Come per il Natale 2011 di seguito potete trovare
una serie di racconti in tema:
Il mio Natale
di
Non eravamo ricchi, né benestanti, né poveri, ma campavamo.
Mio padre artigiano e mia madre casalinga, contadina
e a volte sarta.
Erano gli anni che di soldi ne circolavano pochi, in particolare
nei paesi.
Il lavoro di mio padre spesso era retribuito con fagioli, patate e
altri prodotti agricoli, spesso si ritornava al baratto.
Con l’avvicinarsi delle feste natalizie, la sera gli zampognari,
per un soldino, suonavano davanti alle case. Io li ascoltavo incantato e alla
fine li seguivo con lo sguardo fino alla prossima abitazione. Andavo a dormire
cullato dal suono delle cornamuse che immaginavo sentire per tutta la notte
fino al rintocco della campana che annunciava la novena e contemporaneamente
avvertivo la mano di mia madre sulle spalle che cercava di svegliarmi per
portarmi con lei in chiesa per la novena.
Non era ancora giorno. Le strade erano buie e fangose.
Con i pantaloncini corti, ero appena un ragazzino, infreddolito e
mezzo addormentato, costretto a sentire le preghiere. Poi in fretta a casa
perché mia madre doveva preparare la colazione alla famiglia.
Finalmente la vigilia di Natale, il cenone.
Dalla mattina in casa c’era un fermento indescrivibile fra mia
madre e mia sorella, di molti anni più grande di me, a
pulire il cavolfiore, i broccoli, a preparare il baccalà e tutte le belle cose
che la sera si servivano a cena.
Il momento magico per me era quando ci sedevamo a tavola, però
prima ci facevamo gli auguri: a nostro padre, poi alla mamma e al fratello
maggiore e così via; io il più piccolo correvo ad abbracciare le gambe dei più
grandi per farmi notare e baciare. Era un rito così bello da protrarsi negli
anni. Finalmente a tavola, però. prima di mettere la forchetta nel piatto,
c’era la preghiera da dire, e poi il piatto forte della serata, vermicelli con
aglio, olio, acciuga e peperoncino, pronti per essere
gustati.
Poi si mangiava il baccalà, cucinato in diversi modi con tanti
contorni di ortaggi di tutte le specie e infine un torroncino del Papa.
Dopo il capodanno c’era la Befana.
La notte non dormivo per attendere che la vecchietta con il sacco
sulle spalle venisse a riempire la mia calza sistemata, ben in vista, ai piedi
del letto. L’attesa era così lunga che alla fine mi addormentavo senza averla
vista.
La mattina al risveglio trovavo la calza piena di tante belle
cose, fichi e prugne secche, qualche biscotto,la
solita arancia e l’immancabile pezzo di carbone perché evidentemente durante
l’anno era stato cattivo ed ero stato punito.
Finalmente quasi giovanotto, ma ancora
con i pantaloncini corti, le novene mattutine diventarono molto piacevoli. Mi
svegliavo e da solo andavo in chiesa.
Mia madre non si capacitava della mia improvvisa conversione senza
mugugni.
La verità, che poi mamma scoprirà, era che mi ero innamorato di
una ragazzina con le trecce lunghe e gli occhietti vispi, che poi sarebbe
diventata mia moglie.
Gli anni inesorabilmente passarono, il
lavoro lontano, il matrimonio, i figli e poi i nipoti. Che belli i nipoti!
Tutto passò così in fretta, o meglio dopo decine di anni.
Oggi Natale, non più novene la mattina presto, non più cornamuse
la sera ma cori di giovani con la fisarmonica che cantano. “Tu scendi dalle
stelle…”.
La vigila, gli auguri in famiglia, abbracci e questa volta sono i
nipotini che mi abbracciano le gambe per ricevere il bacio. E’ un rito così
bello che spero di trasmetterlo ai miei discendenti.
A tavola ci attende il solito cenone, ma
ora, a base di pesce e con tanto di antipasto di mare. Una cena lunga che non
si finisce mai di mangiare mentre i nipotini fremono dall’impazienza di aprire
i regali sotto l’albero di Natale.
Un regalo per tutti, tanti sorrisi, tante sorprese, tanti
abbracci, mia figlia che strimpella sul pianoforte “O Tannebaum…” io e mia
moglie seduti sulla poltrona osserviamo felici e ci guardiamo, lei ha un
fazzoletto di seta sulle spalle ed io un paio di pantofole ai piedi, regalo del
nostro Natale.
Senza parlare, guardandoci negli occhi lucidi dalla commozione, ci
accorgiamo che il tempo è volato così in fretta, ma non dal cuore che è ancora
giovane, come dice una nota canzone. Nel tentativo di sollevarci dalla poltrona
ci accorgiamo però che il tempo non è più nostro ma dei nostri figli,
dell’ultimo della nidiata: Pietro Junior.
********************
Il mondo ne è pieno
di
Morena Fanti e Marco
Freccero
Se ne stava
seduto al buio del suo ufficio da un paio d’ore, a fare nulla. Sullo schermo
del computer compariva a intervalli di cinque minuti il salvaschermo, e lui
ogni volta schiacciava un tasto.
Sulla scrivania
allora riapparivano decine di cartelle, mentre dallo schermo si rovesciava sul
suo volto, sulle mani, una luce pallida. Ma né il suo volto, né le sue mani,
neppure la sua persona storta e in un perenne stato di tensione, erano qualcosa
di gradevole.
Era solo.
Sospirò, si
passò una mano sui pochi capelli, osservò il Rolex che segnava le sei di sera.
La sua casa editrice aveva bisogno del salto di qualità. Tutti i critici la snobbavano perché pubblicava a pagamento. Gli utenti lo attaccavano: “Un vero editore doveva rischiare il proprio denaro, non chiederlo agli autori”.
La sua casa editrice aveva bisogno del salto di qualità. Tutti i critici la snobbavano perché pubblicava a pagamento. Gli utenti lo attaccavano: “Un vero editore doveva rischiare il proprio denaro, non chiederlo agli autori”.
Poveri illusi!
Colpì con un
pugno la scrivania: ci voleva un’idea! No, gli serviva un autore nuovo, meglio
ancora se bravo e di talento, quello vero. Ma in mezzo al ciarpame che
pubblicava, nessuno lo avrebbe notato: ogni mese lanciava sul mercato cinquanta
nuovi autori.
Poi gli venne
l’idea.
Si ricordò di
quel tipo, Candido Degli Innocenti, che aveva spedito un romanzo davvero buono; uno dei pochi a usare la posta tradizionale, invece dell’email. Aveva
svolto qualche ricerca sul suo conto, perché quel nome non gli suonava nuovo.
Poi l’illuminazione: era un ex professore di italiano del liceo, in pensione da
almeno vent’anni. Soprattutto, era il suo ex professore di italiano. Un uomo
solo, dimesso, per nulla fotogenico, un tipo col pallino della bella scrittura,
della narrativa come leva per rendere migliore la società.
Lui aveva fatto
tesoro dei suoi insegnamenti: la narrativa aveva davvero reso migliore la
società, la sua “a responsabilità limitata”.
Leggere era
considerata un’attività stupida, e quei pochi che lo facevano mai e poi mai
avrebbero perso tempo con un autore che non era più un ragazzo. Inoltre, lui
sapeva anche che non bastava un buon romanzo per ricavarne il caso editoriale
dell’anno.
Sfogliò ancora
il dattiloscritto. Rilesse l’incipit, le prime tre pagine: “Convincente, davvero convincente”, borbottò. Riusciva
ancora a fiutare un affare, e quello, poteva essere un best-seller.
Ma non con il
suo autore. Non con quell’uomo.
Sospirò,
appoggiò la schiena alla poltrona.
Giovani e
maledetti, ecco come dovevano essere gli scrittori. Adatti alla televisione. Occorreva perciò liberarsi dell’ex
professore e passare il romanzo a qualche giovane di belle speranze, dallo
sguardo torbido e il passato misterioso.
Di gente così
il mondo era pieno, e trovare chi fosse disposto a impersonare il ruolo dello
scrittore, non era difficile. Sarebbe stato autore di una sola opera, si
capisce. Ma questo era un problema che avrebbe affrontato a tempo debito.
Adesso era
necessario scippare al professore il dattiloscritto. La faccenda era delicata.
Occorreva presentargli la faccenda nel modo giusto, in un modo tale che lui
accettasse.
Si sfregò il
volto, sbuffò. Schioccò le dita: aveva bisogno del lavoro dell’ufficio legale
“Mesta & Fosco”, uno dei migliori della città. Di certo sarebbero stati in
grado di redigere un contratto legale perfetto, quindi incomprensibile anche a
un ex professore di italiano. I loro
servizi erano costosi, ma ogni tanto, bisognava pur spendere qualcosa.
Questo gli
ricordò che doveva fermare l’emorragia di denaro dalle casse dell’azienda, cioè
dalle sue. “La prima fonte di guadagno è evitare le spese”, era il suo motto,
la sua filosofia di vita.
Diede
un’occhiata al foglio di calcolo, e
accese una lampada a risparmio energetico, anche se l’ecologia era l’ultimo dei
suoi pensieri.
La voce
“diritti agli autori” era ancora troppo esosa: a qualcuno aveva promesso un
cinque per cento sulle vendite, decurtata l’iva ovvio,
e la spesa per i diritti era di seicentocinquanta euro virgola trentacinque.
Per fortuna
erano ben pochi i libri che superavano la soglia di 100 euro di ricavi, e i
pagamenti avvenivano raramente. Passò alla voce “spese per pubblicità”:
trentacinque euro di spese postali per inviare copie gratuite a qualche
giornalista per una recensione. Senza contare il valore dei volumi: questo
l’avrebbe recuperato dalla dichiarazione delle copie mandate al macero.
Alzò la testa per guardare l’orologio: era ormai ora di cena e decise di avviarsi a casa.
Quando chiuse la porta, quattro mandate e un catenaccio, guardò la luce che si rifletteva sulla targa d’ottone: non ci vide la bellezza del sole che tramontava alle sue spalle ma una macchia scura che copriva in parte la lettera “L” del suo cognome. Luccio diventava uccio e sembrava un nome di cui farsi beffe. La mattina dopo avrebbe chiesto alla donna delle pulizie, una filippina, di usare più olio di gomito. La sua casa editrice, la Gustavo Luccio editore, doveva brillare nel cielo dell’editoria.
Alzò la testa per guardare l’orologio: era ormai ora di cena e decise di avviarsi a casa.
Quando chiuse la porta, quattro mandate e un catenaccio, guardò la luce che si rifletteva sulla targa d’ottone: non ci vide la bellezza del sole che tramontava alle sue spalle ma una macchia scura che copriva in parte la lettera “L” del suo cognome. Luccio diventava uccio e sembrava un nome di cui farsi beffe. La mattina dopo avrebbe chiesto alla donna delle pulizie, una filippina, di usare più olio di gomito. La sua casa editrice, la Gustavo Luccio editore, doveva brillare nel cielo dell’editoria.
“Non hanno il
senso del dovere. Del lavoro”.
Da un paio di
giorni la donna parlava di “ferie”, della busta paga che riportava una cifra,
mentre a lei ne veniva corrisposta un’altra inferiore. E crollò il capo, si
avviò al BMW, sbloccò la chiusura centralizzata. Quando allacciò le cinture di
sicurezza, aveva deciso di licenziarla.
“Il mondo è
zeppo di filippine”. E ghignò.
«Mio
caro, caro professore. Si sieda la prego». Gustavo
attese che Candido si accomodasse e iniziò a parlare: «Il
suo romanzo non è male. Ha qualche pecca ma l’idea di fondo è buona.
Bisognerebbe rivederlo, limarlo, editarlo ma forse potrebbe uscirne un testo
discreto. Certo, tutto ciò comporterebbe molto lavoro, e molte spese per la mia
casa editrice…»
Il vecchio
professore ascoltava in silenzio. Sistemò gli occhiali dalla montatura in oro
sul naso, sospirò. Lasciò passare alcuni minuti prima di parlare: «Se comporta
tanto lavoro forse è meglio lasciar per…»
«No, no,
tutt’altro!». Esclamò. Aprì una cartellina, estrasse alcuni fogli pinzati in un
angolo, e li tenne in mano, mentre parlava:
«Io mi
ricordo bene di lei. Non so se lei riesca a ricordarsi di me, sono passati così
tanti anni. E con tanti studenti da seguire, alla fine rimangono in mente solo
i migliori».
«Tutt’altro.
Ho buona memoria anche per i peggiori. Di lei ricordo con dolore
l’indifferenza, una certa ottusità».
Gustavo
impallidì, fece un sorriso forzato. Infine si strinse nelle spalle:
«Sa, la gioventù rende sciocchi. Poi si matura, si migliora».
«Non è detto».
Dalla tasca del cappotto l’ex professore prese un fazzoletto di tela, si tolse
gli occhiali e iniziò a pulirne le lenti. Gustavo strizzò gli occhi, disse:
«Qui
c’è il contratto. È raro che si proponga subito qualcosa del genere a chi
esordisce. Di solito, ci sono una serie di incontri che servono per conoscere
lo scrittore, e cercare di capire se davvero la scrittura è importante per lui.
Se vuole creare qualcosa che resti o si accontenta di pubblicare». Glielo
porse.
Il professore
inforcò gli occhiali e iniziò a leggere, senza fretta. Gustavo aveva in mano una magnifica stilografica Aurora, già la porgeva, ma Candido arrivato in
fondo alla prima pagina disse: «Bah!», e ricominciò a leggere.
Gustavo respirò
a fondo.
Gettò
un’occhiata alla penna e infine la poggiò sul piano.
Pensò: “ Sono stato un idiota a pensare di poterlo fregare con un
contratto. Questo spulcia tutto!”.
Candido crollò
il capo, e attaccò a leggere il secondo foglio del contratto. Poi il terzo e
ultimo.
Gustavo gettò un’occhiata all’orologio; era da venti minuti che il suo ex professore lo stava passando al setaccio. Rimise la penna stilografica nella tasca interna della giacca di velluto. Si diede dell’idiota, ma la cosa che più lo faceva infuriare era che lo studio legale doveva essere pagato comunque.
Candido posò il contratto sulla scrivania. Si alzò in piedi. Lo osservò per qualche istante, disperso oltre la larga scrivania di mogano, poi girò sui tacchi e si diresse verso la porta.
Gustavo gettò un’occhiata all’orologio; era da venti minuti che il suo ex professore lo stava passando al setaccio. Rimise la penna stilografica nella tasca interna della giacca di velluto. Si diede dell’idiota, ma la cosa che più lo faceva infuriare era che lo studio legale doveva essere pagato comunque.
Candido posò il contratto sulla scrivania. Si alzò in piedi. Lo osservò per qualche istante, disperso oltre la larga scrivania di mogano, poi girò sui tacchi e si diresse verso la porta.
«Ma,
professore», mormorò Gustavo, «non dice nulla? C’è
qualcosa che non va? Possiamo parlarne...».
Il professore calò la mano sulla maniglia, l’abbassò, la tirò a sé, infine si voltò:
Il professore calò la mano sulla maniglia, l’abbassò, la tirò a sé, infine si voltò:
«Lei è
peggiorato, dal liceo. Prima era solo un ottuso e sciocco ragazzo. Adesso è
diventato un ottuso, avido e meschino uomo. Buona sera. E buon Natale».
Allo scatto
della porta che si chiudeva, Gustavo sobbalzò. Si passò la lingua sulle labbra
e soffiò.
Diede un colpo
alla tastiera del computer, e dal calendario si rese conto che era il 24
dicembre.
«Natale! La festa degli scemi!». Un suono lo avvisò dell’arrivo di alcune email. Diede un’occhiata veloce, per scoprirne una della banca, che lo avvisava dell’accredito sul suo conto corrente di oltre 22.000 euro. Una decina di autori esordienti aveva abboccato, e versato la cifra pattuita.
«Natale! La festa degli scemi!». Un suono lo avvisò dell’arrivo di alcune email. Diede un’occhiata veloce, per scoprirne una della banca, che lo avvisava dell’accredito sul suo conto corrente di oltre 22.000 euro. Una decina di autori esordienti aveva abboccato, e versato la cifra pattuita.
Sorrise, gettò
un’occhiata al contratto abbandonato sulla scrivania. Lo prese, lo passò al
distruggi-documenti.
«Per fortuna che gli scemi non vanno mai in ferie». Disse, e pensò che dopotutto, restare una casa editrice senza un vero autore, non era poi così male.
«Per fortuna che gli scemi non vanno mai in ferie». Disse, e pensò che dopotutto, restare una casa editrice senza un vero autore, non era poi così male.
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Il Natale di Martin
di Leone Tolstoj
In una certa città viveva un ciabattino,
di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una
finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi
delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva
riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava
materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime.
Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa
donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa
invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha
asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento
profumato ha unto i miei piedi.
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: - Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. - Entra· disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera- rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva.
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: - Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. - Entra· disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera- rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva.
Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa. - Mangia,
mia cara, e riscaldati - le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po', vide una donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po', vide una donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori.
La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo
andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor
di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo.
La vecchia lasciò il ragazzo.
-
Chiedi
perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi.
-
Martin
prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io,
nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio: - Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio: - Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.
********************
Il regalo di Natale
di
Salvatore Armando Santoro
Pioveva e non avevo voglia di
viaggiare sotto la pioggia, però quel giorno dovevo per forza andare a Pistoia
perché avevo un appuntamento dal dentista.
Avevo fatto pochi chilometri
e stavo percorrendo la statale che costeggia il corso del fiume Reno, che sorge
a Prunetta, pochi chilometri dalla località dove abito quando sono in Toscana.
Ad un tratto mi accorgo che
un cane viaggia al centro della carreggiata, sbandando un po' a destra ed un
po' a manca.
Istintivamente mi fermo ai
bordi della strada ed il cane mi si avvicina subito e cerca di salire in
macchina.
- "E' un cane
abbandonato, esclama mia moglie arrabbiata. Prendono
gli animali e poi li abbandonano".
Ma quel cane, anzi quella
cagna (visto che è una femmina) inzuppata fradicia d'acqua aveva il collare con
sopra inciso il numero telefonico ed il nome del proprietario.
-"E' una cagna da
caccia, dico a mia moglie. Forse correndo dietro un
cinghiale s'è smarrita!"
Compongo col telefonino il
numero trovato sul collare, ma dall'altra parte del telefono nessuno risponde.
La mia Ketty (una bastardina
di piccola taglia) mi osserva impensierita quando la nuova ospite sale in
macchina.
Forse anche lei s'è accorta
del puzzo accidentato che quella bestia emana.
Percorro un mezzo chilometro
e mi fermo alla prima borgata che trovo. Un signore mi presta la guida del
telefono e ... sono fortunato! Il proprietario abita a Maresca, sulla montagna
pistoiese, un paio di chilometri da casa mia. Risalgo con il cane in macchina
(nel frattempo l'avevo fatto scendere per non far morire asfissiata
mio moglie) e ritorno verso casa alla ricerca del proprietario.
Ma tutto mi va storto!
Recentemente hanno cambiato i numeri civici ed in paese nessuno conosce il
nominativo da me fornito.
Vado per tentativi: cerco di
ricostruire a caso la vecchia numerazione per avvicinarmi il più possibile al
mio uomo.
Il puzzo in macchina è
insopportabile e cammino con i vetri abbassati (siamo vicini a Natale e fuori
fa abbastanza freddo).
Finalmente, dopo un'ora di
ricerche affannose, arrivo alla meta. Ma al citofono non risponde nessuno.
Il cane, però, scodinzola
contento. Ha riconosciuto il posto dove abita. Lo faccio scendere e s'avvia
verso casa bevendo avidamente in una scodella d'acqua sporca che trova in un
angolo.
Un vicino s'affaccia
all'uscio e spiego la situazione.
- "I padroni li
ho visti andar via. Venga mettiamo il cane nel
suo recinto. Mi dia anche il numero del suo telefono così lo
darò ai miei vicini appena ritorneranno".
Contento della mia buona
azione, do una ripulita alla macchina e m'avvio verso casa. Ormai
l'appuntamento con il dentista è saltato.
Un paio d'ore dopo Ketty mi
fa cenno di voler uscire di casa.
- "Dov'è il
guinzaglio?", chiedo a mia moglie.
- "L'avrai lasciato in
macchina".
Cerco in macchina, ma non lo
trovo. Mi ricordo che il guinzaglio l'avevo adoperato per agganciare il collare
del cane smarrito e poi l'avevo lasciato sul tetto dell'auto quando avevo fatto
scendere l'ospite inatteso.
- "Cristodina",
impreco, "mi sarà caduto quando sono ripartito".
A questo punto decido di
telefonare al proprietario del cane smarrito. Forse sarà caduto proprio davanti
casa sua e penso che sarà contento di ricambiarmi il favore. Sempre che nel
frattempo sia rientrato in casa.
- "Le stavo
appunto telefonando, mi risponde al telefono. Siamo rientrati da circa un'ora, ma solo adesso il mio vicino di
casa mi ha portato il suo numero telefonico. Per tutto il giorno siamo andati
alla ricerca del cane. Sa, io sono un cacciatore e stamattina verso le dieci la
cagna è andata dietro ad un cinghiale e non l'ho più vista ritornare. Non ho neppure pranzato per la disperazione".
- "Ma dove l'ha trovata?, mi chiede".
- "L'ho trovata nel Reno
(è un modo per indicare la strada statale che si snoda lungo il fiume Reno)
vicino al laghetto sportivo verso le quindici e un quarto".
- "Ma noi
c'eravamo passati una diecina di minuti prima! esclama. "Pensi quanta strada ha fatto. L'avevo perso stamani alle 10
nella zona di Montemagno" (circa sei-sette km distante in linea d'aria).
"Sul Reno ci eravamo
fermati proprio nei pressi del laghetto della pesca sportiva ed avevamo
chiamato e fischiato a lungo. Ma , poi, scoraggiati,
ce ne siamo andati via e siamo ritornati a cercare nella zona di Montemagno
prima che calasse la sera. Appena noi siamo ripartiti, subito dopo siete
arrivati voi. Probabilmente ci aveva sentito ma non aveva fatto in tempo ad
arrivare. Quando siamo ritornati a casa eravamo avviliti perché pensavamo che
il cane ormai era perso. Mia moglie era entrata in
casa ed io mi stavo pulendo le scarpe. Ho sentito un lieve
mugolio arrivare dal recinto del cane".
- "Oh, chi è mai? - ho pensato tra me".
"Sono andato a vedere
per curiosità e chi ti trovo affacciata alla ringhiera? Il cane. Gli sfilo il
collare ed entro in casa".
-"Sai chi c'è nel
recinto? - dico a mia moglie".
-"Chi c'è?"
- "C'è il cane?"
- "Il cane? Tu per la troppa fatica dai i numeri!"
- "Guarda il suo
collare, se non ci credi!"
"Corre fuori anche lei e
per poco non gli viene un colpo".
- "Ma chi l'avrà portata?, si chiede. Ed intanto gli passa una
scodella di zuppa che la cagna divora avidamente".
"Si telefona a destra ed
a manca a tutti i nostri amici cacciatori, ma nessuno sa darci una
spiegazione".
"A sciogliere il mistero
arriva il nostro vicino di casa con il Suo numero telefonico e Le stavamo per
telefonare per ringraziarLa del grandissimo favore che ci ha fatto. Ma è
arrivata prima la Sua telefonata".
- "Siamo stati fortunati
a trovare della gente che ama gli animali, altrimenti la cagna poteva essere
rimasta sotto una macchina e addirittura combinare anche qualche
incidente".
- "Adesso vado a vedere
se trovo il collare del suo cane".
Intanto che lui esce a
cercare, provo a fare un giro in auto caso mai fosse andato a finire in qualche
cunetta lungo la strada e poco dopo arrivo anch'io a cercare attorno a casa.
Nulla!
-"Non importa! esclamo, tanto era ormai da cambiare. E' l'occasione per comprarne uno nuovo".
Mi fa entrare in casa e non
sa cosa offrirmi da bere (ma io sono astemio) o da darmi in segno di
riconoscenza. Poi arriva con due uova fresche.
- "Non ne ho
altre, esclama, sono delle mie galline ma in questo periodo ne fanno poche. Le prenda sono uova naturali. Appena
ricominceranno a produrle gliele darò delle altre".
Gradisco perchè insiste tanto
e rifiutare mi sembrerebbe fargli un torto.
Poi sono sempre due uova
fresche e con i tempi che corrono, e con quello che siamo costretti a mangiare
oggi, sono anche cose ormai rare da trovare.
Ci salutiamo con l'impegno di
ritrovarci.
Passo a trovare la cagna che
se ne sta tranquilla nel suo recinto. Mi riconosce e mi scodinzola tranquilla.
Forse, alla sua maniera, mi sta ringraziando anche lei.
******************
La piccola fiammiferaia
di Hans Christian Andersen
Era la fine
dell'anno faceva molto freddo. Una povera bambina
camminava a piedi nudi per le strade della città.
La mamma le aveva dato un paio di pantofole, ma erano troppo grandi e la povera piccola le aveva perdute attraversando la strada.
Un monello si era precipitato e aveva rubato una delle pantofole perdute.
Egli voleva farne una culla per la bambola della sorella.
La piccola portava nel suo vecchio grembiule una gran quantità di fiammiferi che doveva vendere. Sfortunatamente c'era in giro poca gente: infatti quasi tutti erano a casa impegnati nei preparativi della festa e la poverina non aveva guadagnato neanche un soldo.
Tremante di freddo e spossata, la bambina si sedette nella neve: non osava tornare a casa, poiché sapeva che il padre l'avrebbe picchiata vedendola tornare con tutti i fiammiferi e senza la più piccola moneta.
Le mani della bambina erano quasi gelate.
Un pochino di calore avrebbe fatto loro bene!
La piccola prese un fiammifero e lo sfregò contro il muro.
Una fiammella si aceese e nella dolce luce alla bambina parve
di essere seduta davanti a una grande stufa!
Le mani e i piedi cominciavano a riscaldarsi, ma la fiamma durò poco e la stufa scomparve.
La piccola sfregò il secondo fiammifero e, attraverso il muro di una casa, vide una tavola riccamente preparata. In un piatto fumava un'oca arrosto....
All'improvviso, il piatto con l'oca si mise a volare sopra la tavola
e la bambina stupefatta, pensò che l'attendeva un delizioso pranzetto.
Anche questa volta, il fiammifero si spense enon restò che il muro bianco e freddo.
La povera piccola accese un terzo fiammifero e all'istante si trovò seduta sotto un magnifico albero di Natale. Mille candeline brillavano e immagini variopinte danzavano attorno all'abete. Quando la piccola alzò le mani il fiammifero si spense.
Tutte le candele cominciarono a salire in alto verso il cielo e
la piccola fiammiferaia si accorse che non erano che stelle.
Una di loro tracciò una scia luminosa nel cielo: era una stella cadente.
La bambina pensò alla nonna che le parlava delle stelle.
La nonna era tanto buona! Peccato che non fosse più al mondo.
Quando la bambina sfregò un altro fiammifero sul muro,
apparve una grande luce. In quel momento la piccola vide la nonna tanto dolce e gentile che le sorrideva. -Nonna, - escalmò la bambina - portami con te! Quando il fiammifero si spegnerà, so che non sarai più là.
Anche tu sparirai come la stufa, l'oca arrosto e l'albero di Natale!
E per far restare l'immagine della nonna, sfregò uno dopo l'altro i fiammiferi.
Mai come in quel momento la nonna era stata così bella.
La vecchina prese la nipotina in braccio e tutte e due, trasportate da una grande luce, volarono in alto, così in alto dove non c'era fame, freddo né paura.
camminava a piedi nudi per le strade della città.
La mamma le aveva dato un paio di pantofole, ma erano troppo grandi e la povera piccola le aveva perdute attraversando la strada.
Un monello si era precipitato e aveva rubato una delle pantofole perdute.
Egli voleva farne una culla per la bambola della sorella.
La piccola portava nel suo vecchio grembiule una gran quantità di fiammiferi che doveva vendere. Sfortunatamente c'era in giro poca gente: infatti quasi tutti erano a casa impegnati nei preparativi della festa e la poverina non aveva guadagnato neanche un soldo.
Tremante di freddo e spossata, la bambina si sedette nella neve: non osava tornare a casa, poiché sapeva che il padre l'avrebbe picchiata vedendola tornare con tutti i fiammiferi e senza la più piccola moneta.
Le mani della bambina erano quasi gelate.
Un pochino di calore avrebbe fatto loro bene!
La piccola prese un fiammifero e lo sfregò contro il muro.
Una fiammella si aceese e nella dolce luce alla bambina parve
di essere seduta davanti a una grande stufa!
Le mani e i piedi cominciavano a riscaldarsi, ma la fiamma durò poco e la stufa scomparve.
La piccola sfregò il secondo fiammifero e, attraverso il muro di una casa, vide una tavola riccamente preparata. In un piatto fumava un'oca arrosto....
All'improvviso, il piatto con l'oca si mise a volare sopra la tavola
e la bambina stupefatta, pensò che l'attendeva un delizioso pranzetto.
Anche questa volta, il fiammifero si spense enon restò che il muro bianco e freddo.
La povera piccola accese un terzo fiammifero e all'istante si trovò seduta sotto un magnifico albero di Natale. Mille candeline brillavano e immagini variopinte danzavano attorno all'abete. Quando la piccola alzò le mani il fiammifero si spense.
Tutte le candele cominciarono a salire in alto verso il cielo e
la piccola fiammiferaia si accorse che non erano che stelle.
Una di loro tracciò una scia luminosa nel cielo: era una stella cadente.
La bambina pensò alla nonna che le parlava delle stelle.
La nonna era tanto buona! Peccato che non fosse più al mondo.
Quando la bambina sfregò un altro fiammifero sul muro,
apparve una grande luce. In quel momento la piccola vide la nonna tanto dolce e gentile che le sorrideva. -Nonna, - escalmò la bambina - portami con te! Quando il fiammifero si spegnerà, so che non sarai più là.
Anche tu sparirai come la stufa, l'oca arrosto e l'albero di Natale!
E per far restare l'immagine della nonna, sfregò uno dopo l'altro i fiammiferi.
Mai come in quel momento la nonna era stata così bella.
La vecchina prese la nipotina in braccio e tutte e due, trasportate da una grande luce, volarono in alto, così in alto dove non c'era fame, freddo né paura.
Erano con Dio.
******************
L'angelo in estasi
di
Era un unico blocco di resina, si girava la chiavetta e il
carillon suonava le note di Tu scendi dalle stelle. La maestra raccontò di
Maria, Giuseppe e come Gesù fosse nato in una grotta perché non avevano trovato
posto all'albergo. Disse che lì dentro scesero gli angeli e cantavano.
Noemi non poteva staccare gli occhi da uno di quegli angeli che
stava nel gruppo poggiato sulla cattedra: era vestito di azzurro, aveva
l'aspetto di un ragazzino, le ali aperte e il viso rovesciato all'indietro,
allora Noemi chiese perché facesse quella faccia, la maestra rispose che era in
estasi e tutti i bambini vollero sapere cosa fosse l'estasi né fu facile
spiegarlo nell'entusiasmo generale.
Poi la maestra dette ad ognuno dei bambini un biglietto, che
costava tre euro, e disse che lei regalava il presepio per sorteggiarlo,
l'indomani avrebbero riunito i soldi e comprato i panettoni da portare, tutti insieme, al vicino orfanatrofio dove tante bambine, se
nessuno le invitava, avrebbero passato il Natale senza mamma e papà.
Così avrebbero giocato e mangiato tutti insieme.
A Noemi piacque tanto l'idea del gioco, dei panettoni da mangiare
insieme, ma soprattutto l'attirava l'angelo in estasi. Anche la Madonna era
carina, San Giuseppe era vecchio e le piaceva meno, e poi aveva barba e baffi,
che lei non sopportava perché il nonno la pungeva ogni volta che la baciava.
Alzò la mano: <Posso comprare tre biglietti invece di uno?>
chiese essendo proprietaria di dieci euro. Sperava di vincere.
Le sarebbe sempre rimasto un euro per qualche masticante alla
fragola.
<Certo> rispose contenta la maestra, <il Signore vede il
tuo cuoricino generoso>.
Noemi restò perplessa perché invece si sentiva abbastanza egoista
e, quando l'indomani vinse davvero ed ebbe il suo tesoro fra le mani, si mise a
saltare di gioia.
Letteralmente.
Adesso bisognava nasconderlo perché la sua mamma, totalmente atea,
faceva sparire immediatamente qualsiasi oggetto religioso appena qualcuno
azzardava il pensierino da Lourdes oppure da padre Pio. In casa sua c'erano
stanze, spazio, quadri e ricchezze, ma non s'era visto mai un crocifisso
nemmeno piccolo oppure un'immaginetta. Il papà lasciava fare volentieri e
preferiva anche lui tenersi lontano dalle superstizioni. Si sa, erano soltanto
speculazioni sulla paura della morte che tutti gli esseri umani coscienti provano.
Egli preferiva affrontare la verità.
Non aveva, del resto, nemmeno il tempo di pensarci col suo lavoro
di dirigente dei dirigenti, come scherzosamente si autodefiniva.
La fabbrica di tessuti in pura lana era sua e sapeva che l'occhio
del padrone ingrassa il cavallo. Voleva essere informato di tutto, specialmente
delle minime lamentele.
Così non gli restava tempo, quando sarebbe andato in pensione
avrebbe ripreso i pennelli in mano, visto che da giovane aveva tentato di fare
il pittore, ma poi la fame era troppa e si era trovato un impiego.
"Da galoppino a padrone" pensava sempre
anche se non lo diceva.
"Lo nasconderò nella pancia di Babì" decise Noemi. Babì
era l'orsacchiotta rosa fucsia con la quale dormiva abbracciata, aveva una
cerniera sulla schiena dalla quale si poteva estrarre l'imbottitura per
lavarla. Coi suoi pugnetti Noemi fece un piccolo fosso e infilò lì dentro, al
sicuro e nel morbido, il suo presepio.
Nessuno l'avrebbe mai trovato. Si addormentò sorridendo quasi con
la stessa espressione dell'angelo. Era il ventiquattro dicembre.
L'indomani mattina sotto l'abete mostruoso e carico di palline e
luminarie c'erano grandi pacchi multicolori, poi arrivarono gli zii con altri
pacchi ancora più grandi e più colorati e i nonni ed anche una bisnonna col
cammeo sulla gola e pizzi bianchi che venivano fuori dal cardigan blu.
Noemi fu sballottata, baciata, punta dalla barba e dai baffi del
nonno Espedito, venne alzata per aria dal cugino Ippolito, che a lei sembrava
un po' cretino perché rideva sempre e la maestra diceva che il riso abbonda
sulla bocca degli sciocchi. Dopo di che l'abbandonarono a giocare con le Barbie
principesse in abito sontuoso e diadema di plastica insieme con le cuginette
più piccole di lei, e quelle due incominciarono:
<La mia Barbie vuole un fidanzato>.
<Anche la mia cerca marito>.
Allora dobbiamo comprare l'abito da sposa e le fedi.
Noemi sbadigliava e pensava all'angelo nella pancia di Babì,
<Mamma> fece, oggi ci sono tre bambine
dell'orfanatrofio che sono senza mamma e papà, ho sentito la maestra dire che
non le ha invitate nessuno perché sono brutte, posso farle venire a mangiare
con noi?>.
Anche il papà si interessò subito e poco dopo tre bambine
intirizzite, con i cappotti un po' corti e gli occhi spalancati, entrarono nell'elegante
salone. Vennero accolte come ospiti d'onore, messe a loro agio e in breve
finirono nella stanza di Noemi, dove si sentì ridere e chiacchierare fino
all'ora di pranzo, quando si presentarono con gli occhi accesi ed erano tutte
bellissime.
<Ho diviso con loro i miei giocattoli e anche i vestiti>
disse Noemi orgogliosa.
<Hai fatto bene> rispose la mamma.
<Brava la mia bambina> disse il papà.
Nella pancia dell'orsacchiotta fucsia sembrava che l'angelo
sorridesse più in estasi che mai.
*****************
Natale
bambino
di
Annunziata Bertolone
Venne il Natale. La mia piccola Valeria era rimasta incantata di
fronte alle vermiglie stelle che adornavano un angolo del salone della mia casa
cittadina. Quell’anno me n’avevano regalate parecchie
e il loro colore contribuiva a creare l’ambiente caldo e accogliente della
festa più spettacolare dell’anno
Avevano delle bellissime brattee rosse e le loro opulente
infiorescenze sembravano racchiudere un non so che di strano e misterioso.
La bambina che aveva tre anni, appena arrivava a casa mia si
precipitava, quasi senza salutarmi, nel grande salone arredato di verde, si
avvicinava alle vistose piante, inizialmente quasi con timore, poi incominciava
a toccare pian piano le morbide foglie, le sollevava ad una ad una, guardandole
attentamente come a volerne svelare il segreto e inevitabilmente ne staccava
qualcuna con il rischio d’imbrattarsi con il latice che è notoriamente molto
velenoso.
Ogni volta che veniva a trovarmi, non sapevo come fare per
portarla via da lì, approfittava velocemente d’ogni mia più piccola distrazione
per avvicinarsi alle stelle e ripetere la sua attenta esplorazione.
Un pomeriggio in cui era più che mai decisa a non allontanarsi dal
salone, rimasi accanto a lei e incominciai a raccontarle una storia che mi
venne da inventare sul momento.
La fantastica storia aveva come protagonisti dei piccolissimi
gnomi che abitavano tra le stelle di Natale, invisibili per chiunque - tranne che per le nonne come me- le
avevo detto.
Questi minuscoli personaggi avevano l’abitudine di passeggiare
sulle belle foglie color fiamma uscendo dalle loro case che si trovavano tra le
infiorescenze dorate più nascoste e per questo bisognava stare molto attenti a
non maltrattarle o peggio strapparle.
Mi trovai a dover descrivere i loro vestiti che immaginai fatti
d’ali di farfalle, le danze attorno alle goccioline d’acqua che per loro erano
laghi, i giochi degli gnomi bambini nel parco, alla base delle piante, dove
c’erano le giostre, le altalene e gli scivoli. Non mancava la scuola situata in
superficie del terriccio dei vasi. Alcuni gnomini, che erano dei veri monelli,
non la frequentavano molto e preferivano andare in giro per il salone a
rotolarsi sui tappeti, rischiando di essere calpestati o risucchiati
dall’aspirapolvere.
La storia, che ogni volta si arricchiva di nuovi particolari, si
trasformò per tutto il periodo natalizio in un bel gioco di cui la bambina
sembrava non stancarsi mai. Intanto apprendeva a non strappare le foglie e così
a rispettare la natura, mentre io con quello stratagemma evitavo che venisse a
contatto con il latice e che il mio salone fosse privato della luminosità
festosa del rosso.
Infatti, Valeria poneva la massima attenzione e accarezzava,
soltanto, le vivaci foglie delle mie stelle; immedesimandosi nel gioco, mi
faceva domande su domande sulle abitudini degli gnomi. All’inizio devo
affermare che mi riusciva difficile andare avanti inventando sempre nuove
avventure che nello stesso tempo avessero una qualche finalità educativa, ma in
seguito la storia nasceva automaticamente senza alcuna premeditazione.
Ogni puntata si concludeva immancabilmente con la descrizione di
una scorribanda degli gnomi bambini sui tappeti, dove si divertivano di più
ignorando il divieto categorico di mamma e papà.
Con i grandi occhi neri spalancati, Valeria batteva le manine felice e soddisfatta.
Con il passare dei giorni, mi accorsi che la storia raccontata
accanto alle splendide piante natalizie aveva un altro lato positivo: mi permetteva
di tenere la bambina lontana dalla televisione che, offrendo un prodotto
confezionato per un bambino standard, mortifica spesso la creatività e la
fantasia.
Il gioco- racconto andò avanti per tutto il tempo che le stelle
vissero con l’aggiunta di diverse varianti per cui, a volte, gli gnomi erano
anche capaci di arrampicarsi su di me e lei, senza che nessuno li vedesse,
tranne me, ovviamente.
La bambina non distoglieva gli occhi dal mio volto e sembrava
convinta che tutto quello che io raccontavo fosse vero. D’altra parte tutte le
regole di comportamento che gli gnomi bambini dovevano osservare come andare a
scuola, essere ubbidienti con mamma e papà, lavarsi spesso le manine,
soprattutto prima di mangiare, andare a letto senza capricci e così via, erano
le stesse che lei doveva rispettare.
In fondo era un modo come un altro perché apprendesse giocando e
lo faceva volentieri.
Quando con il trascorrere dei giorni, le stelle di Natale persero
il loro splendore appassendo lentamente, fu evidente che il gioco doveva finire
e incominciai a paventare il momento in cui avrei dovuto rispondere ai perché
della mia piccola, cercando di mitigare l’angoscia che sicuramente si sarebbe
impadronita di lei alla scomparsa dei fantastici gnomi.
Come spiegare ad una bambina di soli quattro anni che tutto
finisce e di conseguenza giustificare la morte? Così cercavo di intuire quali
potessero essere i pensieri che le passavano per la testolina.
Intanto le stelle continuavano inesorabilmente ad appassire, già
le foglie si accartocciavano e si staccavano da sole e le infiorescenze dorate
erano diventate nere; bisognava, senza indugio, potarle perché fiorissero il
prossimo Natale.
Ero molto preoccupata quel pomeriggio in cui decisi di affrontare
l’argomento e quindi di porre fine al gioco, anche se il visetto di Valeria mi
era apparso sereno come se nulla stesse accadendo, l’entusiasmo era sempre
uguale, né mi aveva fatto domande che mi mettessero in allarme.
Arrivò puntualmente e come il solito si diresse verso il salone
raggiungendo svelta l’angolo delle stelle ormai sfinite. Ritardai
inconsciamente, come se fossi occupata a fare altro, per prendere tempo, ma la
piccola mi chiamò quasi subito: -Nonna
presto, vieni a vedere cosa è successo, tutte le foglie sono cadute e gli gnomi non ci sono più-. -Il momento è
giunto-, pensai ed entrai nel salone pronta ad
affrontare la situazione nel migliore dei modi.
La bambina stava osservando in silenzio le foglie avvizzite e
staccate, alcune delle quali sparse sul pavimento. Appena mi vide, mi corse
incontro e abbracciandomi mi disse: “Nonna
lo sai che anche i bambini possono
vedere gli gnomi?” Le chiesi se anche lei li vedesse. “Certamente! Sulle stelle non ci sono
più, si sono trasferiti sulla tua testa, non senti il solletico? Stanno ricostruendo tra i tuoi capelli le loro casette, gli gnomi
bambini sono in fila sul davanzale della finestra, alcuni si arrampicano alle
tende, altri ballano e vanno in bici sul tappeto”.
Così dicendo mi guardava complice, la furbacchiona. Aveva capito
che, anch’io come lei, non potevo vedere gli gnomi perché non esistevano e che
tutto era stato soltanto un bel gioco.
Valeria
Occhi grandi
liquida
pece
tra le
ciglia schiuse.
Capelli di
seta
profumo
di viole.
Danzano
impazienti piedini
nelle
scarpette di tela.
*************
Piccolo racconto per il
Natale
di
Viola
Vanessa Corallo
Un passo dopo
l’altro, l’aria distratta di chi non ha fretta. Passeggiavo, tra vicoli
stretti, vestiti di luci.
Lo sguardo verso il
cielo, l’azzurro limpido tutto invernale, le mani in tasca.
Avevo l’impressione di poter leggere i pensieri di chi abitava nelle case sulla strada e riuscivo a vedere le luci dell’albero che tingevano le pareti.
Avevo l’impressione di poter leggere i pensieri di chi abitava nelle case sulla strada e riuscivo a vedere le luci dell’albero che tingevano le pareti.
Un gatto passeggiava,
sui cornicioni.
Più in alto, il fumo usciva
tra i tetti.
Non potevo fare a meno di incantarmi ad osservare le vetrine, gli occhi come quelli di una bambina e le guance arrossate dal freddo pungente.
Avevo scelto con cura una panchina, dalla quale avrei potuto anche sbirciare tra i ritratti degli artisti di strada. Avrei voluto essere ritratta anche io.
Non potevo fare a meno di incantarmi ad osservare le vetrine, gli occhi come quelli di una bambina e le guance arrossate dal freddo pungente.
Avevo scelto con cura una panchina, dalla quale avrei potuto anche sbirciare tra i ritratti degli artisti di strada. Avrei voluto essere ritratta anche io.
Da lui.
Vedermi con i suoi
occhi.
Sarebbe arrivato in serata. Con quel suo strano modo di camminare, l’aria distratta di chi non ha fretta, di chi ha negli occhi molto più di quel che vede.
Nell’attesa, ho rivolto lo sguardo ancora una volta verso il cielo e proprio in quel momento un piccolo bianco fiocco mi ha baciato il viso.
Sarebbe arrivato in serata. Con quel suo strano modo di camminare, l’aria distratta di chi non ha fretta, di chi ha negli occhi molto più di quel che vede.
Nell’attesa, ho rivolto lo sguardo ancora una volta verso il cielo e proprio in quel momento un piccolo bianco fiocco mi ha baciato il viso.
**************
Un barbone
di
Annamaria
Tanzella
Un barbone sdraiato, su cartoni ammucchiati, dormiva raggomitolato
in una coperta sdrucita; di lato un carrello del supermercato accoglieva varie
cianfrusaglie, come fosse stata tutta la sua casa viaggiante. La gente passava
e ripassava e lo osservava sgomenta ma al tempo stesso riluttante: l’aspetto
polveroso e sudicio creava un certo ribrezzo. I bambini lo temevano come fosse
stato l’orco delle fiabe e talune mamme ne traevano vantaggio, menzionandolo
come punizione.
Il reietto si era collocato all’angolo di un crocevia, luogo di
passaggio del quartiere, punto trafficato dalle auto in corsa e luogo
prospiciente l’istituto delle elementari; per lui l’orario di apertura e
chiusura della scuola era un momento di gioia, infatti, durante la settimana
occupava quell’angolo, mentre la domenica si trasferiva di fronte ai giardini
comunali. Era un disadattato che prediligeva la vista dei bambini e anche se
alcuni di loro, i più temerari, lo investivano di rimproveri poco garbati, lui
sorrideva ugualmente: con gli occhi ricoperti di sudiciume esprimeva le sue
tenere sensazioni. Viveva con la carità dispensatagli da alcuni generosi, buoni
di cuore, che non temevano il contagio come fosse stato un appestato. Quando
gli intimavano di scomparire, lui, senza proferire parola, riponeva le sue cose
nello spazio residuo del carrello e si allontanava, per, poi, ritornare
puntualmente il giorno successivo all’apertura della scuola elementare. Divenne
un elemento di quel quartiere e i loro abitanti si abituarono a lui, alla sua
presenza silenziosa e discreta. Il parroco della chiesa gli offrì una
sistemazione temporanea, in attesa di un’altra definitiva, ma lui con il capo
dissentiva, ringraziandolo con un sorriso.
Giunse il Natale, le luminarie addobbarono le strade e furono
appese anche a quel crocevia, i bambini maleducati smisero di insultare il
misterioso clochard: lo spirito della festa li aveva resi meno offensivi e
tolleranti. Lui distribuiva sorrisi a tutti, dalla sua porzione di marciapiede
regalava sguardi carichi d’amore. E quell’angolo divenne un altarino ricoperto
di cibi, panettoni, frutta, leccornie varie; avrebbe dovuto invitare altri
barboni nel suo angolo felice: troppo cibo per una sola persona. Nessuno lo
invitò a trascorrere il Natale al calduccio familiare e se anche lo avesse
fatto, il barbone del quartiere avrebbe rifiutato, così come aveva respinto con
gentilezza la proposta del sacerdote.
“Signore, oggi è la vigilia di Natale, Gesù Bambino piangerà se
non vieni con me!” sussurrò timoroso Andrea “L’ho chiesto alla mia mamma e mi
ha detto di si. Noi abitiamo di fronte, dalla finestra
guarderò io la tua casa!”
La mamma di Andrea aveva acconsentito: sapeva che il misterioso
barbone non avrebbe accettato. D’altra parte lei non poteva rifiutare il
permesso al suo bambino, non sarebbe stato educativo: gli aveva sempre
inculcato sentimenti di generosità e amore per tutti, l’aspetto ripugnante
dell’uomo non avrebbe giustificato il suo rifiuto. Il caro Andrea per ottenere
il consenso aveva spiegato alla mamma che avrebbe suggerito all’uomo di lavarsi
per bene prima di sedersi a tavola. “Sai mamma, gli insegnerò io come si
fa!”aveva detto gioioso.
Tutto lasciava presagire che il senzatetto avrebbe rifiutato e
invece si alzò, si dette una sistematina alla logora giacca, prese un
pacchettino dal carrello e con passo stentato ma fiero s’avviò al fianco del
bambino che felice suonò a più riprese il citofono di casa.
La tavola era imbandita a festa, l’albero maestoso irradiava luci
rossastre che baluginavano dapprima fiocamente, poi più intensamente mettendo
in risalto le variopinte palline, i piccoli babbi natale, le coccarde, i fiori
vezzosi. In basso sulla credenza occhieggiava il presepe fulcro dei ricordi
passati: era la grotta dell’infanzia della madre di Andrea, ogni statuina
rappresentava le varie tappe della sua vita; mancava il pastorello, era
scomparso assieme al padre di lei quando si era allontanato per sempre, ad ogni
natale la donna rievocava mentalmente quella spina nel
cuore.
“Mamma, vedi chi ti ho portato!” annunciò Andrea radioso.
Lei ebbe una morsa allo stomaco e riluttante fece strada fingendo
accondiscendenza.
Erano tutti intorno al tavolo, il cenone
stava per avere inizio, attendevano lui, il barbone, che compostamente si era
allontanato per andare in bagno. Una voce risuonò nella sala, una bella
calibrata voce da attore di teatro, una di quelle voci che fanno innamorare.
“Era questa che aspettavi?” e posò la statuina mancante nella
grotta dei ricordi.
*********************
Una passeggiata di Natale
di
Avevo portato a casa le solite due pizze. Eravamo soli ed abbiamo
mangiato quasi per abitudine, forse anche con poca voglia, mentre la tivvù
gracchiava a toni bassi.
Mia moglie era stata tutto il pomeriggio alla festa di compleanno
di Alice, mentre io ero riuscito a mantenere l'impegno con me stesso, per
partecipare alla presentazione di un libro di poesie di un giovane autore.
Avevo parcheggiato lontano dalle strisce blu a pagamento, attorno
al centro storico, mi sarebbe costato tre-quattro euro, invece avevo preferito
fare una lunga e sana passeggiata.
Sana non tanto, a dir il vero, con tutto quel traffico di auto in
fila, motori accesi ed assenza di vento.
Avevo camminato e quasi gustato il variopinto spostarsi della
gente, falsamente indaffarata, semmai preoccupata, così dicono, di provare a
trovare una bottega nella quale poter comprare
un oggetto, un regalo, per sé o per altri, spendendo il meno
possibile, quasi nulla, giusto per dire il pensiero, ti ho pensato ed ecco il
regalo di Natale.
Al centro,dove sono i due grattacieli,
sempre più brutti e più fatiscenti, le persone mi sembravano al contrario più
tranquille, meno agitate. O il regalo l'avevano già acquistato o a questo non
stavano minimamente pensando. Si godevano - ma sarà vero? -
quell'andirivieni di sconosciuti, di giovani sdraiati sulle panchine, di
arzilli vecchietti che commentavano la solita festa, la solita
presenza, la solita maleducazione dei soliti automobilisti in doppia fila,
fermi ma con le freccette accese, per dire, sono qua, non mi fare la multa.
Una puzza insopportabile di benzina e gasolio come ornamento a
quella passeggiata, mentre all'angolo della Chiesa del
Rosario un uomo barbuto, emblema del fai-da-te, preparava il suo braciere, con
tanto di carbone e carbonella, per poggiarvi sopra il tegame bucato per le
caldarroste. Chissà quale sapore ne veniva fuori.
A cento metri la via della fainé, quell'impasto di farina di ceci
che tanto piace ai miei amici, ma che ti riempie gli abiti, compresi quelli
intimi, di nauseabondi profumi esotici.
Tutt'attorno, è vero, vetrine scintillanti ed invitanti, avamposto
di sogni e desideri, molti dei quali destinati a rimanere tali, ma l'importante
è partecipare, vedere ma non toccare, maledire
l'euro, ma anche con le lire dell'Unità d'Italia si facevano le
stesse esclamazioni, soprattutto nella settimana di Natale.
Un incrociarsi di mille e un volto, alla ricerca anche di un
saluto, di una parola che non veniva, perché erano tutti occupati al
telefonino, a quello video e al nuovo I-POD, che ti impedisce
pure di sentire, così vai più spedito a quell'incontro, negli incontri
del nulla.
Vuoi mettere la nuova tecnologia avanzata? La comunicazione se n'è avvantaggiata e come!
Infatti per le strade c'è più silenzio; la gente, giovane e meno giovane,
parla da sola, massimo fa qualche gesto e la mimica ne approfitta. Anche questo
è spettacolo!
D'incanto il sipario s'era aperto su un altro quadro.
Stavo entrando in una vecchia libreria e vidi il mondo, un altro
mondo, fatto di adulti, di giovani, pure di ragazzini che cercavano il libro di
un novello Pinocchio o di un resuscitato D'Artagnan.
Persone che parlavano, che si scambiavano opinioni, che
criticavano questo o quello scrittore, che inseguivano il titolo di un romanzo
di un autore famoso non ancora arrivato tra gli scaffali.
Assapori anche polvere, ma non ci fai caso, perché tutti ne siamo
presi. Basta una spazzolata e un po' d'aria e via.
Uscendo da quell'incontro mi sono ritrovato nel fiume di prima.
Era ingrossato ma quel silenzio era sempre uguale, come i rumori, solo
meccanici e di fastidio.
L'auto mi stava aspettando un po' lontana
e allora il mio passo si fece più veloce.
*************
Una madre
di
Salvo
Zappulla
Percorse qualche metro ancora, tenendosi il fianco. C’era un gran
silenzio tutt’intorno, come se la natura avesse spento i suoi rumori, partecipe
del dramma. Non ce la faceva più a proseguire, ad ogni
passo le fitte di dolore s’intensificavano. Il freddo intorpidiva le sue
membra. Erano ancora distanti le luci della casa e si rese conto che non
sarebbe riuscito a raggiungerla. Le gambe cedettero di schianto, sul bordo
della strada, vinte dalla stanchezza e dal freddo. Si adagiò con la faccia
sulla neve. Perché l’avevano mandato a combattere? Cosa c’entrava lui con la
guerra? Trovò la forza di sollevare il volto da terra e
chiedere aiuto: “Ehi, lassù, mi sentite? Aiutatemi, per favore. Sto morendo!”.
La porta rimase chiusa.
E c’era da capirli. Era uno straniero, un nemico. “Aiuto! Aiuto!” urlò ancora con le poche
forze che gli rimanevano. Il gelo lo stava avvolgendo, presto sarebbe
arrivato fino al cuore. Aveva una gran voglia di dormire e farla finita. Il
cielo era d'un bianco latteo. Che peccato morire in un giorno così bello. Pensò
ai suoi cari che non avrebbe più rivisto, alla sua casa, all’alberello che
aveva piantato nel giardino. Chissà se aveva già dato i primi frutti. Mancava
da due anni oramai. Prima di chiudere gli occhi ebbe l’impressione di vedere la
porta aprirsi ma forse era un sogno o un miraggio. La guerra cova rancori, le
divise segnano solchi profondi nell’anima della gente. Ma non l’aveva voluta
lui la guerra, gli avevano scaricato un fucile tra le braccia e l’avevano
inviato a combattere. Ora si ritrovava in una strada deserta, unico
sopravvissuto di uno scontro a fuoco. Era riuscito a fuggire, non voleva finire
prigioniero. Il respiro sempre più debole, la mente che vagava alla ricerca di
volti familiari. Nel sonno inquieto che precede la morte trovò il viso di lei,
sua madre. Veniva a portargli conforto. La chiamò: “Madre,
madre, non voglio morire! Ho solo vent’anni”.
Aprì gli occhi in un ultimo sussulto di ribellione, tentò di alzarsi. Incontrò
lo sguardo caritatevole di una donna sconosciuta e la sua mano che gli premeva
un panno caldo sulla fronte. “Chi sei? Non ti conosco.
Tu non sei mia madre, anche se il tuo viso stanco, i capelli
raccolti sulla nuca sono uguali ai suoi”.
Sorrise la donna, ed il suo era un sorriso dolcissimo, di quelli
che riscaldano il cuore. ”Che importa, ragazzo mio, tu sei un
figlio che chiede aiuto ed io sono una madre: le mamme sono tutte uguali.
Hai bisogno di aiuto, non posso negartelo”. Lo aiutò a
girarsi con la faccia verso il cielo, ora poteva respirare meglio. “Ce la fai
ad arrivare fino a casa sorreggendoti al mio braccio?”. Provò ad alzarsi ma le
sue povere gambe sembravano di legno e il sangue sgorgato dalla ferita lo aveva
reso debolissimo. Scosse la testa. Lei gli fece coraggio:
“Aspetteremo qui, tra poco dovrebbe tornare mio marito, è andato in paese col
calesse. Intanto bevi questo, ti farà bene”.
Gli appoggiò sulle labbra una ciotola con una bevanda bollente. Il ragazzo si
sentì rianimare.
“Ti senti meglio?” chiese la donna regalandogli un sorriso. Anche
questo gli fece un gran bene. A volte l’amore riesce a curare le ferite. “Ti
ringrazio, mi hai salvato la vita”.
La donna sospirò. “E’ ancora presto per dirlo.
Purtroppo sono vecchia, non ce la faccio a trasportarti fino a casa. Sono sola, i miei figli sono stati chiamati a combattere”.
Sospirò ancora. “Chissà dove saranno in questo momento”.
Il soldato rimase in silenzio, si sentì in colpa; magari li aveva
affrontati in battaglia, magari li aveva uccisi. Cercò di non pensarci. “Anche
voi avete un bel cielo” disse, “sembra un’enorme coperta azzurra pronta a
calare su di me”.
“E’ bello il cielo quando non è offuscato dalla polvere da sparo”
disse la donna.
Ci fu un’altra lunghissima pausa, poi il giovane chiese: “Quanti
anni hai?”.
“Sessantasei”.
“La stessa età di mia madre! Anche lei porta i capelli raccolti
sulla nuca. E’ molto bella mia madre. Anche tu sei bella, le assomigli”.
“Non agitarti, non consumare le forze”. La donna gli tamponò la
ferita con un panno, poi guardò preoccupata verso il sentiero. Suo marito
tardava ad arrivare. Pensò che il ragazzo non ce l’avrebbe fatta a resistere
ancora per molto.
Ricominciò a nevicare.
“Ho freddo, tanto freddo” si lamentò il soldato.
“Forse è meglio che vada in casa a prenderti una coperta”.
“No! E’ troppo lontana! Ho paura. Non lasciarmi
solo”.
La donna guardò ancora verso il sentiero. Suo marito non arrivava.
Capì che non rimaneva altro da fare, si sdraiò accanto al ragazzo per
riscaldarlo con il suo corpo.
I fiocchi di neve aumentavano d’intensità.
“Ma tu stai rischiando la vita per me! Perché lo fai? Non mi conosci, io sono tuo nemico”.
“Sssstt”. Gli chiuse le labbra con un dito. “ Tu sei un figlio ed
io sono una madre, solo questo conta: tua madre farebbe altrettanto per il mio,
ne sono certa, perché le madri sono tutte generose. E poi
oggi è un giorno speciale, non posso lasciarti morire proprio oggi”.
“Che giorno è?”.
“E’ il giorno di Natale”.
“Non lo sapevo. In guerra i giorni
sono tutti uguali, sono fatti di neve”. Furono le ultime parole, calò un
torpore bianco su di loro e si addormentarono sereni.
Quando l’uomo col calesse tornò dal paese li trovò sdraiati l’una accanto all’altro; la donna era ricoperta
interamente di neve e, chinandosi per soccorrerla, si accorse che il gelo si
era impadronito per sempre del suo corpo. Il ragazzo respirava ancora, seppur
debolmente. Lo portò dentro e lo adagiò accanto al camino, accese il fuoco in
silenzio, sempre con la stessa lentezza dei gesti. Dal suo volto non traspariva
alcuna emozione, i suoi lineamenti parevano cristallizzati, forse anche i
sentimenti. Lo spogliò e cominciò a frizionarlo su tutto il corpo con una
sostanza oleosa presa da un vasetto; indugiò nelle estremità degli arti dove
maggiore era il pericolo di assideramento, alla fine lo arrotolò su una pelle
di montone, quindi uscì per dare sepoltura alla sua donna.
Nei giorni che seguirono si prese cura di lui imboccandolo come un
neonato, più volte lavò e disinfettò la ferita. Rimaneva in silenzio, aveva
nello sguardo sempre quell’espressione impenetrabile, non si capiva se fosse
odio o indifferenza.
“Mi dispiace per ciò che è successo” disse il ragazzo quando si fu
ripreso, “ la tua donna ha sacrificato la sua vita per me, non volevo”.
L’uomo continuò a sospingergli in gola il cucchiaio con la
minestra, sembrava sordo. Gli voltò le spalle e andò fuori a tagliar legna.
Altre settimane trascorsero ancora, il ragazzo aveva riacquistato
le proprie forze, cercava di rendersi utile ma quando gli rivolgeva qualche
parola, il vecchio rimaneva a fissarlo con quegli
occhi senza espressione, si alzava dalla sedia e si dedicava alle sue faccende.
Una sera, rientrando con il suo cavallo dal paese, si fermò
davanti a lui e gli disse: “Puoi andare ora, la guerra
è finita. Ci sono i vestiti di mio figlio nell’armadio,
indossane uno e vattene per il sentiero”. E si allontanò per sistemare
il cavallo nella stalla. Il ragazzo gli corse dietro: “Aspetta, voglio sapere
se mi odi”.
Lui continuò indifferente a dare il fieno al cavallo.
“Dimmi almeno perché mi hai salvato la vita”.
Si voltò. “Perché il sacrificio di lei avesse un senso”.
All’alba il soldato si avviò per il sentiero. Mentre ritornava a
casa pensò che lo avevano privato di tre anni della
sua vita, tanto era passato da quando era partito. Chissà se il piccolo Robert
com’era cresciuto, doveva essere diventato un uomo oramai; e sua madre, dai
capelli argentati, sicuramente lo stava aspettando a braccia aperte sull’uscio
di casa. Sarebbe stato accolto con gli onori dovuti a un reduce. Davanti
all’uscio di casa invece c’era solo il fratello ad attenderlo e, appena lo vide
gli buttò le braccia al collo. “E la mamma?” chiese provando un oscuro
presentimento.
“La mamma non c’è più” disse il fratello mestamente, “ è morta un
anno fa per salvare la vita a un giovane che stava per essere travolto da
un’auto. Era uscita per andare a messa, era il giorno di Natale, e vedendo il
giovane in pericolo di vita, non ci ha pensato due volte a lanciarsi per
salvarlo. E’ morta al posto suo”.
“Era il giorno di Natale?”.
“Sì. Cosa gli importava poi di quel ragazzo, non
era mica suo figlio”.
“Sì, era suo figlio. Una madre è la
madre di tutti” disse il soldato asciugandosi una lacrima. Gli passò un
braccio sulle spalle e si avviarono dentro casa.
******************
Natale di guerra
di
Fu l’ultima volta che gli porsi gli auguri di Natale,
consegnandogli il solito panettone, un modesto omaggio per un amico che tanto
mi aveva insegnato con l’amore quasi di un padre. Un dicembre freddo, quello, e
con la neve che tardava a venire, con disappunto di chi, per tradizione, si
auspica una festa così cristiana e familiare nel caldo della casa e con i tetti
e i campi imbiancati.
Fu l’ultima volta, ma non lo sapevo, anche se, dopo la
visita, nel ritornare a casa, infreddolito per un venticello gelido che
spazzava le strade ebbi netta la sensazione che il mio caro amico Guercio era
prossimo al capolinea.
Mi ricevette con il consueto affetto, ma in lui era
presente un’ombra, che quasi si poteva scorgere nell’unico occhio rimasto, non
più vivo come in passato, anzi smorto, quasi perso a guardare un futuro
indefinibile e comunque non roseo.
- Hai fatto bene a venire. Tu non ti dimentichi degli
amici e i tuoi auguri mi sono particolarmente cari.
- Non potevo mancare e non per abitudine, perché il
rivederti ogni volta è un piacere e trovarmi di fronte a te in questo giorno di
vigilia mi commuove in modo particolare. Come stai?
Chinò la testa, ormai del tutto incanutita.
- Sto, ci sono, con i miei malanni, fin troppo fedeli, ma
senza il calore di mia moglie. Mi manca tanto, Renzo, e ancor di più in una
festa come questa.
Non dissi nulla, perché nulla si può dire a un povero
vecchio, alla fine dei suoi giorni, privato da anni della compagnia della donna
che aveva così tanto amato.
Però qualche cosa dovevo inventarmi, anchè perché l’occhio
del Guercio cominciava a luccicare per una lacrima.
- Dai, però ci sono i tuoi figli, e questo conta molto.
- Buoni, quelli. Una telefonata di auguri domani mattina e
se la sono cavata.
- Scusa, uno sta negli Stati Uniti e l’altro invece a
Palermo…
- Vero, ma mai che trovino il tempo per un Natale, dico un
Natale, solo un Natale, per venirlo a passare con questo povero vecchio.
Oggi la gente ha troppo e al troppo sacrifica i
sentimenti. E per questo, se tu hai un po’ di tempo per restare, ti voglio
raccontare una storia avvenuta nel 1942, in piena guerra, alla vigilia di Natale.
- Racconta pure.
- Questo fatto mi è venuto in mente proprio oggi, dopo
così tanti anni. E’ balzato fuori all’improvviso, così vivo, così nitido, come
se fosse accaduto ieri. Ebbene, come ti dicevo si era alla fine del 1942, io
già congedato come invalido di guerra per via dell’occhio perso l’anno prima in
Albania. Quelle poche speranze che il conflitto durasse poco erano scomparse e
al freddo, alla fame, si accompagnava anche la paura per i bombardamenti. Qui
volevano colpire il ponte, ma non sempre la mira era precisa e già alcune case
erano state distrutte. Ricorderò sempre i corpi delle
vittime, appena estratti dalle macerie e distesi in mezzo alla strada, volti
sfigurati, ossa spezzate, un vecchio maciullato, una bambina intatta e che
pareva che dormisse. Tu non puoi capire cosa si prova a vedere la morte, non
come fatto naturale, che è già dolorosa, ma per mano dell’uomo. Si mescolano
sentimenti strani, un misto di commozione, rabbia, perfino odio, e infine
un’avvilente rassegnazione. Ma ritorniamo a quella vigilia di Natale che voglio
raccontare come se la rivivessi ancora e pertanto ti prego di non
interrompermi.
Ecco la scena appare nella nebbia, una casa, questa, una
stanza, questa, una famiglia, la mia.
- Annibale, nel tuo giro,
cosa hai trovato?
- Sono stato anche
fortunato, spendendo tutto quello che avevo in tasca. Ecco, se guardi nella
sporta, ci sono dei fagioli secchi, cinque patate, due fettine di lardo, un
etto di burro e sei uova.
Tilde abbassa gli occhi e
a bassa voce si lascia andare a uno sfogo:
- Altro che cenone,
questo è già poco per un pasto e ci deve bastare per almeno tre giorni.
Allargo le braccia, ho
girato tanto, non so quanti chilometri ho fatto in bicicletta per strade
dissestate, al freddo, un freddo che mi porto dietro ormai da giorni, e non ho trovato che questa poca roba.
- Tilde, sono già le tre
del pomeriggio e se vuoi riesco.
- Cosa vuoi andare di
nuovo, a prenderti una polmonite?
Chino la testa, perché
ormai sono rassegnato. Non mangiamo carne da mesi, qualche volta, se riesco a
pescare in Po qualche pesce è quello un giorno fortunato. In casa sono tre le
bocche da sfamare, la mia, quella di Tilde e quella del nostro bimbo.
- Vedi di fare qualcosa,
un po’ di pane, un uovo al burro, due patate lesse, è sempre meglio di niente.
- Il bambino deve
mangiare e ha bisogno di carne, anche.
- Dagli
un uovo, che è la carne di domani.
Sono fra l’arrabbiato e
il disperato e allora esco di casa, sbattendo la porta. Vado, cammino, senza
una meta. Mi sento drammaticamente inerme, perché non posso fare nulla.
Già si fa buio e
ricomincia a nevicare. Passano le ore, non so quante, perché non ho più
l’orologio, l’ho impegnato al Monte di Pietà, forse è già l’ora di cena ed è
così.
Passo davanti alla casa
di Marchetti, il gerarchetto, come tutti lo chiamano, e attraverso i vetri vedo
la tavola imbandita coperta da ogni ben di Dio: antipasti vari, tortelli,
zamponi con le verze, faraona arrosto, insalate miste,
panettoni.
Lui può, è un fascista
scalmanato e quello che non riesce a comprare se lo fa dare con le maniere
forti.
C’è tanta di quella roba
che una famiglia come la mia può mangiare a sazietà per un mese.
Passo oltre, sconsolato e
arrivo quasi al ponte, quando all’improvviso suona l’allarme.
Corro via subito, perché
quello è l’obbiettivo, ma non so dove andare, poiché le bombe possono cadere
ovunque, anzi già temo per la mia famiglia e l’immagine dei volti di mia moglie
e di mio figlio si sovrappongono a quelle dei morti dei precedenti
bombardamenti.
Sento un rumore di motori
in cielo, poi mi strazia il sibilo delle bombe, e infine ecco le esplosioni.
Avverto chiara una vampata di calore, sono gettato per terra, mi duole tutto un
fianco. Il buio non c’è più e la luce dei bengala e dei roghi accesi dalle
bombe rischiara il buio, al punto che sembra di essere di giorno. Ho alcuni
tagli nelle mani provocati dai vetri infranti, il fianco mi fa sempre male,
come se qualche cosa gli premesse contro; mi porto una mano per toccarlo, ma
non ho ferite, eppure sento premere e allora decido di alzarmi, con fatica.
Mi reggo a malapena sulle
gambe e cerco di capire dove sono: mi trovo davanti alla casa di Marchetti, i
vetri sono infranti, per lo spostamento d’aria la tavola imbandita è diventato un ammasso di cibo, guardo ancora per terra e
non credo ai miei occhi, perché c’è una faraona arrosto e non solo lei, anche
un paio di zamponi che sembrano invocare la mia attenzione unitamente a un bel
panettone.
Mi guardo in giro, non ci
sono case crollate, la gente è ancora nei rifugi e, mentre i bombardieri si
allontanano, raccolgo tutto quel ben di Dio e corro a casa.
Tilde è in preda
all’angoscia, ma quando mi vede ha un sospiro di sollievo, che si tramuta in
gioia quando nota il cibo che ho in mano.
Mi chiede come ho fatto e
io le racconto.
- Annibale, è stato un
dono di Dio e come tale non può restare solo a noi.
- Ma Tilde, se lo
dividiamo con tutti gli altri, non ci resterà nulla da mangiare..
- No, non con tutti gli
altri, ma con don Zeffirino, che è da tre giorni che non tocca cibo per darlo a
quei poveri profughi e poi chiamiamo a cena anche la signora Giovanna, che è
già povera in tempo di pace, una donna che porta con dignità la sua miseria.
Sei d’accordo?
- Come si fa a non essere
d’accordo con te, che hai un cuore troppo grande.
E così fu.
- Commovente.
- Renzo, quello è stato il più bel Natale della mia vita
ed è da allora che ho imparato quanto sia grande la gioia nel donare.
Mi abbracciò, ma si avvertiva chiara la difficoltà nel
respirare: al suo cuore malato si aggiungeva l’enfisema. Eppure strinse,
strinse forte e quando mi disse “Buon Natale, amico caro”, mi vennero le
lacrime agli occhi.
Contraccambiai la stretta, ma mi accorsi di avere fra le
braccia un povero mucchietto di ossa, ciò che restava di un uomo che tanto
aveva dato a tutti e che a me dava ancora con la sua amicizia.
- Adesso vai, perché non voglio commuovermi. Buon Natale Renzo.
- Buon Natale, caro Guercio.
Uscii e presi la strada di casa; passai davanti
all’abitazione che era stata di Marchetti e vidi una tavola imbandita e allora
ritornai sui miei passi, e tanto feci e tanto strepitai che quella sera il
Guercio cenò da me.
(Da Storie di
paese)
Ho incominciato a leggere questi bellissimi racconti, grazie, Renzo, per avere avuto quest'idea
RispondiEliminache mi fa sentire in pieno clima natalizio e fra amici che amano scrivere i loro pensieri.
Mentre fuori fa freddo e nevica, immergersi nei pensieri degli altri è utile all'anima e riscalda il cuore. Non tutto è perso in questo mondo, nonostante la malvagità che giorno per giorno si riscontra.
RispondiEliminaGrazie per il bel regalo natalizio, Renzo.
Lorenzo
Per adesso ho letto solo il racconto di Fanti-Freccero, che mi e' piaciuto moltissimo. Bravi - in tutti i sensi.
RispondiEliminaE' proprio una fotografia veritiera della situazione editoriale italiana. Adesso servirebbe un'altra storia dedicata alla ''grande'' editoria, che non e' troppo migliore di quella a proprie spese, anche se i difetti sono altri.
Quanti bei racconti! Me ne leggerò un po' al giorno, poi tornerò con le mie impressioni.
RispondiEliminaGrazie Renzo
franca
Renzo, li ho letti tutti senza potermi staccare, alcuni sono cari ricordi studiati a scuola, altri veramente bellissimi, conoscevo già quello tuo e l'ho riletto con grande gioia, anzi l'ho bevuto: esiste il Natale. Oh, se esiste.
RispondiEliminaHo appena finito di leggere questo post bello, speciale, coinvolgente, l'ho fatto con calma e mi ha fatto un gran bene. Ho sentito pienamente l'atmosfera natalizia, quelle suggestioni autentiche che luminarie nelle strade e altre luci artificiali svuotano di significato. Non ho niente contro queste cose però il Natale è altro, perlomeno non esclusivamente questo.
RispondiEliminaOgnuno di questi racconti ha qualcosa in sé che lo rende prezioso, ognuno insegna e regala qualcosa.
Grazie quindi a tutti gli autori, quelli appartenenti al passato e quelli contemporanei, e grazie a te, Renzo, per la bella proposta.
Buon Natale a tutti.
Piera