Lo smemorato
di Renzo
Montagnoli
Quando aveva avuto inizio quella
congiura proprio non se lo ricordava; forse era stato un lunedì mattina dopo
una domenica indolente, oppure un sabato, verso sera, nell’attesa di un’altra
domenica pure scialba come tutti i giorni, e forse anche di più, perché dalla
festa ci si aspetta sempre qualche cosa di diverso, niente di particolare, ma
un fatto, pur se infinitesimale, dissimile dal solito tedio, da una
noia di imprecisata origine, ma a cui si lasciava sempre andare.
Era successo, quello sì lo
sapeva, era accaduto infatti che la memoria si fosse di colpo
inaridita, ma non la memoria storica, bensì quella più recente, anzi
recentissima.
E così uscire di casa
per andare a fare la spesa e invece vagare senza una meta era diventata
un’abitudine; il camminare per le strade, guardando all’intorno senza sapere il
perché si era lì, era diventata la prassi quotidiana, come andare a prendere il
caffè al bar e uscire senza pagare. Ormai lo conoscevano e, posata la tazzina, gli
ricordavano il dovuto, e lui non batteva ciglio, metteva sul banco la monetina
da 1 Euro, anche se del caffè appena bevuto non rammentava più
nemmeno l’aroma.
I suoi l’avevano fatto visitare
da più medici, non avevano esitato e l’avevano portato perfino alla clinica
universitaria, per sentire sempre la stessa risposta: è l’età.
Certo non aveva più venti
primavere, i settanta erano già stati superati, ma la moglie gli andava
ripetendo: - Non può essere l’età, perché anche la mia è quasi la tua, eppure
ricordo ogni cosa, e se non ci fossi io qui non s’andrebbe avanti.
Lui allargava le braccia e
s’incupiva, perché quell’assenza di un tempo presente gli sfarfallava nel
cervello, e più cercava di ripescare l’appena avvenuto, più sopraggiungevano,
affollandosi, i ricordi di un tempo assai remoto.
Capitava così che si sovvenisse
di un fatto primordiale, la sua nascita, con quel farsi largo in uno stretto
pertugio, per poi imbattersi nel mondo di mani che lo afferravano, gli facevano
un bagnetto e poi lo mettevano fra le braccia di una madre ansante,
ma felice.
E le prime poppate, attaccato al
turgido capezzolo, affluivano come un torrente in piena, lo travolgevano,
stuzzicavano le sue papille gustative ed il dolce di quel nettare si
scioglieva in bocca, accarezzava il palato e scendeva a ristorare lo stomaco
impaziente.
Poi vennero le
pappine, intrugli accettati suo malgrado, i primi pasti, l’asilo, con
quel bimbo che gli rubava le merendine e quell’altro che lo spingeva sempre a
terra.
Proseguiva nella sua cavalcata di
reminiscenze, passando dai banchi di scuola, su cui curvo s’ingegnava a
imparare, a quelli dell’ufficio, in perenne lotta per non restare indietro.
Anche dell’amore aveva memoria,
come di un’alba brumosa in cui di colpo s’irradiava il sole; di passioni
trepidanti, di ansie notturne, di pulsioni sessuali c’era nitido il ricordo,
come quello del primo bacio, le sue labbra tremanti, l’esplosione in fondo al
cuore.
E in ogni caso nulla era stato
gratuito, fatiche e privazioni, delusioni e affanni erano state compagne
assidue e costanti, una gran fatica per vivere ogni giorno, per restare in un
mondo che corre sperando sempre in un domani.
Poi, più passavano gli anni e ci
si avvicinava al presente, sbiadiva la memoria, scoloriva, come se l’obiettivo
fosse andato fuori fuoco, non tanto però per non dimenticare che l’amore per la
moglie da passione era diventato affetto e, forse, oramai s’era
trasformato in abitudine. La libertà, che aveva sognato con la pensione, si era
rivelata una chimera e il non far niente una monotona prigione.
Tanti anni di lotte, di fatiche,
anche di illusioni per poi finire un giorno come tutti gli altri. Si
chiedeva se ne valeva la pena e forse ebbe anche una risposta, ma nemmeno dopo
due minuti se l’era già dimenticata, svanita, cancellata da quelle pagine
mentali che ormai faticavano a reggere i passi di ogni giorno.
Era sempre più stanco e così
anche quel venerdì convenne che vivere era una gran fregatura, un prezzo da
pagare per calare il sipario. In fondo, l’esser smemorato era
quasi una fortuna, un percorrere il resto della strada senza rammentare
l’agonia di ogni giorno, ma la fatica vecchia, quella che per tanto l’aveva
accompagnato, appariva un tardivo monito, il bilancio di un bicchiere né mezzo
pieno, né mezzo vuoto, mai riempito e che ora lasciava intravvedere, nella
deformazione della curvatura, un’esistenza di cui sì avrebbe voluto non aver
più memoria. E invece non si ricordava del presente, un vuoto cieco, un suono
cupo. Così concluse che l’esistenza era un inganno che s’era
costruito, e quel che un tempo gli pareva un sogno ora riaffiorava
greve come un incubo notturno che, magari, avesse potuto smemorare.
E invece, il giorno dopo, avvenne
quel che prima o poi sarebbe dovuto accadere: si dimenticò di vivere.
Lucida analisi di quel che accade andando avanti negli anni, purtroppo!
RispondiEliminaMa quel dimenticarsi di vivere finale è un modo bellissimo per dire quel che si vorrebbe NON accadesse mai e si vorrebbe non dire.
Ciao, Renzo!
carmen
Un racconto meraviglioso, con quel finale azzeccatissimo. Più ancora misurato dei soliti suoi, raffigura in modo ineccepibile i problemi della vecchiaia.
RispondiEliminaAgnese Addari
Bellissimo! E' scritto veramente bene.
RispondiEliminaSara Airaghi
Un finale originale; non si può vivere di soli ricordi lontani e se non si può assaporare il presente si può dimenticarsi di vivere anche senza morire. Sempre bravo scrittore!
RispondiEliminaGiovanna