Allah,
san Gennaro e i tre kamikaze –
Pino Imperatore – Mondadori – Pagg. 215 – ISBN 9788804707479 –
Euro 11,50
Ce
vulesse ‘na bomba
Non
è facile, di per sé, affrontare un argomento serio, drammatico e
complesso come quello del terrorismo. Impresa a dir poco ardua, poi,
se s'intende trattarlo in modo leggero e addirittura ironico! Eppure,
Pino Imperatore, autore campano dedito notoriamente alla scrittura
umoristica, c'è riuscito alla perfezione e la sua verve creativa ha
dato alla luce un romanzo a mio avviso strepitoso!
Ed eccoli gli aspiranti kamikaze evocati fin dal titolo: i siriani Salim e Feisal e l'irachena Amira, tre giovani vite indottrinate e addestrate a puntino nei campi del feroce califfato islamico, incattivite e senza prevedibili ripensamenti sul proprio futuro martirio. Obiettivo da colpire: Napoli, città dannata e viziosa dell'odiato Occidente infedele. I tre vi giungono come turisti qualsiasi, ignari però di quel che essa ha in serbo per loro durante le successive settimane di sopralluoghi mirati a individuare i singoli bersagli dove operare le stragi. Già, perché sarà Napoli, con la sua umanità molto variegata, le sue profonde contraddizioni, infiniti vizi e virtù, senza naturalmente dimenticare l'immancabile san Gennaro, ad avere a poco a poco la meglio sul terroristico terzetto, regalando al lettore una miriade di quadretti esilaranti.
Azzeccatissimi i tre protagonisti (seppure, in verità, spesso si rivelino estremisti musulmani poco credibili), così come sono perfetti tutti gli altri personaggi che s'incontrano nel corso della narrazione, dalla procace signora Rosa al logorroico Arturo 'o Filosofo, dal pacifista professor De Bottis all'economico e commerciale venditore Cammarota Leopoldo; oltre agli uomini, persino le bestie, cui sembra mancare soltanto la parola, diventano memorabili in questo libro: il simpaticissimo gatto Mustafà, l'agguerrito esercito di blatte che alberga nelle case e, dulcis in fundo, 'o Pizzicatore, il temuto gabbiano reale che finisce per incutere molto più terrore di qualunque possibile kamikaze... Il tutto sullo sfondo di una città, quella partenopea, che, così come risulta nella realtà, è caotica e affascinante, nobile e plebea, generosa, ricca di storia e cultura, brutalmente svilita dalla criminalità organizzata; una Napoli ritratta con amore dai vicoli più reconditi alle piazze più famose, la quale avrebbe senz'altro meritato dalla Storia miglior sorte. Dunque, un grande plauso all'autore che, al di là dell'originalità della trama, non si può non apprezzare anche per l'ottima scrittura, una prosa perfetta, priva di quelle sbavature linguistiche a cui oggi sembra che ci si stia purtroppo assuefacendo, nella quale si intrecciano sapientemente parlata popolare e linguaggio più forbito.
Una lettura divertente che, tuttavia, suscita importanti riflessioni. Un epilogo “esplosivo” e in parte inaspettato. Un libro che, secondo l'auspicio dello stesso Imperatore, può essere considerato a pieno titolo un romanzo di pace, contro l'insensatezza di qualsiasi violenza
Ed eccoli gli aspiranti kamikaze evocati fin dal titolo: i siriani Salim e Feisal e l'irachena Amira, tre giovani vite indottrinate e addestrate a puntino nei campi del feroce califfato islamico, incattivite e senza prevedibili ripensamenti sul proprio futuro martirio. Obiettivo da colpire: Napoli, città dannata e viziosa dell'odiato Occidente infedele. I tre vi giungono come turisti qualsiasi, ignari però di quel che essa ha in serbo per loro durante le successive settimane di sopralluoghi mirati a individuare i singoli bersagli dove operare le stragi. Già, perché sarà Napoli, con la sua umanità molto variegata, le sue profonde contraddizioni, infiniti vizi e virtù, senza naturalmente dimenticare l'immancabile san Gennaro, ad avere a poco a poco la meglio sul terroristico terzetto, regalando al lettore una miriade di quadretti esilaranti.
Azzeccatissimi i tre protagonisti (seppure, in verità, spesso si rivelino estremisti musulmani poco credibili), così come sono perfetti tutti gli altri personaggi che s'incontrano nel corso della narrazione, dalla procace signora Rosa al logorroico Arturo 'o Filosofo, dal pacifista professor De Bottis all'economico e commerciale venditore Cammarota Leopoldo; oltre agli uomini, persino le bestie, cui sembra mancare soltanto la parola, diventano memorabili in questo libro: il simpaticissimo gatto Mustafà, l'agguerrito esercito di blatte che alberga nelle case e, dulcis in fundo, 'o Pizzicatore, il temuto gabbiano reale che finisce per incutere molto più terrore di qualunque possibile kamikaze... Il tutto sullo sfondo di una città, quella partenopea, che, così come risulta nella realtà, è caotica e affascinante, nobile e plebea, generosa, ricca di storia e cultura, brutalmente svilita dalla criminalità organizzata; una Napoli ritratta con amore dai vicoli più reconditi alle piazze più famose, la quale avrebbe senz'altro meritato dalla Storia miglior sorte. Dunque, un grande plauso all'autore che, al di là dell'originalità della trama, non si può non apprezzare anche per l'ottima scrittura, una prosa perfetta, priva di quelle sbavature linguistiche a cui oggi sembra che ci si stia purtroppo assuefacendo, nella quale si intrecciano sapientemente parlata popolare e linguaggio più forbito.
Una lettura divertente che, tuttavia, suscita importanti riflessioni. Un epilogo “esplosivo” e in parte inaspettato. Un libro che, secondo l'auspicio dello stesso Imperatore, può essere considerato a pieno titolo un romanzo di pace, contro l'insensatezza di qualsiasi violenza
Laura
Vargiu
Cristo
si è fermato a Eboli –
Carlo Levi – Newton Compton – Pagg. 236 – ISBN 9788854120129 –
Euro 10,50
Anche
gli dei dimoravano in alto…
L’opera
nacque materialmente da un atto di scrittura che si colloca fra il
Natale del 1943 e la fine di luglio del ’44 quando l’autore
viveva clandestino a Firenze , nel momento più drammatico della
guerra, e sentiva più accesa la comunanza emotiva con l’esperienza
del confino in Lucania che lo aveva costretto a isolamento e presunta
solitudine fra il 1935 e il 1936. Lo scritto in realtà si colloca
nel solco delle esperienze precedenti dello scrittore: la nascita da
famiglia borghese ebrea, i natali torinesi, la laurea in medicina,
l’esordio artistico in qualità di pittore, la militanza politica
antifascista convogliata poi nel movimento “Giustizia e libertà”
ma già bisogno impellente fra i banchi del liceo e per finire
l’esperienza reiterata del carcere. Apparve dopo la Liberazione ,
nel 1945, ma fu preceduto nel ’39 dallo scritto “Paura della
libertà”, l’opera più importante dello scrittore, custode del
suo pensiero, pubblicata solo nel ’46 e fortemente osteggiata dalla
cultura militante dell’epoca. Fu preceduta anche dalla espressione
pittorica rintracciabile nei numerosi quadri che Levi dipinse in
Lucania, primo fermo immagine delle forti impressioni che la realtà
contadina, a lui fino ad allora sconosciuta, impresse nel suo
universo culturale da principio attraverso gli occhi per andare a
depositarsi poi nel cuore, residenza eletta dell’universo emotivo.
Il libro che scrisse nacque dunque da questo substrato,
dall’esperienza diretta, dalla necessità di dare voce a una realtà
prima che dimenticata, sconosciuta. La Lucania, una terra estranea e
straniera in patria, sentita da principio dall’autore come lontana
e incomprensibile quanto inaccessibili gli risultano i due paesi nei
quali è costretto a dimora: Stigliano e Gagliano (Aliano, in
realtà). Una terra ostile che si arrocca raggiungendo picchi
dimenticati da Dio dove l’uomo vive in misere case circondate da
calanchi. Un paesaggio aspro, suggestivo e variegato come l’umanità
che lo popola. Una terra che lo accoglie e che lui impara a
conoscere, apprezzare e amare.
È un’opera ibrida, né romanzo, né saggio, né memoriale; parte certo dal racconto di un’esperienza personale ma si colloca fra poesia, documento, saggio etnografico, racconto, pamphlet politico. La posizione di Levi è ben chiara: questo mondo arcaico e ancestrale è stato capace di preservare “il senso umano di un comune destino” perché si fonda su una “fraternità passiva”, su un “patire insieme”, su una “secolare pazienza”, l’immergersi in esso determina arricchimento umano e ulteriore allontanamento dalla barbarie del presente. Da leggere in ogni epoca.
È un’opera ibrida, né romanzo, né saggio, né memoriale; parte certo dal racconto di un’esperienza personale ma si colloca fra poesia, documento, saggio etnografico, racconto, pamphlet politico. La posizione di Levi è ben chiara: questo mondo arcaico e ancestrale è stato capace di preservare “il senso umano di un comune destino” perché si fonda su una “fraternità passiva”, su un “patire insieme”, su una “secolare pazienza”, l’immergersi in esso determina arricchimento umano e ulteriore allontanamento dalla barbarie del presente. Da leggere in ogni epoca.
Siti
Diario
sentimentale -
Vasco Pratolini - BUR Biblioteca Universale Rizzoli - Pagg. 253 -
ISBN 9788817057646 - Euro 8,90
Intensa
umanità
Ogni
volta che inizio a leggere un libro di Pratolini avverto, già dalle
prime righe, un fremito che, dapprima quasi impercettibile, poco a
poco satura il mio animo. Anche questi racconti, che riflettono in
buona parte la vita dell’autore, sono un concentrato di grande
umanità: un’infanzia segnata dal dolore per la perdita della
madre, un’adolescenza in cui si combatte per sopravvivere e infine
l’età adulta, caratterizzata dagli amori, ma anche dai dolori per
la perdita di chi si ama, e inoltre la malattia occasione per altri
dispiaceri, nonostante la guarigione.
Senza
trascendere, senza mai giungere a degli eccessi Vasco Pratolini ha
l’incredibile capacità di trasmettere al lettore l’immagine dei
suoi sentimenti, racconto dopo racconto, alcuni brevi, altri più
lunghi, ma tutti di grandissimo interesse. Che si parli del padre che
tornato dalla guerra e rimasto vedovo si risposa per un rapporto non
dei più felici, che si narri delle esperienze da scugnizzo o che si
dica dei nonni, le uniche relazioni familiari solide fino a quando
sono rimasti in vita, la scrittura di Pratolini è intrisa di un
lirismo che fa pensare a ispirazioni poetiche trasformate in prosa,
un risultato di eccezionale bellezza, con una capacità affabulatoria
che non fa mai cadere il ritmo del racconto, che accompagna il
lettore al mondo dell’autore, un mondo così lontano dal nostro in
cui pur tuttavia ci si immerge volentieri, perché accanto a povertà
e miserie umane ci sono dei sentimenti forti, quali l’amicizia e
anche l’amore, quest’ultimo travolgente, intenso nel desiderio
quanto aleatorio nel risultato. Sì, per quanto possa sembrar strano,
anche Pratolini non viene meno a certe caratteristiche del
romanticismo, pur inquadrate in un neorealismo che sembra stridere
con emozioni e sensazioni, ma che è il palcoscenico ideale per poter
intonare un grande canto di umanità.
Non
credo che ci sia bisogno di aggiungere altro, perché il bello,
quando è veramente tale, si commenta da solo.
Renzo
Montagnoli
Gente
di trincea. La
Grande Guerra sul Carso e sull’Isonzo -
Lucio Fabi - Ugo Mursia Editore -Pagg. 410 - ISBN 9788842544357
- Euro 18,00
Come
si viveva, come si moriva
Più
o meno tutti, sia per aver visto filmati d’epoca, sia per aver
letto romanzi come Niente
di nuovo sul fronte occidentale e Un
anno sull’altipiano,
abbiamo un’idea di cosa sia stata la Grande guerra, di quanto
misere e terribili fossero le condizioni dei soldati in trincea, di
come la morte fosse compagna fedele di chi combatteva, in ogni
momento, sia per il concreto pericolo di essere uccisi dal proiettile
di un cecchino o dall’esplosione di una bomba, sia per la visione
continua dei numerosi corpi insepolti e in putrefazione. Abbiamo
provato un senso di pietà, anche un certo ribrezzo nel leggere di
certi fatti, ma mai e poi mai avremmo potuto sapere come era la vita,
e anche la morte, sui campi di battaglia, sia per i militari che per
i civili, se non ci fosse stato questo libro di Lucio Fabi; così
possiamo sapere come vestivano i soldati, come erano addestrati, cosa
mangiavano, come potevano soddisfare le più semplici esigenze
corporali, come e dove riposavano, come avvenivano gli avvicendamenti
e i turni di riposo, il trattamento ai civili dagli occupanti, i
rapporti con i familiari a casa, insomma, e non voglio dilungarmi,
tutto e anche di più di quello che si desidererebbe conoscere. Si
tratta di un’opera che per completezza non ha eguali,
quattrocentodieci pagine fitte fitte che riescono a dare
concretamente l’immagine di chi, in divisa o in abiti borghesi, fu
coinvolto in quel grande conflitto, e non si parla solo di italiani,
ma anche di austriaci. Il fatto che riguardi gli opposti contendenti
è tanto più importante perché veniamo a conoscenza di
comportamenti simili, di una vita estremamente disagiata che ha
accomunato i nostri e i nemici, uguali perfino nel trattamento
riservato alle popolazioni occupate, sospettoso, inquisitore, non di
rado, purtroppo, anche feroce. Questo dimostra che indipendentemente
dalla nazionalità e dalla divisa il comportamento degli esseri
umani, pur nell’eccezionalità di un conflitto, è sostanzialmente
analogo. Entrambi combattono più per paura di essere uccisi che per
convinzione, sono capaci di di gesti di umana pietà come di
incredibili nefandezze, sono carnefici e vittime di una rigorosa e
fredda disciplina senza la quale probabilmente getterebbero le armi
alle ortiche. Non è un libro facile da leggere, anche perché a
volte può sembrare un po’ tedioso per effetto delle minuziose
descrizioni, ma arrivati alla fine si comprende senz’altro che cosa
sia stata veramente la Grande guerra, una mattanza che ha accomunato
nelle sofferenze e nell’orrore entrambi gli schieramenti. Fabi non
giudica, racconta senza enfasi e senza mai cadere nella retorica, è
uno storico serio che non fa altro che raccogliere i dati delle fonti
e confezionare un testo che credo possa essere preso a esempio per
completezza e serietà, una di quelle rare opere dove ciò che conta
sono i fatti, nella loro crudezza, nella loro asettica descrizione,
senza personali e rischiose interpretazioni.
Da
leggere, quindi.
Renzo
Montagnoli
Pietro
e Paolo –
Marcello Fois – Einaudi – Pagg. 160 – ISBN 9788806242862 –
Euro 17,50
Due
ragazzi del ‘99
È
in libreria dal tre settembre il nuovo romanzo di Marcello Fois,
scrittore prolifico che spesso ha fatto oggetto di narrazione la sua
terra, la Sardegna, immergendo il lettore in atmosfere e
ambientazioni pregne di storia, tradizioni, identità e che altre
volte ha scritto sperimentando nuovi moduli letterari e abbandonando
lo scenario noto della terra di appartenenza. “Pietro e Paolo”
sigla il ritorno alla Sardegna, questa volta quella dei primi anni
venti del Novecento, quelli immediatamente precedenti e di poco
successivi al primo conflitto mondiale. È proprio la guerra è il
fattore che determina il cambiamento del rapporto fra Pietro e Paolo,
fra il figlio del servo e il figlio del padrone: sono coetanei e a
dispetto della loro diversa estrazione sociale coltivano, crescendo
insieme, una bella amicizia. Pietro custodisce il sapere antico,
quello della terra, della conoscenza della flora e della fauna, Paolo
gode del privilegio di poter frequentare la scuola e accedere al
sapere, quello veicolato dalla scrittura, quello spesso snaturato
dalla mancata conoscenza della realtà per cui si crede a tutto ciò
che dice il maestro. I due bambini scambiano i loro saperi, li
barattano, li intrecciano abbeverandosi così di un sapere più
completo e traendone giovamento entrambi. Svelare oltre della trama
andrebbe a rovinare il piacere di una lettura che fa leva sulla
curiosità di capire a cosa allude la voce narrante, di sapere che
cosa è successo e quale sarà l’epilogo della vicenda. La
struttura stessa della narrazione, scandita da brevi capitoletti con
una numerazione a ritroso dal sedici allo zero, accompagna
velocemente il lettore alla fruizione dell’opera che ha il pregio
di far godere di una buona storia capace di far riflettere sul valore
dell’amicizia.
Siti
Storia
di Vera –
Danila Oppio – Ipazia Books – Pagg. 116 - ISBN 978-1720035701 –
Euro 16,12
Piccolo
mondo antico
Intima,
sofferta e carica di ricordi, la scrittura di Danila Oppio in questo
suo romanzo dal titolo “Storia di Vera” ripercorre la vita, in
particolare l'infanzia e l'adolescenza, della protagonista (alter ego
della stessa autrice) attraverso una scrittura accattivante e
coinvolgente che si distacca, a mio parere, da quella dei precedenti
lavori da lei pubblicati negli scorsi anni.
Sullo sfondo del Veneto del dopoguerra e della Milano degli anni del boom economico, si svolge la vicenda di Vera, figlia della povera provincia veneta che, ancor piccola, è costretta a lasciare insieme alla famiglia alla ricerca di migliori condizioni economiche e di cui, però, conserverà sempre nella memoria un affettuoso ricordo indelebile. Un rievocare, quello di Vera, che si tinge inevitabilmente di malinconia e, spesso, anche di tristezza.
Ed ecco, al cospetto delle stelle di una tersa sera invernale, riaffiorare gli anni della scuola, quando lei aveva dovuto faticare per passare dal dialetto alla lingua italiana, quando subiva lo scherno e l'ostracismo da parte delle compagne di classe a causa delle modeste condizioni familiari, quando il suo cuore di bambina s'era scontrato con i modi solitamente rudi e spicci di una madre avara di amore e comprensione nei confronti del suo stesso sangue. E proprio questa figura materna, ritratta in maniera efficacemente cruda, diviene a poco a poco centrale nel corso della narrazione, suscitando in chi legge moti di ribellione e, forse, condanne senz'appello. Ma il cuore di una figlia perdona incondizionatamente e, con il tempo, arriva a comprendere l'inettitudine di un genitore che, in fin dei conti, si è ritrovato quasi per caso a rivestire quel ruolo senza grande consapevolezza.
“[...] La mamma doveva essere sempre al centro del mondo. Suo malgrado Vera si trovava costretta ad ammetterlo, sebbene non sia piacevole per nessuno accorgersi di avere una madre egoista, egocentrica, ingrata. Una madre che non aveva mai saputo dire la parola “grazie” a qualcuno, incapace di ammettere i propri errori. Sono pensieri che coltivava con animo sereno, rassegnato, senza astio. [...]”
Anche altri affetti ruotano attorno alla vita della protagonista, tra cui il padre, venuto a mancare troppo presto, la cui scomparsa, come s'intuisce, resterà una ferita aperta nel cuore di Vera.
Pubblicato lo scorso anno dalle Edizioni Ipazia Books, il libro offre una scorrevole lettura imperniata su frequenti flash-back e salti temporanei che, in particolare nei ricordi della campagna dell'infanzia, rimandano a un “piccolo mondo antico” che ormai non esiste più e sul quale la Oppio ha voluto porre l'accento, non senza una certa dose di nostalgia, come quando vengono rievocati i periodi di vacanza trascorsi a casa dei nonni e le conseguenti vecchie storie di famiglia, prima fra tutte quella del nonno emigrato in America e assunto come minatore nelle miniere dell'Illinois. Pagine a tratti molto intense che parlano di sentimenti, rimpianto e tanta solitudine, mettendo infine a fuoco una figura femminile che “non è cresciuta, è solo invecchiata” durante un'esistenza piena di amarezze e dolori.
Sullo sfondo del Veneto del dopoguerra e della Milano degli anni del boom economico, si svolge la vicenda di Vera, figlia della povera provincia veneta che, ancor piccola, è costretta a lasciare insieme alla famiglia alla ricerca di migliori condizioni economiche e di cui, però, conserverà sempre nella memoria un affettuoso ricordo indelebile. Un rievocare, quello di Vera, che si tinge inevitabilmente di malinconia e, spesso, anche di tristezza.
Ed ecco, al cospetto delle stelle di una tersa sera invernale, riaffiorare gli anni della scuola, quando lei aveva dovuto faticare per passare dal dialetto alla lingua italiana, quando subiva lo scherno e l'ostracismo da parte delle compagne di classe a causa delle modeste condizioni familiari, quando il suo cuore di bambina s'era scontrato con i modi solitamente rudi e spicci di una madre avara di amore e comprensione nei confronti del suo stesso sangue. E proprio questa figura materna, ritratta in maniera efficacemente cruda, diviene a poco a poco centrale nel corso della narrazione, suscitando in chi legge moti di ribellione e, forse, condanne senz'appello. Ma il cuore di una figlia perdona incondizionatamente e, con il tempo, arriva a comprendere l'inettitudine di un genitore che, in fin dei conti, si è ritrovato quasi per caso a rivestire quel ruolo senza grande consapevolezza.
“[...] La mamma doveva essere sempre al centro del mondo. Suo malgrado Vera si trovava costretta ad ammetterlo, sebbene non sia piacevole per nessuno accorgersi di avere una madre egoista, egocentrica, ingrata. Una madre che non aveva mai saputo dire la parola “grazie” a qualcuno, incapace di ammettere i propri errori. Sono pensieri che coltivava con animo sereno, rassegnato, senza astio. [...]”
Anche altri affetti ruotano attorno alla vita della protagonista, tra cui il padre, venuto a mancare troppo presto, la cui scomparsa, come s'intuisce, resterà una ferita aperta nel cuore di Vera.
Pubblicato lo scorso anno dalle Edizioni Ipazia Books, il libro offre una scorrevole lettura imperniata su frequenti flash-back e salti temporanei che, in particolare nei ricordi della campagna dell'infanzia, rimandano a un “piccolo mondo antico” che ormai non esiste più e sul quale la Oppio ha voluto porre l'accento, non senza una certa dose di nostalgia, come quando vengono rievocati i periodi di vacanza trascorsi a casa dei nonni e le conseguenti vecchie storie di famiglia, prima fra tutte quella del nonno emigrato in America e assunto come minatore nelle miniere dell'Illinois. Pagine a tratti molto intense che parlano di sentimenti, rimpianto e tanta solitudine, mettendo infine a fuoco una figura femminile che “non è cresciuta, è solo invecchiata” durante un'esistenza piena di amarezze e dolori.
Laura
Vargiu
Sei belle recensioni, tutte interessanti e coinvolgenti, sei libri, alcuni già noti, altri più recenti, che meritano tutti di essere letti. Un grazie a chi li ha recensiti e a chi li ha scritti.
RispondiEliminaPiera