sabato 9 novembre 2019

I racconti






Il Natale di Poldo
di Renzo Montagnoli




Si accovacciò contro un pilone del ponte, per parare un po’ il vento che accresceva la sensazione di freddo, ma era tutto bagnato, per via di quella neve che, cadendo, faceva un pulviscolo che entrava ovunque. Anche quel giorno era arrivata la sera dopo tanto peregrinare in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti, ma, all’infuori di un tozzo di pane rinsecchito, non aveva trovato altro, e per di più aveva dovuto combattere per difenderlo, e ora gli faceva male una zampa che un pastore tedesco, compagno di sventura, aveva morso nel tentativo di impadronirsi di quel poco cibo. Guardò in su e non vide nulla, se non i vortici della neve che cadeva; non c’erano altre possibilità di trovare qualcosa da mangiare e allora tanto valeva cercare di dormire, per avvertire meno i morsi della fame e il gelo che implacabile faceva breccia nel suo corpo. Fu così che si addormentò e che subito prese a sognare. Si vide cucciolo intento a poppare dai capezzoli della mamma, di cui non ricordava il muso, ma che aveva sempre desiderato poter ritrovare. Forse quella vita randagia insieme a lei sarebbe stata più sopportabile, una vita che non aveva cercato, ma a cui era stato costretto. Era ancora da svezzare quando era stato venduto a un vecchio che anziché curarsene lo batteva per ogni errore, perché, per esempio, faceva pipì in casa e lui che colpa aveva di questo, se non veniva portato fuori per farla? Poi l’anziano era morto e lui era stato preso dal figlio, forse peggio del padre, visto che spesso e volentieri si dimenticava di dargli da mangiare e che sovente lesinava anche sull’acqua, soprattutto in estate, quando, legato a una corta catena, stava nel cortile assolato a fare la guardia. Un tormento, la sete, che incideva sulla naturale bontà del suo animo, che lo portava ad abbaiare e a ringhiare con tutti in un crescendo di dolore che lo stravolgeva. Poi, un giorno, non si sa come accadde, si ruppe il collare e così si trovò libero; corse subito via, attraversò la strada fra auto che frenavano di colpo e senza orientamento camminò, camminò tanto, quasi a voler mettere fra sé e il suo padrone una distanza insormontabile. Iniziò così la dura vita del randagio, fatta di lotte per lo scarso cibo, di freddo in inverno e di caldo torrido in estate, ma era pur sempre meglio di essere legato a una catena, di essere considerato solo uno schiavo. Nel sogno questa succinta storia della sua esistenza non c’era, mentre invece era un susseguirsi confuso di immagini, quasi tutte dolorose, visto che nella sua vita mai aveva conosciuto l’affetto di un padrone. Si vide piangente, un lungo fremente guaito davanti a una porta che si apriva sul buio e che lui istintivamente si sforzava di non valicare, perché oltre intuiva un salto nel nulla. Senza famiglia, senza carezze, non c’era tuttavia un senso a continuare, ma i sogni permettono molto, ci fanno vivere ciò che speriamo, e infatti anche lui a un certo punto avvertì il caldo tepore di un focolare, il profumo di una zuppa nella ciotola, una mano leggera le cui dita affondavano nel pelo irsuto della sua schiena, una sensazione mai provata, un sogno meraviglioso da cui non avrebbe mai voluto svegliarsi. E invece udì delle voci, il trillo di un campanello, si sentì sollevare e allontanare, se pur di poco, dal calore di quel fuoco, si accorse che la zuppa era ora a stretto contatto con il suo muso, estrasse la lingua ed esplorò soddisfatto la ciotola. Cercava di non risvegliarsi, ma ebbe una strana sensazione, e cioè come se quello che vedeva nella sua mente assopita fosse vero, reale e cercò anche di opporre resistenza quando udì una voce che lo invitava a svegliarsi. Poi aprì un occhio, si guardò intorno e spalancò anche l’altro: non c‘era più il ponte, la neve non cadeva, era disteso su un panno in una camera vicino a un focolare, davanti a lui c’era la ciotola con la zuppa e più in là un uomo e un bambino che lo guardavano.
- Si è svegliato, papà.
- Vedo, mi fa piacere.
- Lo teniamo, vero papà? Chissà quanto ha sofferto senza nessuno, ma adesso ci siamo noi.
- Sì, lo terremo e ne avremo cura, ma bisogna trovargli un nome. Come lo chiamiamo? Dick, Black, ma nero non è, Birba?
- No papà, oggi è Natale, il giorno in cui è nato Gesù, lo vorrei chiamare Natalino.
- Dai, un nome così a un cane? Gesù forse si offenderebbe? Trovane un altro.
- Vediamo, non saprei, ma no, ecco forse ho trovato: Poldo.
- Bellissimo nome e piace anche a lui e infatti si è messo a scodinzolare.
Poldo li guardava in estasi e pensava fra sé che anche lui come quel Gesù si considerava nato a Natale, perché quella che stava per iniziare era la vita che aveva sempre sognato.






La nostalgia delle sirene
di massimolegnani




Cammino nel primo buio di città, che vero buio non è mai, tra una folla in fervore natalizio, la folla, non io, che devo solo fare una commissione che col Natale non c’entra nulla e ho scelto l’ora peggiore per farla.
Passi affrettati a togliermi d’impiccio e un umore nero che mi serpeggia dentro, quando una sirena improvvisamente squarcia i canti d’atmosfera diffusi da ogni dove per la via: un’ambulanza si destreggia nel traffico e presto ne resta intrappolata, nelle auto musica palla o chiacchiere distratte, bambini che strepitano, genitori che litigano e nessuno che si sposta. Adulti, anziani e piccoli si tappano le orecchie infastiditi dal persistere del sibilo come fosse colpa della lettiga l’essere lì bloccata. Io le orecchie le dilato al bel suono del soccorso e provo un furore da highlander, potessi ammonticchierei le macchine ai lati della strada per aprire un varco come quell’altro le acque del Mar Rosso. Poi per fortuna l’ambulanza non so come riprende la sua corsa e la sirena si fa sempre più lontana. La gente torna a muoversi stupidamente trafelata, tutto riprende a scorrere e a correre, solo io resto lì sul marciapiede scosso da un tremito che non è di freddo. È che mi emoziono al suono bitonale e a quello acuto, allo sfolgorare dei lampeggianti blu, alle tante manifestazioni dell’urgenza, sono un cane di Pavlov che scodinzola a quel sibilo che mi riporta a quando da bambino sognavo di salirci sull’ambulanza e a tutti gli anni in cui poi lì sopra ci sono salito veramente.
Abitavo in corso Sempione, vicino all’Ospedale, e ogni volta che sentivo l’ululato di una sirena correvo alla finestra per non perdermi il passaggio. Guardavo l’ambulanza, immaginavo dentro la persona sofferente e mi esaltavo al pensiero che di lì a poco papà, che era chirurgo, le avrebbe risolto ogni male e malattia. Forse fu allora che, per la magia di quella macchina speciale che raccattava in giro feriti e moribondi e di corsa li portava a riparare in quell’altro luogo miracoloso dove per me la riparazione, la guarigione, erano l’unica ipotesi possibile, decisi di diventare medico.
E vent’anni dopo ho cominciato a far trasporti verso una qualunque meta, Torino, Genova, Alessandria, Milano, ovunque ci fosse qualche speranza di salvezza in più. Viaggi veloci quando erano neonati dal respiro flebile, e febbrilmente lenti sul pavè di città quando era una testa in cocci che reggevo tra le mani, viaggi solitari con le mani dentro l’incubatrice a ventilare e a fare terapia gridando all’autista di sbrigarsi o viaggi assieme alla disperazione delle madri, i gesti misurati a non sommarle angoscia e le parole calibrate che non suonassero di beffa se vedevano la vita del figlio appesa a un filo, viaggi bestemmiando gli imprevisti e i guasti, la corrente che scompare, l’ossigeno che si esaurisce e allora ti inventavi elettricista a ripristinare i contatti e non so quale mestiere a sostituire la bombola con una chiave inglese di fortuna, e viaggi pregando tutti i santi che a volte ti smarrivi e ti scoprivi senza più risorse, viaggi in piena notte con le strade vuote e in un battibaleno sei a destinazione e viaggi in piena festa che ti monta un odio viscerale per tutta quella gente che fa baldoria per le strade o vuol tornare presto a casa e in ogni caso se ne fotte d’intralciaciarti, viaggi in ambulanze supertecnologiche con il rianimatore con cui dividere l’affanno, e viaggi su un furgone, il mio primo appena laureato, adibito per l’occasione ad ambulanza, la bambina su una barella in tela e manici di legno adagiata sul pianale, io inginocchiato al pavimento, una mano alta a reggere una flebo e l’altra a carezzare la bambina spaventata, sembrava tempo di guerra ed era l’inizio degli ottanta.
Non mi sono mai abituato alla trepidazione di quei viaggi, non ho mai raggiunto quel distacco dagli eventi che forse ti fa agire a mente più lucida, ma che certo rischia di trasformare l’emozione in disincanto e i bambini in merce da spostare da un magazzino all’altro. Non mi erano mai estranei quei bambini, li avevo visti nascere e subito declinare o li avevo curati per giorni in reparto senza ottenere un miglioramento oppure li avevo accolti in pronto soccorso, gravi da subito, allora erano cure concitate per stabilizzarli prima del trasferimento.
L’ultima sirena è stata per un bambino che me l’ha chiesta risvegliandosi da un torpore preoccupante, non era necessaria, poco più di un gioco per giocare insieme a lui, una musica per me che segnava un lieto fine e che mi è rimasta dentro.




L’aspettava
di Giovanna Giordani




L’aspettava. Inconsciamente. La sua comparsa, lo sapeva da sempre, era come un balsamo. Un balsamo gratuito e ineguagliabile, per le ferite dell’anima.
La vita, si sa, è sempre un’ attesa. L’attesa di cosa? Della felicità, naturalmente.
Mentre camminava, si alzò un forte vento che le schiaffeggiò il viso. Si riparò avvolgendo la sciarpa fino a coprire ben bene anche il capo. - Come una Madonna - disse sorridendo fra sé. Poi continuò, accelerando il passo.
Quante volte aveva compiuto quel gesto nella sua vita. Proteggersi dal vento che le schiaffeggiava il viso. E com’era riconoscente allo stesso quando smetteva il suo turbinare lasciandola continuare il suo cammino senza ostacoli tangibili. Così continuava speranzosa la sua vita. Sì, perché lei era un’ottimista. E si ripeteva sempre che la vita è un bel mistero che vale la pena di vivere, nonostante tutto.
Il Natale era alle porte con tutto il suo carico di sacro e profano e le giornate ne erano ineluttabilmente impregnate.
L’aspettava. Sarebbe giunta come una musica dalle note carezzevoli che dolcemente avrebbero invaso la mente raggiungendo velocemente il cuore, sempre assetato di bellezza. Il Natale era il periodo preferito per il suo arrivo.
Il vento si stava allontanando e lei sollevò il viso verso il cielo. Proprio in quel momento sentì che si stava avvicinando, ne intuì il passo leggero, e intravide la trasparenza del suo mantello. Quanta gioia! Assaporò i suoi baci delicati sul viso e si fermò in un muto ringraziamento per i suoi abbracci leggeri. Giunse davanti alla porta di casa, ma la nuova arrivata non volle entrare. - Non andrò lontano – sussurrò – se entrassi morirei, il mio posto è all’aperto, qui fuori, dove i nostri occhi s’incontreranno e parleranno per noi -.
Era dunque lì, vicina, sempre fedele e splendida. Si scambiarono sguardi colmi di complicità.
Le separava un vetro sottile, ma nulla ostacolava il loro felice muto dialogare. A lei poteva aprire il cuore, si sentiva compresa. L’ascoltò, lasciando che calamitasse il suo sguardo rapito, come in un’estasi. Tutto questo avrebbe avuto breve durata, lo sapeva. Ma nessuno, ne era sicura, avrebbe saputo donarle quei momenti idilliaci, unici, carichi di lieto turbamento e di magia dove passato e presente si eclissavano in favore del misterioso fascino carico di pace che giungeva da chissà quali lontananze portato con ineguagliabile leggerezza da quella meravigliosa... neve.






Sorriso
di Piera Maria Chessa






Fiorella andava spesso in quel supermercato, trovava un po' di tutto e i prodotti erano ottimi. Non lo conosceva fino a poco tempo prima, vi era entrata velocemente una prima volta, per caso, alla ricerca di qualcosa che non aveva trovato altrove. E fu proprio quella prima volta che incontrò una donna che, dopo qualche tempo, avrebbe contribuito a cambiare molte sue convinzioni ormai radicate.
Non seppe mai il suo nome nè mai glielo chiese, per lei inizialmente fu "la donna con il cane".
In realtà, dentro di sè, un nome glielo diede, parecchio tempo dopo, la chiamò Sorriso, perché nonostante tutto, sorrideva sempre.
Vi chiederete di chi io stia parlando, ed ora ve lo dirò.
Sorriso non era una delle tante persone che si incontrano all'interno di un supermercato, e neppure per strada, Sorriso era una donna che chiedeva l'elemosina, che era costretta a chiedere l'elemosina per poter mangiare.
Fiorella, in quel giorno di gennaio, si ricordava ancora che nevicava, la vide poco fuori dall' ingresso del negozio, appartata in un angolo per potersi riparare. Indossava abiti non adatti per quella giornata fredda, aveva capelli neri, raccolti in una sorta di crocchia, le gote rosse. Difficile intuire quale fosse la sua età. Non era bella, ma lo era il suo sorriso.
Era una donna discreta, non imponeva la sua presenza, non chiedeva
l'elemosina nè tendeva la mano. Accettava ciò che le veniva donato e ringraziava sempre. Ma non erano queste le caratteristiche che avevano colpito Fiorella, l'aveva colpita il fatto che tenesse con sè un cane e che lo trattasse con cura e affetto, dividendo con lui il poco che aveva.
Era un cane di grossa taglia, un meticcio dal manto castano, non proprio giovanissimo, esattamente come la sua padrona, e come lei piuttosto magro. Entrambi stavano accoccolati per terra, Sorriso addossata al muro, il cane accucciato ai suoi piedi. La cosa che incuriosì Fiorella fu vederla prendere una piccola coperta logora e scolorita in più parti da una vecchia sacca che teneva al suo fianco, e poi stenderla con delicatezza sul corpo del suo cane rimboccandola infine sui lati. Pensò che solo una madre poteva mostrare tanta premura verso un figlio.
Fiorella non era una persona che si commuoveva facilmente, sembrava a tratti dura nel rapportarsi con gli altri, forse perchè la sua vita non era mai stata facile, neppure da bambina. Aveva incominciato presto a nascondersi dentro un robusto guscio perché non voleva più soffrire, non dava confidenza a nessuno nè accettava confidenze. Era il suo modo di difendersi e non ne conosceva altro. Troppi insuccessi, così un giorno aveva deciso di non chiedere più niente, ma anche di non dare niente. Si ripeteva continuamente che avrebbe saputo badare da sola a se stessa, che non avrebbe avuto più bisogno degli altri.
Era stata una bella ragazza, ora, non più giovanissima, lo era ugualmente, ma da anni le esperienze negative avevano disegnato delle pieghe profonde ai lati della bocca e reso il suo sguardo duro e scostante.
Viveva da sola, casa e lavoro, lavoro e casa. Pochissime amicizie, nessuna relazione sentimentale ormai da tanto, l'unico modo per non farsi ferire, diceva a se stessa e alle poche persone che, nonostante tutto, cercavano di capire il suo malessere.
Erano trascorsi così alcuni decenni.
Ora si avvicinava il Natale, periodo che viveva con una certa insofferenza, non amava fare regali nè tantomeno riceverne, non si lasciava catturare dalla magia e dalle atmosfere di questo evento, tutte cose da lei ritenute inutili e vuote.
Eppure, doveva arrivare un dicembre particolarmente freddo per far scattare nel suo animo qualcosa che non aveva previsto e che smosse alcune sue granitiche certezze. E doveva arrivare una donna poverissima e dal sorriso sempre pronto per aiutarla a capire che la vita non è solo sofferenza e ingiustizia, che esiste anche qualcosa di gratuito che viene donato senza secondi fini.
Mancava una decina di giorni al Natale, Fiorella decise una mattina di recarsi nel solito supermercato a fare delle compere, acquistò diverse cose e si avviò verso le casse. Posò tutto sul ripiano e cercò il portafoglio per pagare. Fu in quel momento che si accorse di non averlo più. A parte l'imbarazzo, pensò alle sue scarse riserve di denaro, non era infatti il suo un lavoro ben retribuito. Si scusò con la commessa e uscì velocemente dal supermercato pensando di ritrovare il portafoglio perso probabilmente per strada. Niente da fare. Disorientata per ciò che era successo, camminò per un po' a casaccio lungo il marciapiede.
Ad un certo punto sentì una voce femminile che la chiamava, non capì subito perché la donna che le veniva incontro si esprimeva in un italiano piuttosto incerto mentre le mostrava qualcosa che teneva tra le mani. Andò verso di lei e la riconobbe. Era la stessa che da diverso tempo vedeva seduta fuori dal supermercato con il suo cane, la stessa che le sorrideva inutilmente quando lei andava a fare i suoi acquisti.
"Signora, questo è tuo", le disse, porgendole il portafoglio, "è caduto qui, vicino alle zampe del mio cane". Poi aggiunse, in modo confuso, che l'aveva cercata all'interno del negozio senza trovarla perché lei era già andata via.
Fiorella non sapeva che dire. Quante volte si era mostrata infastidita nel vedere tanta povera gente tendere la mano nelle strade, quante volte aveva detto con sicurezza che si trattava di gente che non aveva voglia di lavorare. Per mesi era entrata ed uscita dal supermercato senza rivolgerle la parola, solo una volta, lo ricordava, era rimasta stupita nel vederla coprire il suo cane, in un giorno freddissimo di gennaio. Era stato un attimo, pochi secondi durante i quali, ricordava ora, si era quasi commossa, neppure adesso in fondo voleva ammettere di essersi commossa veramente.
Non sapeva che fare. Capì in pochi istanti quanto la sua vita fosse diventata arida, quante opportunità avesse sprecato, e forse quanto dolore anche lei avesse causato agli altri.
Una povera donna incontrata per strada forse le aveva indicato un modo diverso di vivere la propria esistenza, per quanto questa possa essere dolorosa ed estremamente faticosa.



3 commenti:

  1. Sempre un piacere fermarsi qui. Storie che coinvolgono ed emozionano, personaggi che catturano... Il Natale di Poldo, cagnolino che intenerisce, bellissima la foto, mi ricorda un po' il tuo cane, ma non lo ricordo bene; La nostalgia delle sirene, una storia di accoglienza e sensibilità davanti al dolore; L'aspettava, l'attesa di un candido dono, una gioia anche per i "grandi".
    Grazie, Renzo.
    Piera

    RispondiElimina
  2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  3. Grazie, Renzo! Li avevo letti su Arteinsieme ed è stato piacevole rileggerli qui. Poldo, La nostalgia delle sirene, Sorriso, sono proprio delle perle che risplendono di umanità! Grazie!!
    Gio

    RispondiElimina