La penna, la spada e l’aratro
di Renzo Montagnoli
Era da un po’ di tempo che cercavo un po’ di
tranquillità per scrivere di un grande autore, doppiamente sfortunato, in
quanto deceduto e anche per il fatto che i suoi libri, quasi tutti di notevole
livello, non hanno trovato il successo di pubblico che ampiamente avrebbero
meritato.
In particolare avrei voluto stilare una sua
biografia, accompagnata da un’analisi critica dei suoi romanzi, onde porlo
nella giusta luce per quel posto che, benché snobbato dai critici, si è
sicuramente ritagliato nella storia della nostra letteratura.
Il tempo, purtroppo, è tiranno e dopo non pochi
ripensamenti sono giunto alla conclusione che in fondo la biografia di un uomo,
di un artista è sì importante, ma ciò che più conta sono le sue opere e
pertanto è del narratore che intendo scrivere e non anche dell’uomo.
A lui ero legato da una viva amicizia e fra noi
vigeva una reciproca stima; solo la distanza fra la mia e la sua residenza ci
ha impedito di conoscerci materialmente, ma gli scambi di posta elettronica, le
non infrequenti conversazioni telefoniche e, soprattutto, la lettura dei suoi
libri ha consentito che mi facessi più di un’idea, permettendomi addirittura di
comprenderne l’intima natura, forse in misura maggiore di una frequentazione
abituale. Di Valentino Rocchi, perché è di questo autore romagnolo di nascita e
pesarese d’adozione che sto parlando, non posso che avere un caro e indelebile
ricordo e scrivere di lui come romanziere mi sembra la giusta mercede per
quanto di positivo mi hanno dato i suoi libri.
Fino al febbraio del 2008 mi era del tutto
sconosciuto e fu proprio in quel mese che ricevetti da Pina Vicario delle
Edizioni Agemina un libro che lei mi aveva definito piuttosto interessante. Si
trattava di La Magia del Fuoco,
titolo di per sé tale da destare una naturale curiosità, ma io, per principio,
guardo poco a queste cose, preferisco leggere, analizzare lo stile, verificare
la trama, ponderare gli elementi valutativi salienti. Devo ammettere che quelle
175 pagine, divorate in pochi giorni, mi sorpresero non poco, presentando
caratteristiche di qualità, sia sotto l’aspetto strutturale, sia sotto quello
stilistico. La trama, poi, di questo romanzo di sentimenti, di vita vissuta, di
riflessioni si presentava appetibile, era un piacere andare avanti nella
lettura, che fra l’altro risultava avvincente. Sarà stata la sobrietà dello
stile, l’equilibrio nella narrazione senza mai una parola di troppo, una
delicatezza quasi soave nella sempre difficile descrizione di un’iniziazione
sessuale, ma resta il fatto che mi entusiasmai al punto che mi venne naturale
chiedere all’autore se si trattava dell’opera prima, oppure se ne aveva già
scritte altre.
Emerse così che esistevano altri romanzi nel
cassetto e altri ancora, pochi, erano stati pubblicati con alcuni piccoli
editori e Valentino fu tanto gentile da farmi avere una copia di ciascuno.
Passarono così per le mie mani pagine e pagine di
opere che non fecero altro che rafforzare la mia convinzione sul fatto che ci si
potesse trovare davanti a un autore rivelazione. Soprattutto questi lavori
erano caratterizzati da una costanza di rendimento invidiabile, da uno stile di
cui si notava il progressivo affinamento, ma ciò che più m’impressionò fu
l’ambientazione, rurale, con descrizioni di personaggi e di luoghi mai greve,
ma concisa ed esauriente. Questo mondo agreste, che si ritrova in L’eredità di Venanzio, Gli uomini di Bluma e La saggezza di Toni, ricostruito in
un’epoca in cui ancora la civiltà contadina non era morta, fatto di sentimenti
e di superstizioni, di odi lancinanti e di amicizie salde, non era solo il
palcoscenico su cui venivano rappresentate le varie trame, ma assumeva una
valenza propria, frutto probabilmente di una nostalgia per gli anni precedenti
la seconda guerra mondiale, che avevano visto la giovinezza di Rocchi, non
certo agricoltore, ma di estrazione contadina. Anche questi tre romanzi erano
belli, coinvolgenti, piacevolissimi da leggere e toccavano le corde dell’animo;
ne fui e ne sono tuttora entusiasta, ma il meglio doveva ancora venire e venne
con Notte all’Hostaria La Guercia. Il libro mi fu recapitato dallo stesso autore
che ci tenne a dirmi che era un’opera a cui teneva molto e ne aveva ben
ragione. Infatti, nonostante il titolo non proprio invitante, in queste 305
pagine, nel parlarci di un personaggio realmente esistito, tale Pandolfo
Collenuccio, diplomatico del XV secolo, pesarese di nascita, ci offre un
affresco stupendo del nostro rinascimento, in un periodo particolarmente
travagliato, di grandi lotte di potere, con le mire espansionistiche del
pontefice Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, sulle Signorie dell’Italia Centrale e poi anche più su, fino
alla Romagna.
Dicevo del titolo non invitante, ma che ha un
preciso significato, poiché Rocchi, invece di narrarci la vita di questo
personaggio dalle origini fino alla sua morte, preferisce mostrarcelo in questa
notte trascorsa vegliando in una vecchia osteria in prossimità di Pesaro, a
cui, non senza fondati timori, si accinge a ritornare. In queste ore insonni
Pandolfo, in preda a comprensibili paure e incertezze, rievoca il suo trascorso
con le considerazioni del presente. È un’idea felicissima, questa, perché in
questo modo si mette alla luce una vena malinconica, che ravviva l’opera,
avvicinando il protagonista al lettore. Questo grande uomo, che ha servito gli
Sforza, i Medici e i Gonzaga, e che dunque nella sua carriera è arrivato a
vertici elevati, ora è diventato pauroso, incerto, perché teme che quell’invito
a rientrare sia una trappola (e infatti lo sarà). Nondimeno è consapevole che
la vita è una parabola e che lui è ormai è nella fase discendente, in cui le
glorie trascorse si appannano, in cui sorgono rimpianti; la sua coerenza forse
vacilla, ma deve andare, costi quel che costi, perché così è scritto nel libro
del destino, perché in fondo ogni giorno è buono per morire, purché non si
tradisca se stessi.
Scritto in modo elegante, con non sporadiche felici
intuizioni, Notte all’Hostaria La Guercia
mi colpì profondamente ed ebbi netta la sensazione di essere in presenza di un
capolavoro. L’edizione era vecchia e meritava quindi di essere ripubblicata, e
a ciò provvide la casa editrice Agemina che, nell’occasione, fece un saggio e
ponderato editing, che impreziosì l’opera ulteriormente. Fu così che
nell’autunno del 2008 uscì 1504 – Notte
all’Hostaria La Guercia, che ritenni di prefare, tanto ero e sono convinto
della validità di questo romanzo. In quell’occasioni scrissi quanto segue:
“Già ho scritto qualche tempo fa di questo bellissimo
romanzo storico, allorché risultava edito da Argalia e con il titolo di Notte
all’Hostaria La Guercia.
Mi
risulta quindi difficile riparlarne in altri termini, per quanto in questa
seconda edizione non sia cambiato solo il titolo, ora più indovinato ed
esplicativo, ma anche perché opportunamente l’autore ha colto l’occasione per
apportare piccole modifiche, per la verità nulla di importante, ma che hanno
finito per perfezionare un’opera già originariamente di elevato livello.
A
suo tempo avevo scritto che era un capolavoro e anche ora il mio giudizio resta
invariato, perché l’impronta, la struttura mantengono le stesse caratteristiche
che così tanto mi avevano impressionato.
Quella
notte trascorsa in una cameretta dell’Hostaria La Guercia è lunga un’intera
vita, costituisce l’occasione per l’uomo Collenuccio di ripensare al lungo
percorso che l’ha portato fin lì. E se il personaggio storicamente si presenta
di notevole interesse, quello che permea di grazia tutta l’opera è la sua
essenza, è quello spogliarlo dei panni di protagonista famoso di un’epoca per
metterlo a nudo, per ricondurlo al suo stato di uomo fra gli uomini.
È
solo così, infatti, che ci è consentito di avvicinarlo, di vivere con lui, di
essere parte dei suoi sentimenti.
Se
fosse rimasto un personaggio idealizzato, ben staccato nelle sue
caratteristiche da quelle di tutti i mortali, non avremmo potuto apprezzare le
bellissime pagine della sua iniziazione alla vita sessuale, né avremmo potuto
comprendere i suoi tormenti, né essere partecipi delle sue pene d’amore.
Così,
in una notte dal futuro molto incerto, anzi dalla sensazione che non ci sarà un
futuro, Pandolfo Collenuccio, nel raccontare di se stesso, finisce con il
dialogare con noi, proponendoci episodi in cui non è difficile che ci possiamo
riconoscere, ma il tutto con una delicatezza che dona al ricordo la dimensione
della sacralità, lo fa diventare una testimonianza indelebile di una vita
vissuta.
Quel
rievocare il tempo andato alla luce dei dubbi e dei patemi d’animo del presente
impregna tutto il romanzo di una velata malinconia, umanizza il personaggio e
in tal modo lo fa sentire parte di noi.
Così
la sua emozione del primo rapporto con Maria, chiamata affettuosamente ‘susina
acerba’ per le sue qualità estetiche, diventa anche la nostra emozione, la sua
nostalgia per questo primo amore finisce con l’essere anche la nostra e,
sebbene per un naturale senso di conservazione non moriamo con lui (una pagina,
questa, di altissima letteratura), però siamo lì presenti e diventa veramente
difficile riuscire a trattenere le lacrime.
Ma
anche l’aspetto storico è tutt’altro che secondario, con la descrizione di
un’epoca e con un corollario di personaggi anche famosi che non finiscono lì a
caso o che vengono citati solo per convenienza, ma perché c’è una precisa
ragione logica che li colloca nella trama, rispondendo di fatto a quello che
avvenne veramente.
Si
riesce così a tornare indietro nel tempo, quasi ci si cala nel mondo del
quindicesimo secolo, in compagnia di questo protagonista
che in effetti fu un grande cortigiano e diplomatico.
Incontreremo
così Poliziano, Pico della Mirandola, i Borgia e così via, in un affresco
storico che nulla lascia alla fantasia, ma che interpretato in chiave
romanzesca risulta particolarmente avvincente.
È
strana, comunque, la vita. Io non sapevo nulla di questo Pandolfo Collenuccio,
ma da quando ho letto questo libro mi sembra che sia diventato un vecchio
amico, il cui ricordo ormai mi accompagna.
I
personaggi storici normalmente si ricordano per ciò che hanno fatto di
straordinario, nel bene o nel male, ma dell’uomo, cioè della sua essenza,
distaccata dall’incarico ricoperto o dall’impresa svolta, sappiamo ben poco,
perché ciò che conta sono le azioni che ne decretano la memoria.
L’abilità
di Valentino Rocchi è l’averci rivelato anche un Pandolfo Collenuccio privato,
di averlo svestito dei panni ufficiali della storia per mostrarci l’uomo, con
le sue debolezze, i suoi patemi d’animo, le sue piccole gioie.
Questa
umanizzazione del personaggio, anziché sminuirlo, tende ad avvicinarlo a noi, a
ricondurlo a quella natura che è propria di tutti, così che è anche possibile
comprendere il comportamento e le azioni che lo hanno reso celebre.
La
caducità, invece di svilirlo, ha finito con il donargli uno spessore del tutto
particolare, che non potrà non restare
impresso nella memoria del lettore, conferendogli così quell’immortalità
dell’uomo salito all’olimpo degli dei. “.
A distanza di tempo, pur sopite le emozioni provate
nella lettura, sottoscrivo in toto il
contenuto della mia prefazione e quindi il mio giudizio resta inalterato su
quelle che sono le qualità, notevoli, dell’opera, un vero e proprio capolavoro.
Tuttavia, la nuova edizione non ebbe il successo
che avrebbe meritato per diverse ragioni, soprattutto per queste: le modeste
possibilità pubblicitarie di una piccola casa editrice, un mercato artefatto in
cui si tendono a imporre per lo più
autori prefabbricati, che scrivono solo il nulla per un popolo di lettori ormai
asservito, il silenzio, non certo casuale, di critici che sovente danno
l’impressione di avere accordi segreti con questo o quell’editore.
C’è tutta una casistica al riguardo e che vede
sconosciuti e incapaci scrittori ottenere riconoscimenti di pubblico e di
critica per opere che francamente sono quasi spazzatura e magari quelle che
veramente valgono passano inosservate, così come nel mercato finanziario la
moneta cattiva prevale su quella buona.
Tuttavia, Valentino non ne soffrì in modo
particolare, perché era contento del giudizio anche di pochi, ma che per lui
erano considerati molto, e del resto non era nel suo carattere abbattersi, ma
proseguire, far conoscere ad altri i suoi romanzi nel cassetto. Fu aiutato, in
questo, dalle Edizioni Agemina, da Pina Vicario che aveva per lui la stessa
stima che avevo io.
Fu così che nell’autunno del 2009 venne pubblicato Confrontarsi
con Karolina, un romanzo un po’ atipico nella produzione di Rocchi, dalle
tinte gialle, e in un ambiente non rurale. Ciò nonostante il mio giudizio fu
confortante, nel senso che si trattava di un libro piacevole da leggere e in
fin dei conti di un’esperienza diversa che l’autore aveva saputo interpretare
con mano ferma e senza alterare le sue radici artistiche.
Nel frattempo Valentino mi aveva fatto avere tre
suoi libri, pubblicati da diverso tempo da altri editori: Una storia a
Castelvecchio, che è la storia di un’emancipazione femminile fra le due
guerre, Il pianoforte a coda,
storia di un bancario che cerca la libertà dedicandosi al commercio ambulante e
La padrona di Santa Maria, una vicenda di ribellione femminile allo
stato di sudditanza imposto in un passato non troppo lontano dall’altro sesso,
accompagnato dalla grettezza sovente presente nel mondo contadino. Sono tre
romanzi piacevoli da leggere, di buona qualità, ma ovviamente incomparabili con
1504 – Notte all’Hostaria la Guercia.
Il 30 gennaio 2010 Valentino Rocchi, da tempo
malato, veniva a mancare ed è di pochi giorni prima l’uscita, per i tipi di
Agemina, di Giolina, uno fra i suoi romanzi nel cassetto di cui più mi
aveva parlato. E qui ritorna uno dei
suoi temi cari, quello dell’inferiorità femminile, più accentuato nel mondo
rurale. Da buon conoscitore di questa realtà, Valentino è stato in effetti un
cantore della civiltà contadina, in cui miseria diffusa, grettezza,
superstizioni, avarizia e ingordigia si
mescolavano in un calderone che sembrava sempre pronto a scoppiare, ma che poi
sbuffando si quietava. Era l’immutabilità di una condizione che un altro narratore,
Ferdinando Camon, ha saputo descrivere così bene; anche Rocchi guarda a quella società, composta per lo più da miseri, con uno
straordinario affetto, proprio di chi è giustamente convinto che il tempo delle
stagioni, che regola la vita dei campi, sia l’unico per gli uomini, con quelle
ore di lavoro che vanno dal sorgere del sole al suo tramonto, una metafora
della vita che ogni giorno si rinnova. Giolina è effettivamente un bel romanzo,
con una trama avvincente e convincente, e testimonia una volta di più che chi è
legato alla terra scrive della stessa.
Sono
usciti poi, postumi, e sempre pubblicati da Agemina, due lavori con temi
completamente diversi: Menelicche e L’uomo del cardinale.
Il
primo trae origine da una filastrocca e tratta delle insormontabili barriere
sociali, con l’amore fra una giovane ricca, ma menomata, e un povero operaio di
un cantiere navale. E’ quasi una favola,
non a lieto fine, scritta in punta di penna, con leggerezza e rispetto per gli
sfortunati protagonisti, uno di quei romanzi in cui i sentimenti sono espressi con
pudore, circostanza sempre più rara oggi, e in cui l’eterna lotta di classe
trova nel popolino, ignorante e invidioso, il maggiore inconscio alleato del
certo forte. All’inizio sembra una
storia da poco, ma poi, mano a mano si procede nella lettura, non si possono
non apprezzare descrizioni di paesaggi marini sfumate come in un acquerello,
caratterizzazioni precise e convincenti, una malinconia diffusa che
s’accompagna a una scorrevolezza frutto di uno stile meditato e studiato.
Con L’uomo del cardinale Rocchi ritorna al
romanzo storico, anzi in questo caso di ambientazione storica, perché fra tanti
personaggi che vi figurano e che sono realmente esistiti il protagonista
principale è di pura fantasia. E come
per 1504 – Notte all’Hostaria La Guercia
emergono le migliori qualità dell’autore, tanto che il libro è veramente
stupendo, sia per la trama che per l’ambientazione, oltre che per la morale
dello stesso; al riguardo credo che meglio di qualsiasi giudizio valgano le
parole della mia recensione:
“Alla
ricerca del senso della vita
<<Era
un bambino. Sedeva sull’orlo di un dirupo, proteso a valle, ad osservare la
luna nelle notti di sereno e, molte volte, durante il giorno, da lì spiava ciò
che accadeva in basso, attorno al suo paese maledetto.>>
Inizia
così l’ultimo romanzo di Valentino Rocchi, compianto autore di quell’autentico
capolavoro che è 1504 – Notte all’Hostaria La Guercia; quel paese maledetto è
un agglomerato di casupole in cui non vivono, ma vegetano donne, abbandonate
dai loro uomini o semplicemente diventate vecchie anzitempo, compagne di soldati di ventura, mercenari
come loro, un reclusorio in cui attendere la fine dei propri giorni. Quasi
assenti i maschi, al più qualche marmocchio, frutto di amori fugaci o di una
notte di meretricio, questa è una favela dell’umanità in un’epoca di predatori voraci e di prede rassegnate.
Da qui
parte quel bambino, risultato di un rapporto forse con un nobile dei dintorni,
che la madre in un certo qual senso ricatta, al punto da ottenere che il figlio
lasci quel luogo senza speranza perché possa finalmente vivere. Affidato
all’istruzione di un ex capitano di ventura, diventato abile di spada, ma anche
ingordo di letture, Antonio, questo il suo nome, a cui assocerà il cognome
Bagno del padre putativo, si fionderà nel mondo di lotte cruente, di sangue
grondante, di tradimenti e di viltà, di passione per il bello, per le arti, di
superstizioni dirompenti, di orgiastici intrallazzi che è proprio del
Rinascimento.
Lui si
pone ai servizi del miglior offerente ed esegue il suo lavoro con grande
competenza e meticolosità, sia che si tratti di consegnare il riscatto per la
liberazione di un nobile, sia che debba indagare su misteriori tentativi di
omicidio; la certezza del risultato lo contraddistingue, al pari della
riservatezza, della capacità di arrivare allo scopo nel modo migliore, anche
uccidendo, se necessario.
Il suo
primo e principale committente è il cardinale Ascanio Maria Sforza Visconti,
famoso per aver fallito nel tentativo di ottenere l’investitura di pontefice,
che invece andò, grazie anche ai suoi buoni uffici, a Rodrigo Borgia, salito al
trono di San Pietro con il nome di Papa Alessandro VI; in cambio dei favori
prestati, il cardinale ottenne la nomina a Vice-Cancelliere, in pratica il
primo ministro dello Stato della Chiesa, un incarico di grandissima importanza
che assolse soprattutto con un occhio di favore per la famiglia d’origine (era
fratello minore di Galeazzo Maria Sforza e di Ludovico il Moro).
Per
assolvere agli incarichi di volta in volta assunti, Antonio Bagno è sempre in
movimento, in un lungo viaggio che lo porta dalle Marche al Regno di Napoli,
dalla città di Roma, corrotta, fonte di ogni peccato, alla Firenze bacchettona
del Savonarola, dall’allegra corte estense alla pacifica signoria di Urbino.
E ogni
volta sono nuovi successi, ricompense cospicue che entrano nella scarsella,
insomma quel bambino cencioso, ormai diventato uomo, si può considerare
“arrivato”, ma non è contento, perché avverte la solitudine di quel peregrinare
che scandisce impietoso i tempi della vita. Gli anni passano e in Antonio c’è
l’insoddisfazione, perché si accorge, giorno dopo giorno, che la sua non è
vita, che lui è sempre di più meno padrone di se stesso; alla fine riuscirà a
imprimere una svolta decisiva, terminando il viaggio in un paese quieto,
lontano dai clamori dei signori e delle battaglie, fra le braccia di una donna,
a cui si è avvicinato non per consumare un rapporto, ma per amore.
Ed è
questo il grande messaggio del romanzo: tutto ciò che si fa, tutto quanto si
mette in atto per emergere è la gioia di un momento, è nello stringere fra le
mani un sogno impalpabile. La vita non ha senso se non nell’amore, in quel
reciproco affetto che permette di proseguire con serenità quel cammino che è di
tutti, dall’alba al tramonto.
Se tanti
personaggi che compaiono sono realmente esistiti, quello di Antonio Bagno è
esclusivamente frutto di fantasia, ma è anche un emblema, quello di un uomo che
vuole essere artefice della propria vita e che comprende strada facendo che
nessuno è veramente libero, che la sorte toccata agli uomini, ai potenti e ai
derelitti, è di essere schiavi del proprio ruolo; l’unico rimedio è allora di
non darsi come sudditi, ma di donarsi per amore.
L’uomo del
Cardinale è sì un libro d’avventure, ma queste non sono la sua finalità, bensì
l’esclusivo mezzo per portare avanti quel discorso sul senso della vita di cui
ho detto poco fa.
L’epoca,
l’ambientazione, i personaggi veri e inventati sono descritti in modo
ammirevole e considerato che ci sono notizie perfino sul modo di vestire o di
spostarsi, sulle principali strade da percorrere, il libro è una fonte quasi
inesauribile di conoscenza, ma ciò che balza subito evidente è l’effetto
immediato che hanno le parole sul lettore; sia che si parli dei locali di una
taverna, sia che si tratti delle mura possenti di un castello, in un attimo si
ha la visione di ciò che è descritto, al punto di vedere noi stessi fra gli
ospiti seduti a un tavolo, oppure fra le guardie che procedono lungo il cammino
di ronda.
In fondo,
se anche fa piacere che Antonio alla fine trovi la sua giusta strada, rimane
una sensazione di mancanza, come di qualche cosa di cui si è sempre fruito e
ora si è perso; ma se non ci saranno altre avventure, a cui così bene ci
eravamo abituati, di una cosa saremo certi e orgogliosi: l’aver letto un libro
di grande bellezza.”.
Mi risulta che nei cassetti ci siano altre opere
inedite, ma dubito che possano vedere la luce del sole, ed è un peccato perché
Valentino Rocchi ha scritto tanto e in proporzione ha pubblicato poco, ma quel
poco non è paccottiglia, non sono inutili pagine da leggere per ingannare il
tempo mentre si fa un viaggio in treno. In quelle righe, in quelle parole c’è
tutto un mondo che si agita e che si affaccia alla ribalta: la terra, fonte di
vita, ma anche di fatiche e di dolori, e chi la coltiva, figure di un mondo che
mai più ritornerà, ma che Valentino ci ha fatto conoscere e anche amare; uomini
d’arme e di penna, ombre ormai disperse nell’Ade e che grazie ai suoi romanzi sono
rinate, a insegnarci che, se tutto passa e va, restano comunque valori
imprescindibili, tali da sacrificare per essi anche la vita. Fra l’ostinata
coerenza di Pandolfo Collenuccio e la ricerca del senso della vita di Antonio
Bagno non c’è nessuna differenza, sono entrambi personaggi che vogliono
conoscere se stessi, che scavano nel loro intimo affinché l’esistenza non sia
un semplice e inconsapevole passaggio dall’alba al tramonto. Ma in mezzo a loro
c’è anche qualche cosa d’altro, che li avvicina e ce li addita come esempi: una
penna, la penna di Valentino Rocchi, mai dimentica di un aratro che traccia il
solco nella feconda terra e che lascia un segno, indelebile, in chi ha letto i
suoi libri.
Bellissima l'introduzione e altrettanto la recensione!
RispondiEliminafantastica descrizione di uno , scrittore, di un uomo, (per di più romagnolo) e dei suoi romanzi intrisi di umanità e civltà contadina.
RispondiEliminaComplimenti Renzo...!Non poteva esserci miglio critico. Tempo fa avevo sentito parlare di lui, ma non avevo letto le sue opere. Ora, le tue recensioni mi hanno stizzicato.
Stefano
Bellissimo articolo. Ho letto quella della notte all'Hostaria La Guercia, prestatomi da un'amica, e concordo sul fatto che sia un autentico capolavoro,tanto che mi meraviglio che non abbia portato ampia notorietà all'autore. In campo letterario succede proprio così: se hai una casa editrice grossa, in grado di farti grande pubblicità, diventi uno scrittore affermato anche se sei mediocre. E magari ce ne sono di assai bravi che sono pressochè sconosciuti.
RispondiEliminaAgnese Addari
Ho letto tutto e mi è sembrata una storia nella storia. Un uomo che scritto tanto tanto ( e studiato perché certe storie non si inventano dal nulla ) ha scritto bene e non ha ottenuto gratificazioni...per ora. Chissà in futuro. Intanto m'impegno a cercare e leggere il libro che ci hai consigliato, fidandomi del tuo giudizio di appassionato lettore e critico.
RispondiEliminaciao
franca
Renzo, hai incominciato il tuo articolo dicendo che avresti tralasciato la biografia e avresti parlato delle opere di V. Rocchi, io credo invece che nella tua bella recensione abbia fatto entrambe le cose. Biografia e analisi delle opere si intersecano, si alternano, si completano permettendoci di conoscere lo scrittore e contemporaneamente l'uomo, l'amante della terra, lo psicologo che scava nell'animo dei personaggi, e dunque dell'uomo, di noi tutti, lo studioso, l'appassionato di storia che scandaglia il passato, dando forma e carattere a uomini e donne talvolta realmente esistiti, altre volte figli della fantasia.
RispondiEliminaVoglio solo aggiungere che oggi veramente vengono pubblicati e pubblicizzati libri di nessun valore e rimangono nel silenzio opere assolutamente meritevoli di essere conosciute e lette.
Grazie per averci proposto questa bella lettura.
Piera