martedì 10 dicembre 2013

Lo smemorato, di Renzo Montagnoli

Lo smemorato
di Renzo Montagnoli




Quando aveva avuto inizio quella congiura proprio non se lo ricordava; forse era stato un lunedì mattina dopo una domenica indolente, oppure un sabato, verso sera, nell’attesa di un’altra domenica pure scialba come tutti i giorni, e forse anche di più, perché dalla festa ci si aspetta sempre qualche cosa di diverso, niente di particolare, ma un fatto, pur se infinitesimale, dissimile dal solito tedio, da una noia di imprecisata origine, ma a cui si lasciava sempre andare.
Era successo, quello sì lo sapeva, era accaduto infatti che la memoria si fosse di colpo inaridita, ma non la memoria storica, bensì quella più recente, anzi recentissima.
E così uscire di casa per andare a fare la spesa e invece vagare senza una meta era diventata un’abitudine; il camminare per le strade, guardando all’intorno senza sapere il perché si era lì, era diventata la prassi quotidiana, come andare a prendere il caffè al bar e uscire senza pagare. Ormai lo conoscevano e, posata la tazzina, gli ricordavano il dovuto, e lui non batteva ciglio, metteva sul banco la monetina da 1 Euro, anche se del caffè appena bevuto non rammentava più nemmeno l’aroma.
I suoi l’avevano fatto visitare da più medici, non avevano esitato e l’avevano portato perfino alla clinica universitaria, per sentire sempre la stessa risposta: è l’età.
Certo non aveva più venti primavere, i settanta erano già stati superati, ma la moglie gli andava ripetendo: - Non può essere l’età, perché anche la mia è quasi la tua, eppure ricordo ogni cosa, e se non ci fossi io qui non s’andrebbe avanti.
Lui allargava le braccia e s’incupiva, perché quell’assenza di un tempo presente gli sfarfallava nel cervello, e più cercava di ripescare l’appena avvenuto, più sopraggiungevano, affollandosi, i ricordi di un tempo assai remoto.
Capitava così che si sovvenisse di un fatto primordiale, la sua nascita, con quel farsi largo in uno stretto pertugio, per poi imbattersi nel mondo di mani che lo afferravano, gli facevano un bagnetto e poi lo mettevano fra le braccia di una madre ansante, ma felice.
E le prime poppate, attaccato al turgido capezzolo, affluivano come un torrente in piena, lo travolgevano, stuzzicavano le sue papille gustative ed il dolce di quel nettare si scioglieva in bocca, accarezzava il palato e scendeva a ristorare lo stomaco impaziente.
Poi vennero le pappine, intrugli accettati suo malgrado, i primi pasti, l’asilo, con quel bimbo che gli rubava le merendine e quell’altro che lo spingeva sempre a terra.
Proseguiva nella sua cavalcata di reminiscenze, passando dai banchi di scuola, su cui curvo s’ingegnava a imparare, a quelli dell’ufficio, in perenne lotta per non restare indietro.
Anche dell’amore aveva memoria, come di un’alba brumosa in cui di colpo s’irradiava il sole; di passioni trepidanti, di ansie notturne, di pulsioni sessuali c’era nitido il ricordo, come quello del primo bacio, le sue labbra tremanti, l’esplosione in fondo al cuore.
E in ogni caso nulla era stato gratuito, fatiche e privazioni, delusioni e affanni erano state compagne assidue e costanti, una gran fatica per vivere ogni giorno, per restare in un mondo che corre sperando sempre in un domani.
Poi, più passavano gli anni e ci si avvicinava al presente, sbiadiva la memoria, scoloriva, come se l’obiettivo fosse andato fuori fuoco, non tanto però per non dimenticare che l’amore per la moglie da passione era diventato affetto e, forse, oramai s’era trasformato in abitudine. La libertà, che aveva sognato con la pensione, si era rivelata una chimera e il non far niente una monotona prigione.
Tanti anni di lotte, di fatiche, anche di illusioni per poi finire un giorno come tutti gli altri. Si chiedeva se ne valeva la pena e forse ebbe anche una risposta, ma nemmeno dopo due minuti se l’era già dimenticata, svanita, cancellata da quelle pagine mentali che ormai faticavano a reggere i passi di ogni giorno.
Era sempre più stanco e così anche quel venerdì convenne che vivere era una gran fregatura, un prezzo da pagare per calare il sipario.   In fondo, l’esser smemorato era quasi una fortuna, un percorrere il resto della strada senza rammentare l’agonia di ogni giorno, ma la fatica vecchia, quella che per tanto l’aveva accompagnato, appariva un tardivo monito, il bilancio di un bicchiere né mezzo pieno, né mezzo vuoto, mai riempito e che ora lasciava intravvedere, nella deformazione della curvatura, un’esistenza di cui sì avrebbe voluto non aver più memoria. E invece non si ricordava del presente, un vuoto cieco, un suono cupo. Così concluse che l’esistenza era un inganno che s’era costruito,  e quel che un tempo gli pareva un sogno ora riaffiorava greve come un incubo notturno che, magari, avesse potuto smemorare.
E invece, il giorno dopo, avvenne quel che prima o poi sarebbe dovuto accadere: si dimenticò di vivere.




4 commenti:

  1. Lucida analisi di quel che accade andando avanti negli anni, purtroppo!
    Ma quel dimenticarsi di vivere finale è un modo bellissimo per dire quel che si vorrebbe NON accadesse mai e si vorrebbe non dire.
    Ciao, Renzo!
    carmen

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  2. Un racconto meraviglioso, con quel finale azzeccatissimo. Più ancora misurato dei soliti suoi, raffigura in modo ineccepibile i problemi della vecchiaia.

    Agnese Addari

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  3. Bellissimo! E' scritto veramente bene.

    Sara Airaghi

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  4. Un finale originale; non si può vivere di soli ricordi lontani e se non si può assaporare il presente si può dimenticarsi di vivere anche senza morire. Sempre bravo scrittore!
    Giovanna

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