I
racconti di questo Natale
Come già accaduto in
occasione dei Natali 2011 e 2012 di seguito trovate una selezione di racconti
in tema.
Quel Natale l’ho amato!
di Arcangela Cammalleri
L’oblò dell’aereo mi rimandava il riflesso del
sole che traspariva tra le nuvole simili a fiocchi di ovatta,
era il primo Natale con il mio nipotino Marco, nato da sei
mesi, avrei trascorso anche con lui le festività natalizie. Io che
non avevo mai assaporato l’atmosfera festosa di quei giorni;
gli addobbi, la canzoncine d’occasione,
la retorica del buonismo “Siamo a Natale”,
l’allegria ostentata, gli auguri
convenzionali…. m’intristivano, in questo frangente,
ero ansiosa di rivedere il mio dolce e recente amore, e le
vacanze erano il tramite per ricongiungermi a lui. Penso
che avessi un ebete sorriso stampato sulle labbra, mi sentivo lieta e
beatamente in pace con il mondo intero, nessuno avrebbe potuto intaccare
il mio intimo benessere. Immaginavo il mio arrivo e il visetto che si
sarebbe parato davanti ai miei occhi. Mi riconoscerà, sentirà il bene che
gli voglio, s’illumineranno i suoi meravigliosi occhi azzurri e mi tenderà
le braccine? Insomma il legame di sangue esiste o è solo un fattore
puramente genetico? Siamo fatti di sentimenti, emozioni e il nostro povero
cuore è stato rivalutato, non è solo un organo meccanico, pare
che abbia delle sinapsi come il cervello! Tuttavia mi chiedevo
se Marco pur essendo ancora infante avrebbe percepito che ero
la zia, anzi l’unica zia? Questo fatto
negli anni a venire costituirà motivo di battute, simpatiche
prese in giro da parte di mio nipote: “Sei
la mia zia preferita,
la più amata in assoluto!”. Pensieri contrastanti si
rincorrevano nella mente e l’ansietà del viaggio, del tempo che
sembrava trascorrere lento come se i minuti volessero indugiare e
prendersi gioco di me, mi turbavano, ma volevo mantenere
la calma e l’autocontrollo. Ero talmente immersa nel quadro
idilliaco dell’incontro che a malapena sentii, ma non
compresi quello che la voce gentile dell’hostess mi chiedeva:” Signora,
caffè o tè, desidera dei biscottini o dei
salatini?”.Trasognata risposi sorridendo: “ No grazie, sto bene!” Avevo
capito “Vuole dei fazzolettini?”. Non percepivo che le mie sensazioni, volavo
realmente con il corpo,
maera la mia mente a sorvolare, planando con il
pensiero alla mia meta. Ricordo un po’ confusamente l’arrivo
in aeroporto, l’attesa al nastro che trasportava i bagagli, gli
odori un po’ persi nella memoria degli arancini siciliani, le
focaccine con varie farciture appetitose e fragranti ed io, con passo
baldanzoso, a trascinare il trolley finalmente recuperato
ed avviarmi alla fermata degli autobus. L’ Etna trasporti, azzurro
in lontananza, pervenne ed io tra il mettere il bagaglio
nella pancia del pullmann, porgere il
biglietto all’autista e sedermi sul primo posto vuoto compii
meccanicamente tre azioni in una. Dal finestrino rivedevo i
paesaggi a me familiari che si sovrapponevano a quelli
nebbiosi e grigi e nordici, distese di aranceti
simili a tanti alberi di natale naturali, mi abbagliavano
la vista; il cielo, quel giorno terso e turchino
copriva amorevolmente i miei pensieri e mi accompagnava dalle
persone care. In lontananza, poi, le ciminiere fumanti
della mia città, detestarono la mia predisposizione
d’animo. Alla stazione scorsi mio fratello
Alberto ad attendermi. Ci abbracciammo come
sempre ad ogni mio arrivo, miaiutò a prendere
la valigia e ci avviammo verso l’auto posteggiata. Trovai
Alberto un po’ ingrassato, la pancia sporgeva rigonfia dal
maglione grigioverde come i suoi occhi,attraverso gli occhiali da vista,
splendidi e leali. Mi chiese del viaggio e subito io domandai di Marco, come
stava e chissà quanto era bello. Naturalmente da sei mesi i
nostri discorsi telefonici sempre e comunque convergevano verso di lui, il
protagonista assoluto dei nostri pensieri, noi che di figli non
ne avevamo, lui scapolone più che quarantenne
ed anch’io di poco più giovane. Il tragitto breve ci
condusse a casa di nostra madre dove anche mio
fratello viveva. Dalla finestra intravidi il suo volto, l’emozione
stava già pervadendomi, in ascensore immaginavo
l’abbraccio con lei e il suo caldo contatto fisico. Ogni volta scorgevo in
lei un segnale più marcato del trascorrere del tempo,
tra una ruga in più insinuata sul suo volto o
la curva delle spalle più accentuata o il passo più lento,
la vedevo rimpicciolita, ogni anno sempre di più, ma il sorriso
era sempre avvolgente e gli occhi chiari giovani e luminosi.
Indossava una di quelle sue gonne un po’ informi dai colori scuri, un
blu tendente al nero, una maglia azzurro intenso
abbottonata sul petto. Mi fece sorridere il suo vezzo di non indossare
calze anche in inverno avanzato e ai piedi ancora un
paio di pantofole estive. I capelli corti e quasi argentei erano
ravviati alla meglio, fini e lisci e imbelli ad ogni
tentativo di tenerli in ordine, come d’altronde il suo carattere battagliero
sempre sul chi va là, ma nel contempo comprensiva e attenta all’ascolto
dei figli. La prima domanda io a lei, “Marco???.
“Ora arriva” rispose mia mamma, in dialetto “ora” è un tempo
impreciso, tanto o poco a seconda del tono della voce
o dell’umore impaziente o frettoloso di chi la pronuncia. “Com’è?” domandai,
con il mio solito sciocco sorriso che doveva allargare a
dismisura la mia bocca, sapendo già la risposta e come
me la immaginavo. “Che beddru, che sperto, ancora non
parla, ma si fa capire, pensa che per indicare tuo fratello
Alberto con la boccuccia soffia imitandolo come quando fuma!”
rispose orgogliosa mia mamma. Alle 16 suonò imperioso il
campanello del portone erano l’altro mio fratello, mia cognata e in
braccio lui, Marco. Era avvolto in un cappottino rosso con il cappuccio
dal quale spuntava un ciuffo di setosi capelli biondi, il visetto
era davanti a me, gli occhi brillavano incerti e incuriositi,
ma non davano l’impressione di riconoscermi. Eh già, solo sei mesi e per
giunta non mi aveva visto se non quando aveva solo due
mesi, impossibile! La bocca però si atteggiò ad un dolce
sorriso, ma mi dicevano i miei ch’era affabile con tutti e a
tutti sorrideva. Ma io non ero tutti, io volevo il suo sorriso per
me, esclusivamente per me. Le nostre voci si coprivano a vicenda,
insieme ad esclamare, “ È la zia, la zia Lilia,
ma come unna rricanusci?” (Come non la riconosci?). Eravamo in
preda ad una frenesia collettiva, Marco confuso stava quasi per
piangere, il broncio già corrucciava la sua
simpatica espressione e delle lacrime simili a gocce di rugiada imperlavano
le gote. Lo presi in braccio, lo baciai e ribaciai, quale
sensazione appagante avvolse il mio corpo, lui si accucciò come
un coniglietto e le sue manine si aggrapparono sulle mie spalle. L’odore
tiepido del suo corpicino e il contatto della sua guancia con
la mia… non ho mai dimenticato quei momenti e altri che potei
godere ancora con lui. Ma non poteva finire
così quel Natale, perché altrimenti non lo avrei rivissuto così
intensamente. L’attimo indelebile è arrivato! Un pomeriggio mentre lo
cullavo tra le mie braccia, il capo era poggiato
sulla mia spalla mentre il suo lieve respiro lo
sentivo alitare sul collo, sentii che si muoveva, alzò
la testolina e mi fissò negli occhi con uno sguardo espressivo,
meravigliato e consapevole, come parlassero ad essi, dicendo: “Tu sei
mia zia”. Naturalmente, non lo disse, ma dopo
mi abbracciò stretto stretto. Mi aveva riconosciuta,
ero entrata tra i suoi affetti più cari. Quel Natale
l’ho amato ed è stato forse uno dei più belli della mia vita.
Il re dei barboni
di Salvo Zappulla
Mi avevano convocato d’urgenza dalla sede
della società sportiva di mia figlia: “Il signor Baraldi?”.
“Sono io”.
“Buongiorno. Sono il medico della squadra
di nuoto, desidererei parlare con lei. Può venire nel mio studio?”.
“Miriam ha
combinato qualche guaio?”.
Dall’altra parte ci fu una lunga pausa. “Si
tratta di un problema molto serio, la prego di venire subito”.
Dal tono delle sue parole avevo intuito che
era accaduto qualcosa di grave. Per fortuna mia figlia proprio in quel momento
mi passò accanto e questo servì a tranquillizzarmi un poco.
“Chi era al telefono?”.
“Hanno telefonato dalla tua società,
desiderano che mi rechi in sede”.
“Probabilmente ci sono dei documenti da
firmare”.
“Può darsi” risposi poco convinto.
Indossato il cappotto, ero uscito nella mattinata freddissima. Avevo un brutto
presentimento, non riuscivo a immaginare cosa volessero ma sicuramente era
accaduto qualcosa di grave. Preferii andare a piedi per smaltire la tensione.
Il medico mi invitò
a sedermi e senza inutili giri di parole, mi comunicò: “Sua figlia ha una grave
malformazione cardiaca”.
Sbiancai in volto.
“E’ in pericolo di vita. Ha una insufficienza valvolare aortica in
stato avanzato”.
“Come è possibile?”.
“Abbiamo effettuato tutti
gli esami. Li abbiamo
ripetuti per maggior sicurezza ma, purtroppo, non sussistono dubbi”.
Mi lasciai andare sulla poltrona.
“Vuole un bicchiere d’acqua?”.
“Sì, grazie”. La gola mi si era essiccata.
“Di cosa si tratta esattamente?”.
Il medico inforcò gli occhiali. “La malattia
consiste nella non chiusura della valvola aortica; tale valvola ha la funzione
di evitare che il sangue ritorni al ventricolo sinistro. Se è difettosa,
provoca una perdita, ossia una porzione di sangue pompato torna indietro e va a
ingrossare il ventricolo sinistro del cuore rischiando la lacerazione. Nella
prima fase, allo stato iniziale della malattia, il sovraccarico di sangue viene compensato dal muscolo cardiaco che
progressivamente si dilata e in qualche modo si adatta finché, superato un certo
limite di sopportazione, il cuore si scompensa e cede. La ragazza deve
sospendere immediatamente l’attività sportiva”.
Ero affranto. La piccola Miriam, il pesce-siluro come amavo
definirla con orgoglio, all’improvviso smetteva di essere la ragazzina vitale,
esuberante, l’inno alla gioia, per ritrovarsi una povera invalida. Lei, che
teneva alle gare di nuoto più della sua stessa vita. Quell’uomo in camice
bianco mi aveva frastornato con i suoi termini oscuri; parlava di valvole
sovraccariche, come ci trovassimo all’interno della mia officina. La testa mi
ronzava. Mi
passò un braccio sulle spalle e soggiunse: “La ragazza ha necessità di essere
operata d’urgenza, il suo cuore può crollare da un momento all’altro.
Non le nascondo che si tratta di un intervento molto rischioso, delicatissimo.
In Italia non siamo sufficientemente attrezzati per poterlo eseguire senza scongiurare i rischi. La malattia è in uno stato
avanzato, gli esami cardiologici andavano eseguiti prima. Purtroppo solo da
poco sua figlia è entrata nel nostro gruppo; noi come società sportiva abbiamo
fatto il nostro dovere”.
“Non ha mai accusato disturbi” mormorai.
“La sua attività era
incontrollata. Occorrerebbe
che certi esami fossero obbligatori per legge, anche a livello amatoriale”.
Il medico scosse
il capo.
“Cosa mi consiglia di fare”.
“La soluzione ideale sarebbe di farla
operare presso l’Einstein Hospital di New York, in America. Adottano una
tecnica all’avanguardia nella sostituzione della valvola aortica. Addirittura
c’è la prospettiva, nel caso l’intervento riesca alla perfezione, che il
paziente possa riprendere a svolgere attività agonistica. Esiste qualche buon
precedente. E’
così importante per sua figlia il nuoto?”.
“Voleva andare alle Olimpiadi. Ne aveva
tutti i mezzi, a detta di esperti del settore”.
Il medico sospirò. “Rimane da aggiungere
che un’operazione
del genere negli Stati
Uniti costa all’incirca trecento milioni”.
Un’altra mannaia si abbatté sul mio collo. “Mi è
impossibile reperire tale cifra”.
“Altrimenti deve operarsi in Italia”.
L’uomo allargò le
braccia sconsolato.
“Ma lo Stato non contribuisce alle spese?”.
“Solo in minima parte”.
A casa avevo trovato la tavola
apparecchiata ma in quel momento il cibo mi dava la nausea. “Cosa
volevano?” chiese mia moglie.
“C’è qualche problema”.
“Che genere di problema?”.
Miriam arrivò
col suo borsone a tracolla per andare all’allenamento.
“Non pranzi con noi?”.
“No. Prendo un panino, lo mangio dopo”.
“Non puoi andare all’allenamento”.
“Perché non posso?”.
Pallidissimo, la misi al corrente sulla necessità che per qualche tempo
interrompesse gli allenamenti e sull’eventualità di operarsi. Ma non era una bambina, aveva sedici anni
e dal tono delle mie parole capì che la situazione era molto grave. Alla fine
fui costretto a esporle i fatti così come stavano. Mia moglie scoppiò in
lacrime; mia figlia venne colta da
una crisi isterica. “Non rinuncio al nuoto! Preferisco morire!” urlò tra le lacrime. “Non mi opero! non mi opero!”. Scagliò il panino per terra e andò a
rifugiarsi in camera sua.
Raccolsi il panino e lo misi in tasca.
Uscii, avevo voglia di camminare, di sfogare la mia amarezza. La vita sa essere
davvero crudele, quando pensi di aver raggiunto un minimo di serenità, ti cade
la tegola in testa. Mi soffermai ad osservare
un barbone seduto sullo scalino davanti a un negozio. Cercai di consolarmi:
forse c’era qualcuno che viveva una situazione
peggiore della mia. Se ne stava accovacciato in un cantuccio, addossandosi al
muro per ripararsi dal freddo e dalla gente; la sua figura, sotto lo sguardo
attento dei miei occhi, sembrava rimpicciolirsi e chiedere scusa al resto
dell’umanità per lo spazio che occupava, come se un pezzetto di mondo non
appartenesse anche a lui, e la piccola razione d’aria quotidiana. La
maggioranza di quanti gli passavano accanto,
non lo degnava di uno sguardo, e se qualcuno lo faceva, era per lanciargli
occhiate di disprezzo o di commiserazione. Ogni tanto i passanti lasciavano
cadere una moneta nel suo piattino, per mettersi a posto con la coscienza. Mai
nessuno aveva suscitato in me tanta sensazione di mitezza e fragilità.
Sentendosi spiato, il barbone si abbottonò l’unico bottone rimasto del suo
lercio e spiegazzato cappotto. Un sussulto di orgoglio il suo a proteggersi dalla mia curiosità
invadente. Il vento batteva forte e gli sparpagliava i folti capelli
bianchi. Strinse a sé il suo cagnolino, uno striminzito cagnolino bianco con tante macchie nere sul
muso. Randagio anch’esso, come il padrone. Insieme dividevano le stelle e
qualche pezzo di pane raffermo pescato nel bidone dei rifiuti. Chissà a quale
razza apparteneva il cane, sicuramente era un incrocio. Mi venne da pensare che i
cani dei barboni dovevano essere barboncini
per vivere in sintonia con i loro padroni. Cribbio, che battuta idiota! Per
scacciare i pensieri molesti mi lasciavo andare a simili considerazioni. Decisi
di sedermi accanto a loro, così, senza un motivo preciso, per il bisogno di
trovare solidarietà da altri disperati come me. Mi ricordai del panino dentro
la tasca, lo tirai fuori e gliene offrii la metà. Ma lui sembrò ignorarmi. “Ehi! Ehi! Sto
parlando con te. Su, prendilo per favore”.
Alzò lo sguardo lentamente, come si
risollevasse da uno stato di torpore. Pareva sorpreso dal fatto che qualcuno
gli rivolgesse una parola gentile. Prese il panino, tolse il prosciutto che c’era
dentro e lo diede al cane, il resto lo mangiò lui. A suo modo incarnava la
libertà, viveva fuori dalle convenzioni e dagli schemi sociali. Niente rate da
pagare, né bollette della luce e dei riscaldamenti. Già, i
riscaldamenti; non doveva essere piacevole passare le notti sotto un portico.
Mi sopravvenne il desiderio improvviso di conoscerlo, sapere cosa passasse per
la sua testa, se era in grado di pensare, di ragionare, o se fosse solo una
figura coreografica della piazza. “Senti, ma non hai freddo a startene seduto qui? Non ti
vergogni a chiedere l’elemosina? Potresti cercarti un lavoro, come fanno tutti”.
Si volse e mi fulminò con lo sguardo: “Hai
mai visto un re lavorare?”.
Per un attimo la sua risposta mi colse di
sorpresa. “Un
re no, ma un barbone sì”.
“Io sono re”.
“Questa è grossa”. E’ partito con la testa,
pensai, e c’era da capirlo, l’inverno era particolarmente rigido quell’anno.
Cominciai a prenderlo in giro: “Bene, fammi vedere il tuo scettro, e anche la
corona”.
Sorrise soddisfatto. Prendendosi
seriamente, estrasse dalla tasca del cappotto un cappello spiegazzato. “Ecco la
mia corona” disse, e se lo calcò sulla testa. “Ed ecco il mio scettro”. Tirò
fuori da sotto il maglione sporco e unto di sugo un flauto. Era un bel flauto,
lucido, nero, in ottimo stato. Iniziò a suonare qualche nota allegra.
“Dove hai imparato a suonare?”.
“A corte”. Rise interrompendosi un momento.
Non volle più rispondere alle mie domande. Mi alzai per andarmene. Da dietro le
spalle risentii la sua voce: “Amico, il tuo panino era
buonissimo. Tante grazie, anche da parte di Perla, la mia cagnetta. King Wolfè il mio
nome, non dimenticarlo. Cercami se dovessi avere bisogno, io posso risolvere i tuoi
problemi”.
Tornai alle mie faccende e ai miei guai. A
casa mia si viveva un’atmosfera drammatica e preferivo stare tutto il giorno
fuori a lavorare in officina. Una settimana era trascorsa e ancora non sapevamo
quale decisione prendere. Miriam non voleva saperne di abbandonare il
nuoto ed era disposta a farsi operare solo in America. Mi maceravo nello
sconforto per il fatto di non poterla aiutare. Avevo aperto l’officina da poco,
caricandomi di debiti. Sentivo una sgradevole sensazione di impotenza. Sarei stato disposto a dare la mia vita per lei ma non sarebbe
servito a nulla. Mi occorrevano trecento milioni per farla operare in America
ma non li avevo e non conoscevo alcun modo per procurarmeli. Anche a provare a
rubarli, non sarei stato capace. Sant’Iddio, perché la vita è così crudele? Mia
figlia, una figlia qualsiasi di questa società, rischiava di morire senza che
lo Stato intervenisse in suo aiuto. Questa era la civiltà? La civiltà capace di
inviare astronauti sulla luna, di investire miliardi in armamenti, lasciava
morire una bambina solo perché suo padre non aveva i soldi per farla operare.
Dio, che orrore! Uscii a prendere aria, gironzolai per le vie in cerca di una
soluzione che non riuscivo a trovare. Mi fermai per accendere una sigaretta. Fu
in quel momento che sentii qualcosa che si strofinava sulle mie gambe.
“Perla!”. La cagnetta del barbone. La riconobbi subito, ed anche lei
evidentemente perché abbaiava festosamente mentre la prendevo in braccio. “Piccola birbante,
era buono il prosciutto, vero? Dov’è
quel matto del tuo padrone? Re solitario”. La deposi per terra. “Portami da lui, sono
curioso di rivederlo”. La cagnetta sembrò capire le mie parole, si avviò decisa
ed io le andai dietro. Camminava spedita, tanto che dovetti accelerare il passo
per non perderla di vista. Mi condusse in una zona periferica, si addentrò
all’interno di alcune viuzze strette e alla fine si fermò davanti a una vecchia
chiesa sconsacrata. Compresi che eravamo arrivati. Perla passò attraverso un
buco sul muro ed anch’io faticosamente riuscii a
passare. Il barbone era dentro, intento ad arrostirsi un paio di salsicce. “Ehi, ci diamo alle
pazze gioie! Si vede che gli affari ti vanno bene” esclamai annusando il
profumino che si spandeva nell’aria. Sembrò contento di vedermi. Mi
offrì un po’ della sua salsiccia e ne diede anche alla cagnetta, che andò a
divorarla in solitudine dietro un cumulo di macerie. Trascorsi la serata in
compagnia del mio singolare amico. Insistevo per avere sue notizie, le origini,
i suoi trascorsi ma lui sembrava prendersi gioco di me. “Vengo da un altro
mondo e da un altro secolo. Sono ricco, l’uomo più ricco della terra. Ho quanto di meglio si
possa desiderare dalla vita: la mia libertà, il mio regno sconfinato. Sì, sono
ricchissimo”.
“Dato che sei così ricco potresti prestarmeli tu i soldi che mi
occorrono”.
“Hai bisogno di denaro?”.
Gli confidai il mio dramma.
“E’ così importante il nuoto per tua
figlia?”.
“E’ tutto”.
“Quanto ti serve?”.
“Trecento milioni”.
Disse una frase che mi
lasciò di stucco: “Perché non sei venuto a cercarmi prima?Avremmo
già risolto il tuo problema”. Lo disse con un tono così austero che non ebbi alcun
dubbio sulla sua serietà. “Tu! E come potresti?”.
“Io sono un re. Il più grande re che
sia mai esistito. I miei sudditi sono sparsi per tutta la terra, il mio esercito è
così potente da far tremare gli altri regnanti” Si accalorava mentre lo diceva,
e i suoi gesti sembravano voler far rivivere tante battaglie.
Io lo guardavo perplesso.
“Non mi credi?”.
Rimasi in silenzio.
Estrasse da sotto il maglione il suo flauto e comincio a suonare una
melodia dolcissima, una nenia lenta che si sparse nell’aria come delicato
profumo. Fu allora che vidi arrivare dentro la chiesa, una dopo l’altra, la lunga fila di persone. Erano barboni, i
diseredati di tutto il mondo, arrivavano silenziosi, ognuno lasciava cadere una
moneta ai miei piedi e se ne andava, così com’era venuto. Una processione
enorme che si protrasse
tre giorni e tre notti ininterrottamente. Alla fine quando mi
risvegliai, dopo essere crollato per la stanchezza, mi trovai di fronte una
montagna di monete. “Contale” mi invitò King Wolf, “sono trecento milioni esatti”.
Ero rimasto senza fiato. Avrei voluto
ringraziarlo, chiedergli tante cose ma egli miinvitò ad occuparmi della bambina. “Vai, non può attendere
oltre” .
Dopo aver trasportato col furgoncino le
monete in banca per cambiarle con banconote di grosso taglio –operazione faticosissima- partimmo
immediatamente per New York. L’intervento riuscì perfettamente e dopo due mesi
di degenza rientrammo in Italia. Il professore che aveva effettuato l’intervento ci aveva assicurato che Miriam sarebbe ritornata a condurre una vita
normale, compresa l’attività agonistica.
Pochi giorni mancavano a Natale, era caduta la neve e i viali ammantati di
bianco introducevano all’atmosfera festosa. Il mio primo pensiero era stato di
correre a cercare il mio amico. Mi avviai in direzione della chiesa
abbandonata, lo chiamai a gran voce. Non ottenni risposta. Là dentro non c’era. Vagai inutilmente l’intera notte a cercarlo
per le strade. Temetti fosse partito per altra destinazione. Stava già
spuntando l’alba quando notai il capannello di gente, fui colto da un brutto
presentimento e mi precipitai verso di loro. Lo vidi disteso per terra, il suo
corpo irrigidito dal freddo velo della morte. Lo avevano trovato i netturbini
intenti a ripulire le strade. In città eventi del genere appartenevano
all’ordinaria amministrazione. I figli di nessuno che ingombravano le strade
andavano rimossi in fretta perché causavano problemi al traffico. Lo stavano
coprendo con un telo per portarlo via.
“Dove lo portate!” sussurrai con le lacrime
agli occhi.
“Nella cappella del cimitero” mi disse uno,
“avrà una breve messa, dopo sarà seppellito nella fossa comune”.
“Nella fossa comune? Ma è un re! E’ un re, capite!”.
“Lo conosceva? Sa il suo nome? Addosso non
aveva alcun documento”.
“King Wolf è il suo nome, scrivetelo sulla lapide. E’ il più grande re che la storia degli uomini abbia mai avuto.
Era il re degli umili, degli oppressi, era povero e sporco ma se solo avesse
voluto, se solo avesse voluto, avrebbe potuto organizzare una rivoluzione senza
precedenti. Lo
conoscevo bene io”.
Mi scostarono pensando di avere a che fare
con un demente. Un vigile aveva afferrato Perla per portarla via. L’animale
guaiva disperatamente. Gliela strappai dalle braccia: “E’ la mia cagnetta. Ridatemela!”.
Era arrivata la carrozza mortuaria, lo
avevano già sistemato dentro la bara. Volevo impedire che lo portassero via
senza che ricevesse le onorificenze degne del suo rango. Mi feci largo mentre
due uomini cercavano di trattenermi, riuscii ad aggrapparmi al suo maglione,
sentii al tatto un oggetto duro: il flauto! Me ne impadronii. Lo portai alle
labbra, era l’ultima speranza che mi rimaneva. Di nuovo la musica dolcissima si
diffuse nell’aria, nonostante non avessi mai suonato uno strumento in vita mia.
Immediatamente la piazza si riempì di clochard,
un esercito imponente che circondò la salma impedendo agli addetti di effettuare il loro servizio. In silenzio si caricarono sulle spalle il loro re. Io mi posi
alla testa del corteo e lo guidavo al suono del flauto. Perla mi stava accanto.
Intanto si era fatto giorno e la città brulicava di gente. Attraversammo le
strade principali paralizzando il traffico. Era arrivata
la polizia, i pompieri ma non poterono far altro che rimanere a distanza ad
osservare quel fiume silente che avanzava compatto tributando l’estremo saluto
al suo re. Le note del mio flauto si amplificavano assorbendo qualsiasi rumore.
Molti passanti si accodarono, la fila si ingrossava
sempre di più. Io, in testa, mi giravo verso il mio amico cercando un cenno di intesa. Ero certo che stava
apprezzando il mio operato. Alla fine ci dirigemmo dentro la sua chiesetta,
dove lo seppellimmo, ai piedi del suo trono. Gli restituii il flauto. Nessuno
avrebbe osato toccarlo dal suo posto. Poi ognuno ritornò da dove era venuto.
Portai Perla con me, l’avrei tenuta a casa mia. Mentre mi allontanavo dalla
chiesa, risentii la melodia, mi passò accanto come una scia luminosa, poi
sempre più flebile la vidi sparire verso il cielo. Il cielo! Era diventato di
un azzurro splendido, pareva vestito a festa per accogliere il suo re. Piansi
di
commozione.
Il Natale a Regalpetra
di Leonardo Sciascia
di Leonardo Sciascia
Il Natale non è sempre una festa di gioia e l’indigenza, non
moltissimi anni fa, c’era pure in Italia. Al riguardo Leonardo Sciascia ne ha scritto magistralmente in Le parrocchie di Regalpetra, da cui ho tratto questo brano sul Natale
trascorso; è il primo giorno di scuola dopo le vacanze - e infatti fa parte di Le
cronache scolastiche - con l’autore in veste di maestro, quale fu veramente
agli inizi.
- Il vento porta via le orecchie - dice il bidello.
Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa.
I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni.
L’aula ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo.
Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale:
tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette e mezzo e ti-vitti (ti ho visto :un gioco che non consente la minima distrazione); sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo.
Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente.
In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca:"La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù".
Alcuni hanno scritto,senza consapevole amarezza, amarissime cose:
"Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa".
Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre Pagandogli il biglietto del cinema…
Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato.
"La mattina del Santo Natale - scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto".
La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre "per fare la spesa". Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone.
"E così ho passato il Santo Natale".
I pastori del Natale che viene
di Domenica Luise
A mezzanotte, mentre i bambini dormivano sazi di
panettone e papà faceva l'amore con la mamma perché l'indomani era Natale e
non dovevano alzarsi all'alba, si sentiva solo schizzare qualche macchina, poi
le statuine del presepio incominciarono a stiracchiarsi.
<Ragazze, ma lo sentite quest'accidenti di
freddo?> brontolò un vecchio montone alle sue mogli, <Sissignore, che
freddo, che freddo> lo assecondarono le pecore belando in coro.
<Amore, ti preparo una minestrina bollente?>.
<Ma no, ma no, è meglio una bevuta e un
sigaro, corro a prendere il vino dalla botte>.
<Che dici? Qua ci vuole un bel massaggio sulla nuca
e ti rimetto al mondo, spogliati che vengo>.
<Ma perché non puoi dormire, tesoro mio? Cosa
succede stanotte? Poi domattina non hai la forza di stare sulle zampe e lo sai
quant'è rabbioso il tuo capoufficio>.
<Ma domattina è Natale, non si lavora>.
<Invece sono tutte storie per farti compatire, va
bene che ormai sei abbastanza decrepito e da pensione>.
<Coi nostri governanti che ci spremono?
Adesso, mogli mie, quando viene quella sanguisuga a chiedere i soldi che cosa
gli diamo, un po' di fieno? Gli dovrò consegnare stipendio e tredicesima>.
<Ma che fa, ce la danno anche quest'anno la
tredicesima?>.
<E sennò con che cosa paghiamo le tasse e l'imu dell'ovile?
E va bene, noi siamo pecore di speranza, forse fra duemila anni tutti questi
problemi non ci saranno più>.
L'ariete controllò allo specchio grande dell'ingresso
se le sue corna fossero abbastanza lucide o avessero bisogno di una ulteriore
lisciata, poteva scegliere la preferita tra quelle mogli servizievoli, ma che
pazienza ci voleva. Femmine, inferiori ai maschi da sempre e per sempre,
deboli, lagnose, benché discrete donne di casa, ma quante storie per partorire,
tutte che strillavano e soffiavano.
E com'erano gelose le une delle altre, una cosa
inqualificabile, che ben dimostrava la modestia del loro cervello. Ancora gli
andava bene perché non avevano inventato i telefonini, altrimenti non gli
avrebbero dato più pace.
In fondo, molto in fondo, la sua vita non era poi
così rosea, e doveva pure guardarsi dagli altri maschi rivali, che gli volevano
togliere ora una ora l'altra moglie e aggregarla al proprio harem.
Gli avevano fatto slittare l'età pensionabile e non
avrebbe confessato mai a nessuno quanto gli facessero male i piedi e le
ginocchia per i reumatismi incalzanti. Mai dare segni di debolezza o gli
avrebbero fatto il subentro.
<Io mi sono stufata di lavare panni di carta e
stenderli su quel filo ad ogni Natale> affermò la lavandaia
alzandosi impetuosamente dalle ginocchia sulle quali stava piegata, <ho un
appuntamento>.
Dall'interno di una casetta di cartone venne una voce
stridula: <Comportati bene, figlia, altrimenti resti zitella e siamo
rovinati, Almeno pigliati uno che ha un lavoro sicuro>.
<Il lavoro sicuro è finito> rise la ragazza con
una mano sul fianco e la cesta coi panni asciutti sull'altro,
<loro dicono che sarebbe noioso e dobbiamo cambiare sempre e lavorare tanto
per pagare il mutuo della catapecchia o l'affitto della catapecchia e comunque
la catapecchia, ormai le banche pigliano troppi interessi e vogliono troppe
garanzie e nessuno ha più una catapecchia decente>.
<Dove stai andando, figlia mia? Bada che gli uomini
sono cacciatori> disse la voce della madre altrettanto rauca dalla casa di
cartone, <Mi sono innamorata dell'incantato della stella> rispose lei
lasciando la cesta sulla soglia, <ma non ho intenzione di andarci a letto,
voglio cuocerlo bene prima o non mi sposa>. E la ragazza partì.
<Ho paura che pesca e pesca qua non
abbocca niente come il solito> fece il pescatore sullo stagno di specchio
circondato da pietruzze raccolte a mare nell'estate precedente. Il suo collega gli sorrise:
<Tranquillo, anche stasera mangeremo verdura selvaggia, speriamo che sia
rimasto un po' d'olio e che il pane non sia troppo duro, mi stanno cadendo
alcuni denti, sono vecchio, ma non posso andare in pensione>.
<Siamo tutti sulla stessa barca> considerò
l'altro mentre l'onda li dondolava con una certa, impertinente soavità.
Intanto si mise a nevicare e la stella, dall'alto dei
cieli, scivolò sulla cima di una capanna piuttosto malridotta, le mancava
perfino una buona parte del tetto. La stella illuminò una coppia e un bambino
che vagiva a braccia spalancate, ognuno vide perfettamente per quanto fosse
lontano e fosse buio:
<È nato anche quest'anno> gridarono, belarono,
ragliarono e muggirono tutti insieme, anche i pesci dello stagno
piroettarono.
<Questa non me l'aspettavo> brontolò il
mugnaio svegliando sua moglie che si era addormentata davanti alla televisione,
per quanto non fosse stata ancora inventata nemmeno quella, <che fai, dormi,
amore?> le disse strattonandola, <Quante volte ti devo ripetere di non
chiamarmi così forte quando mi abbiocco? > gridò lei furibonda, <poi mi
sento male come ora, ecco>.
<Ma Lui è nato anche quest'anno> fece il
marito afferrando due pagnotte ancora calde da portare alla grotta come faceva
regolarmente da quando l'avevano modellato così bello, era solo riuscito un po'
più grande degli altri, difatti nel presepio l'avevano soprannominato "Il
gigante".
<È nato in questo caos? Coi peccatori
incalliti e mummificati, i poeti disprezzati, le mamme che hanno la depressione
post partum e i politicanti scatenati, le escort e i lbunga bunga?>.
<È nato anche stavolta> fece il mugnaio
afferrando la pelliccia di visone e porgendogliela.<Sì, vengo, ma non mi
metto quella...mi vergogno di averla pretesa...dammi la vecchia mantella, l'ho
appesa fuori dai piedi, in alto e non ci arrivo senza salire sulla sedia. Tu,
invece, sei bello alto> lo lodò, l'uomo ringalluzzì e arrossì
perfino.
La lavandaia, che stava scambiando un bacio
passionale, ma non troppo per non dare luogo a procedere, con l'incantato della
stella rizzò la testa: <Hai sentito, forse, piangere un bambino? Lui deve
essere nato un'altra volta. I pannolini si devono ancora stirare, vado, tu
comincia a correre alla grotta> disse scappando. E pensava: <È nato, lo
fa ogni anno, niente e nessuno lo può fermare>.
<Come ti senti, cara?> chiese Giuseppe a Maria
mentre le luci della stella suscitavano mille colori di qua e di là e il
focherello che egli aveva acceso sembrava un termosifone gigantesco, tanto
riscaldava e sebbene nemmeno i termosifoni fossero stati ancora inventati.
<Bene, come tutte le volte. Il Bambino non mi ha
fatto più male di un raggio di luce che mi ha attraversata>.
<Guarda, arrivano i pastori, come ogni anno>.
<C'è lo zampognaro nuovo e anche un
gelataio... con tutta questa neve> ridacchiò Maria.
La consegna
di Renzo Montagnoli
“Siete in mezzo a un lago. Tornate indietro
quanto potete.”.
- Oh, no, accipicchia. Il navigatore si è guastato,
proprio adesso che mi sembrava di essere così vicino.
Il Babbo Natale n. 151 tirò i freni, pardon le
redini, delle sue 180 renne e la slitta, ondeggiando di qua e di là, si fermò
sollevando un polverone di neve.
- Vicino, ma dove sono?
Babbo Natale si sollevò il cappuccio e si diede una grattatina in
testa, poi prese la bolla di consegna e guardò l’indirizzo:
Antonio Carugati – Viale delle Ginestre,
2124 – Milano.
Volse lo sguardo all’intorno e nel buio, grazie al
candore della neve che aveva ormai imbiancato tutto e continuava a scendere,
non vide altro che i muri di grandi capannoni, di opifici industriali, di
magazzini commerciali.
Era sì in mezzo a una strada, ma che quella fosse il
Viale delle Ginestre era alquanto improbabile, perché a parte qualche smorto
lampione che faceva indovinare un marciapiedi, non c’era nemmeno l’ombra
di una pianta.
E provare a chiedere a qualcuno, forse si risolve il
problema – disse fra sé e sé. Ma chi mai avrebbe potuto trovare in
quella strada desolata proprio la notte di Natale?
Tentar non nuoce – pensò. E allora allentò, di poco le
briglie, e le 180 renne della sua slitta modello Super Sport cominciarono a
trotterellare.
Andava piano, volgeva lo sguardo a destra e sinistra,
ma case non ne vedeva, anzi era una quasi una foresta di cemento.
Si stava perdendo d’animo e già pensava di richiedere
un soccorso celeste con il suo fantacellulare, quando scorse un vago chiarore,
come di un fuoco che si sforzava di restare in vita nonostante i fiocchi che da
più parte lo investivano.
Si avvicinò cautamente e vide che in
effetti c’erano alcuni pezzi di legno che debolmente bruciavano e alla
luce di quelle esili fiammelle apparvero ai suoi occhi due fagotti che parevano
in preda un tremito incontrollabile.
Si fece più vicino e riconobbe così due umani che
saltellavano, probabilmente per scacciare il freddo.
- Scusate, mi sapete dire dov’è Viale delle Ginestre?
Nessuna risposta.
- Vi prego, per cortesia, dov’è?
Uno dei fagotti gli si avvicinò, lo guardò ben bene e
disse rivolto all’altro:
- Lo sapevo che quella grappa che avevamo comprato era
scadente, tutto alcool e niente gusto. E infatti, mi sta togliendo la
vista, mi fa vedere cose che non ci sono, come addirittura Babbo Natale.
- Ci sono, esisto, non è una tua immaginazione. Prova
a toccarmi.
L’uomo tese il braccio, avvertì il calore del panno e
sbottò:
- Che mi venga un accidente! Questo vecchio con la
barba dice il vero.
- Certo che dico la verità. Adesso vi chiedo
ancora di dirmi dov’è Viale delle Ginestre?
I due si guardarono in faccia e allargarono le
braccia.
- Non lo sapete?
- Mai sentito – risposero in coro.
- E per caso, non vi dice nulla il nome Carugati?
Il più vicino, quello che gli aveva toccato il
braccio, si grattò in testa, forse per aiutare la memoria.
- Carugati, Carugati, non mi è nuovo, ma sì,
adesso mi viene in mente, è un riccone – e volgendosi all’altro – ed è quello,
se ti ricordi, che l’anno scorso, quando abbiamo suonato al campanello della
sua villa per gli auguri di Buon Natale, ci ha quasi sparato addosso.
- Ah, ma allora sapete dove sta?
- Sappiamo dove stava, perché è andato via?
- Come andato via?
- Dicono che ha comprato un’altra villa, ancor più
grossa, con piscina, campo da tennis, maneggio e campo da golf. Però dove
sia non lo sappiamo e nemmeno lo vogliamo sapere, perché a quel taccagno non
faremo più gli auguri. Dico bene?
Sì – rispose l’altro.
- Ma tu cosa devi andare a fare da Carugati?
- Devo portargli i regali di Natale.
- I regali di Natale a uno che ha già tutto, anzi più
di tutto? E scommetto che sono in quel tir che ti porti dietro, vero?
- Sì.
- Che c’è?-
- La solita roba per i ricconi: caviale, champagne,
ostriche, cibarie varie, coperte di lanamerinos, giacconi imbottiti delle più prestigiose firme.
- Ma non ti vergogni di portare così tanto a
chi ha già così tanto?
- Obbedisco solo agli ordini e si vede che Carugati ha
qualche Santo in Paradiso.
I due si fecero ancora più vicini ed esclamarono:- E
perché non dobbiamo avere anche noi qualche santo in Paradiso?
Poi, il primo, quello che gli aveva toccato il
braccio, si accostò al suo orecchio destro, mormorando:
- Come puoi vedere, noi siamo dei barboni, dei
clochard, non abbiamo nulla, se non la nostra miseria che ci è compagna
e stimolo per continuare questa vita da emarginati. Non cercare Carugati,
fermati con noi e, se c’è un Paradiso, credo che non possa che essere contento
di vedere che almeno in questa notte un briciolo di giustizia è sceso sulla
terra.
- Più facile a dirsi che a farsi, perché lassù
controllano e sono inflessibili, altrimenti tutto andrebbe in vacca. Ma in cuor
mio so che avete ragione e mal che vada mi potrebbero licenziare, esiliare su
una nuvoletta sperduta, farmi fare la corvé di pulire con la ramazza
ogni giorno tutti i sentieri che corrono fra gli astri, togliermi la compagnia
delle renne, mettermi in cucina a fare il lavapiatti e là di piatti ce ne sono
tanti, un numero infinito.
- E allora?
- E allora che Carugati vada al diavolo; ci
sto, mi fermo e la roba è per voi.
Urla di gioia accompagnarono quest’ultima frase e rese
tutti più intraprendenti. Il fuoco fu ravvivato, i due barboni si ricoprirono
con i giacconi imbottiti, si iniziò a pasteggiare con caviale e
champagne. Nel corso di quel cenone Babbo Natale non mangiò molto, ma si vedeva
che era contento che gli altri si saziassero.
Si iniziò a chiacchierare e uno gli chiese: - com’è
la vita lassù?
- Piuttosto monotona, tutti i giorni le stesse cose,
ma non c’è da lamentarsi, perché là siamo uguali in tutto.
- Ci sono dei poveri, dei barboni?
- Evidentemente no, anzi sono poveri quando bussano al
portone, ma una volta dentro diventano tutti ricchi, di una ricchezza
interiore che si chiama beatitudine. E voi, scusate,la domanda, come mai
siete dei barboni?
- Io…
- Io…
- Uno alla volta per carità, magari comincia
tu che sei stato il primo a parlare con me.
Costui era un tipo di una magrezza spaventosa, con gli
occhi cisposi e la voce che con lo champagne tracannato si era fatta roca,
appena percettibile.
- Rispondo, hic, se bevi anche tu, hic.
E Babbo Natale cominciò a bere.
- Chiamami Ben. Vedi, io non ero come mi vedi ora,
ero uno come gli altri, casa, ufficio, ufficio, casa, e così via, hic. Un
giorno, però, ho piantato tutto, hic. Mi sono stufato di quella
vita talmente uguale da non accorgermi del tempo che passava e, hic, ho
iniziato la mia carriera di barbone.
Si fece avanti l’altro, pure lui un po’ brillo.
- Io sono Aristide, Aristide e basta, il cognome l’ho
dimenticato. Non mi andava questo mondo, con i ricchi sempre più ricchi e i
poveri sempre più miseri, con le ingiustizie sempre in danno dei più deboli e a
vantaggio dei più forti.
Il vino, il pasto abbondante cominciarono ad
avere effetto e i tre - sì tre perché anche il Babbo Natale 151, non avvezzo
all’uso delle bevande alcoliche, ne fu contagiato - si addormentarono
pesantemente e nemmeno sentirono i suoni delle lontane campane che a mezzanotte
annunciavano la nascita di Gesù.
Furono trovati all’alba da una pattuglia della
stradale, raggomitolati nella neve, difesi dal freddo solo dall’abbondante dose
di alcool che avevano trangugiato. Delle renne e della slitta non
c’era traccia, erano semplicemente sparite.
Li portarono al commissariato e Ben, che fu il primo a
risvegliarsi, raccontò una storia che non stava né in cielo, né in terra e cioè
che avevano cenato con Babbo Natale, avevano bevuto a volontà ed
ebbri si erano addormentati.
Il commissario Santanastasia, già incavolato per
essere di servizio il giorno di Natale, diede un pugno sul tavolo che fece
cadere tutta la collezione di penne che lì stazionavano permanentemente
del tutto inutilizzate.
- Ma che cazzo e cazzo! Dovrei credere a una
minchiata del genere?
E rivolto al suo aiutante, urlò:
- Portami quello vestito da Babbo Natale.
Questi, ancora intontito, entrò barcollando
nell’ufficio e fu fatto sedere con una certa difficoltà, perché se faceva
fatica a camminare dritto, altrettanto gli risultava difficile restare fermo da
seduto e così prese a oscillare da una parte all’altra.
- Senti, bel tomo. Chi sei e cosa facevi lì?
Dalla bocca impastata uscirono suoni disarticolati.
- Non prendermi per il culo. Cazzo, rispondi in
modo chiaro.
- Sono Babbo Natale 151.
- Sì, e io sono Rockfeller.
- Piacere signor Rockfeller.
- Ma che Rockfeller e Roffeller del
cazzo! Sei ubriaco, ma mi prendi in giro. Ripeto la domanda: chi sei?
- Sono Babbo Natale 151.
- Ispettore, portalo via, levamelo di torno.
- Commissario, con che motivazione li tengo dentro?
- Gli altri due rimettili fuori; questo, vediamo,
questo lo arresti per offesa a Pubblico Ufficiale.
- Che offesa?
- Come che offesa? Scrivi: alla domanda di declinare
le proprie generalità, il soggetto, non in possesso di documenti di identificazione,
dichiarava di essere Babbo Natale 151. Reiterata la domanda, la risposta era la
medesima. Ah, quando gli passano gli effetti dell’alcool, chiedigli di nuovo
chi è.
Era già il pomeriggio quando Babbo Natale rientrò nel
pieno possesso delle sue facoltà e alla domanda chi lui fosse rispose che
era Babbo Natale 151.
Informato della cosa, il commissario, d’intesa con i
magistrati, ne dispose subito il ricovero coatto presso l’Ospedale Neuropsichiatrico.
L’ambiente era cupo, sbarre alle finestre, porte
chiuse, urla di dementi e Babbo Natale 151 se ne stava coricato sul letto,
stretto dalla camicia di forza.
Ripensò a quanto era accaduto e, per la prima volta
nella sua vita, pianse, poi volse gli occhi al cielo e invocò Gesù.
- So tutto - questi gli rispose.
- Vorrei tornare.
- Certo.
- E mi manderai in esilio, mi farai pulire i sentieri
fra gli astri, mi farai lavare i piatti? Farò tutto questo, pur di
tornare.
- No, Babbo Natale 151, tu tornerai illuminato dalla
tua nuova luce, da quella bontà che era in te e che non conoscevi.
- E le mie renne?
- Già recuperate.
- Grazie, grazie; mi toglierai dal servizio?
- Ma che dici? Il prossimo Natale scenderai
sulla terra con migliaia di cose utili per chi ha veramente bisogno, ritroverai
i tuoi amici barboni, e anche gli altri tuoi colleghi conosceranno le favelas,
le città del dolore, gli occhi tristi di bimbi che non sanno che cos’è la
gioia.
- Ma allora, sono perdonato?
- Perdonato? Non c’è bisogno di perdono; tu hai fatto
quello che ti ha detto il tuo cuore, hai ragionato con questo muscolo che a
volte in non pochi umani sembra mancare. E adesso vieni. Chiudi gli occhi e
quando li riaprirai sarai nel tuo cielo.
Il commissario Santanastasia trascorse Santo
Stefano, il Capodanno e l’Epifania ancora più nervoso del solito, perché né
lui, né nessun altro riuscivano a comprendere come un alienato
mentale che si proclamava Babbo Natale, stretto nella camicia di forza e chiuso
in una camera di sicurezza fosse riuscito a fuggire senza lasciare traccia.
- E se fosse veramente Babbo Natale? No, meglio non
pensarci, altrimenti ammattisco anch’io; insabbiamo l’indagine, perché in fondo
non aveva fatto niente di male. Ispettore, nascondi il fascicolo!
Uscito il collega, Santanastasia cominciò a
rimuginare fra sé e sé “ Macché Babbo Natale, ci credono solo i bambini
a una cosa del genere. Però come abbia fatto a sparire è un mistero:
nessuna traccia di effrazione, le sbarre intatte, la camicia di forza ben piegata
sul letto. Nemmeno il mago Houdini sarebbe stato capace di tanto. Meglio
darsi una calmata e non pensarci più. Sì, è la cosa migliore. Però…, però, se
trovassi per caso quell’uomo anziano con la gran barba bianca, così,
amichevolmente, mi farei spiegare come ha fatto a scappare e se mi risponde
ancora che lui è Babbo Natale, non so che gli faccio, anzi no…, gli chiedo dei
doni per i figli dei poliziotti.”
Tutti belli i racconti, ma il suo, con questo Babbo Natale pasticcione fa ridere e porta pwerò anche un grande messaggio di pace.
RispondiEliminaAgnese Addari
Cinque bei racconti, tutti diversi ma uniti da un filo che ha il caldo colore della bontà e della condivisione. Magari fosse così per tutto l'anno!
RispondiEliminaFa bene leggere storie come queste perché hanno il pregio di portare alla luce i nostri migliori sentimenti, quelli più intimi e sinceri.
Il Natale più bello per la zia, quello descritto da Sciascia, quello, tra il serio e il faceto, di Mimma, il tuo, tra ironia e profondità, e il racconto di Salvo Zappulla, dove dal dolore nasce una maggiore consapevolezza.
E' stato bello leggerli, come è bello questo appuntamento ormai annuale.
Grazie. Buone festività a tutti.
Piera