, dovetti andare
a letto senza cena. (In tal modo si risparmiava anche nei viveri).
Oltre alla ramanzina e all’assaggio della cintura di mio padre che,
ricordo, lasciava delle righe rosse e brucianti sul sedere e sulle
gambe nude, ebbi anche un’altra paternale dal mio Parroco proprio
il giorno di quel lontano Natale del ’46 .
Fu
così che, l’anno seguente, i miei genitori, in accordo col Prete,
mi mandarono in collegio a Ronzano, sopra Bologna, di fronte al
Santuario di San Luca.
n.d.
oggi
dicono che la violenza, i bambini, l’apprendono dalla
televisione... ; sarà anche vero, ma nel ’46 ancora non
c’era....e noi ragazzetti, purtroppo, l‘imparammo alla scuola
della guerra vera !
Un
Natale davvero speciale
di
Danila Oppio
OGGI:
Alina
si trova sola a dover accudire a tre bambine, le sue figlie di
cinque, tre e un anno. Accadde quello che succede sempre più spesso.
IERI
Suo
marito Adan partì dall’Albania verso l’Italia, in cerca di
lavoro, trovandolo presso un’impresa edile. Dopo qualche tempo, si
fece raggiungere da sua moglie con le figlie Adana e Argjela e,
baraccati in una fabbrica in disuso, si arrangiarono come poterono,
in quegli stanzoni nei quali altri disperati condividevano gli stessi
spazi. Non vi era riscaldamento, né acqua potabile, né luce. Sempre
meglio che dormire all’addiaccio. La paga di Adan non copriva che
una parte di quanto occorreva per la sopravvivenza della sua
famigliola, così la lui e i suoi cari ottennero un pasto caldo
presso la mensa della Caritas, oltre ad indumenti e coperte. Per
quattro bocche da sfamare, non bastava. Inoltre era in arrivo la
terza figlia. Adan lavorava soprattutto in estate, quando i cantieri
erano in piena attività, ma un malaugurato giorno, qualcosa non andò
per il verso giusto. Il ponteggio sul quale Adan era salito, crollò.
Per l’albanese non ci fu scampo.
Arrivò
l’inverno, nacque Alena e in quel capannone dismesso, il freddo era
insopportabile e ogni sorta di malattie in agguato. Un’anima buona
mise a disposizione due locali modestamente arredati. Le piccole
furono accolte al nido e scuola per l’infanzia, così durante il
giorno la mamma poteva lavorare come colf. Ma la sera, quando Alina
rientrava in casa con le figlie, la solitudine e il dolore
l’assalivano con prepotenza. L’assistente sociale s’impegnò
come poteva, ma nessuno dona mai il cuore per intero.
OGGI:
Natale
è alle porte, bussa a quelle di tutti come all’uscio di Gemma. Lei
sta pensando ai regali, agli addobbi, al pranzo speciale, come tutte
le madri di famiglia. Da anni è persuasa che il Natale abbia perso
la sua vera configurazione. Oramai è solo una sarabanda di gesti
inutili. Gemma ebbe un’idea che spera condivisa dalla famiglia.
Il
giorno è giunto, tutto è pronto. La tavola imbandita di ogni ben di
Dio. Sotto l’albero, una quantità di pacchetti luccicanti. Creata
l’atmosfera, mancano solo gli ospiti. Gemma sale in auto e percorre
qualche chilometro. Suona al campanello, e un vociare di bimbi giunge
alla porta.
-
Ciao Alina, scusami tanto, ma ho bisogno di te.
-
Oggi è Natale, signora Gemma, devo lavorare anche in questo giorno?
-
Forse…
-
Ma…e le bambine?
-
Portale con te, chiudi l’uscio e andiamo.
Arrivata
a casa, Gemma apre la porta e…sorpresa! Tutti i presenti corrono
incontro ad Alina e alle piccole, che coccolano subito. La giovane
albanese rimane impettita poi chiede:
-
Da dove devo cominciare?
-
Coll’andare in bagno a lavare le manine alle bimbe e poi…a tavola!
Le
bambine non avevano mai visto un albero di Natale e neppure il
presepe. Mille domande, tante risposte.
Finito
il pranzo, e consumato il dessert, una vera novità per le bambine,
Gemma dice alle piccole:
-
Andate sotto l’abete, quei pacchetti sono per voi.
-
Ma, signora Gemma – interviene Alina – quali?
-
I regali sotto l’albero di Natale sono TUTTI per voi.
Gemma
era certa che Adana, Argjela e Alena non avessero mai avuto
giocattoli, inadeguati alle possibilità economiche della mamma, e
neppure avessero mai indossato un abitino nuovo, ma solo quelli
usati, che ricevevano dalla Caritas. Non mancava neppure una busta,
contenente del denaro, per Alina.
-
E a voi nulla?
-
Il nostro regalo l’abbiamo già ricevuto. Siete voi il nostro dono speciale! E’ leggere la felicità negli occhi delle tue bambine! Credimi, Alina, è il Natale più bello che abbiamo trascorso da anni. E tutto per merito tuo.
Lo
spirito del Natale non si riveste di luci splendenti, di festoni
luccicanti, e non si nutre di cibi opulenti. Il suo significato più
profondo è racchiuso in una sola parola: AMORE.
Grazie, Renzo, tutti molto significativi i racconti di Natale, ma in particolare mi ha colpito il tuo perché mi ha fatto ricordare i "raduni oceanici" dei "nostri" tempi: - il giorno di Natale le tavole traboccavano, ma prima c’era un’incombenza a cui non era possibile mancare: la Santa Messa. Quel giorno in chiesa c’erano tutti, dalle assidue beghine che già erano state presenti a quella della mattina presto, ai compagni che, nell’occasione, si toglievano il fazzoletto rosso e si vestivano da borghesi, dai baciapile inveterati agli atei, che in un sussulto di dubbio dovevano aver pensato che in fondo una messa non era un peccato."
RispondiEliminaCambiano i tempi ma non tutto è perduto, anche oggi c'è chi cerca la spiritualità nella "Messa che non è un peccato"!
Buone festività
Gio
Tutti diversi e tutti speciali questi racconti, e ognuno di loro narra pezzi di vita, della nostra vita.
RispondiEliminaGrazie.
Piera