C’è uno spazio fra la realtà e il sogno
che solo a pochi è dato di conoscere.
Czernicka
di Enzo Maria Lombardo
La
leggera cortina di nuvole poggiata sulle colline basse dell'entroterra, appena
rosata dal primo chiarore del mattino, si stagliava netta su un cielo ancora
nero su cui ormai sbiadivano le ultime stelle, mentre, in modo impercettibile,
al margine dell’autostrada si formavano spazi e profili nuovi, prima
inesistenti nel tunnel luminoso dei fari abbaglianti. Il nastro nero
dell’autostrada si allontanò quasi improvvisamente dalla costa e, curvando,
prese ad inerpicarsi sui monti, tra piccole gallerie ed altopiani, mentre il
paesaggio, al vago chiarore del mattino, assumeva un aspetto brullo e
spettrale, con gli alberi spogli che protendevano rami umidi di rugiada
illuminati dai fari. Il paese apparve all’uscita di
una galleria, quasi un presepio arroccato sul cocuzzolo di una collina, con il
campanile sovrastante le poche, piccole case, seminascoste dal verde e ancora
avvolte dalla bruma che saliva dalla vallata.
Mentre imboccava la rampa d’uscita e s’immetteva nella provinciale, Mario Antonacci
continuò ad osservare dal basso quell’agglomerato di
case i cui colori diventavano sempre più nitidi ed i contorni più definiti man
mano che il vento spazzava via gli ultimi brandelli di nebbia. Il paese,
stagliato in un cielo ormai azzurro con poche nuvole candide che si rincorrevano sopra il campanile, appariva, nel silenzio del
mattino, tanto strano ed irreale da temere quasi che non ricomparisse dopo
l'uscita dai tornanti che per un momento ne chiudevano la vista.
Con un senso di sollievo Mario parcheggiò la macchina nello
spiazzo deserto antistante il piccolo agglomerato di case e si guardò intorno con in mano il foglietto dove aveva trascritto il nome, l’indirizzo
e alcuni appunti che aveva raccolto al Giornale: “Ada Czernicka,
Vico alla chiesa di Santa Lucia numero due. Settantacinque anni, polacca. Da trent’anni in Italia. Vedova di aviatore. Dicono che riesce
a far guarire stando vicino ai malati. Nessuna pubblicità ma la
gente arriva: quanti? Da dove? Che tipi sono? Si fa pagare? Di cosa vive? Niente telefono. Dicono che fa fiorire i
gerani d'inverno.”
Mario guardò l'ora: le otto e cinque. Troppo presto per piombare
in casa di qualcuno. Forse il piccolo paese meritava una qualche descrizione
nell’articolo: era una buona idea passare una mezz’ora. Alzando gli occhi al
campanile che sovrastava il paese, si avviò verso la Chiesa, dal cui sagrato
sperava di farsi un'idea generale della conformazione del posto. Il paese
cominciava a dare segni di vita: qualche finestra si apriva qua e là con uno
sbattere di persiane. Visi curiosi si indovinavano dietro i vetri. Due
contadini anziani lo salutarono incrociandolo in una stradina ed i loro passi
pesanti continuarono a rimbombare fra i vecchi muri di pietra quasi a
sottolineare il silenzio greve del luogo. Con le mani in tasca ed il bavero
dell'impermeabile alzato, Mario continuò a fatica la salita inerpicandosi nei
vicoli a gradoni fino alla Chiesa. Da lassù, affacciato a strapiombo sulla
vallata, vedeva sotto di lui ben poche case e stradicciole
deserte che davano l'impressione di un triste abbandono. Il lontano nastro
dell'autostrada, stagliato nel verde della vallata e punteggiato dei riflessi
dorati delle auto in corsa nel sole del mattino sembrava quasi un simbolo dello
scorrere frenetico della vita lontano da lì. Ansimando e fermandosi a riposare
sul sagrato, pensò che levatacce ed interviste solitarie in paesi abbandonati poteva anche lasciarli ai colleghi più giovani che
bivaccavano nella redazione.
“Ci saranno sì e no una ventina di
vecchi in questo paese – disse tra sé Mario rabbrividendo al vento pungente che
sembrava essersi rinforzato durante la salita - un posto ideale per
fattucchiere e leggende di paese.” Intimamente, però, ammise, quasi a malincuore,
che quel posto aveva una dolcezza tutta sua. "La dolcezza triste della
vecchiaia?" – si disse – “Se è così, fra poco comincerò ad essere dolce
anch’io.”
Ma non era salito sin lassù per lasciarsi intristire
da un posto triste. Lassù doveva far lavorare il cervello. Mettere a fuoco il
suo scetticismo e la sua curiosità. Capire fino in fondo dove arrivava la
credulità della gente. E forse ne sarebbe nata una serie di articoli, se riusciva a spuntarla con l’editore.
Rimuginando questi pensieri e cominciando ad impostare mentalmente la traccia
dell'articolo di apertura che avrebbe scritto e mandato la sera stessa, Mario
aggirò la Chiesa e si trovò in uno stretto vicolo in salita, chiuso tra muri di
pietra non troppo alti, interrotti da piccoli cancelli dai quali si
intravedevano alcuni orti ben curati. In uno di
questi, curva su una piccola fascia di terra appena smossa, stava una vecchia
dai capelli candidi, con una lunga veste grigia a pieghe che le avvolgeva un
corpo alto, fin troppo snello, dalla vita sottile.
Le caratteristiche somatiche della donna, (troppo alta, troppo
sottile, troppo bianca) o forse quel sesto senso che sapeva di possedere e che
gli invidiavano i colleghi, gli fecero capire di essere arrivato e gliene diede
conferma un cartoncino logoro, attaccato sopra un pulsante, con il nome che
cercava.
"Signora Ada... – chiamò - (Come
diavolo si pronunciava quel benedetto cognome?) ...Czernicka?”
La vecchia sollevò appena lo sguardo ruotando un viso scarno e
pallido, quasi illuminato dal candore dei capelli e ripeté "Czernicka" in modo leggermente diverso, prima di
riprendere il lavoro nell'aiola che stava curando ai margini di un piccolo
orto, poco discosto dalla casa. Aveva occhi grandi e
grigi. Belli. Questo Mario poté osservarlo nei pochi attimi che quei grandi
occhi si posarono su di lui.
Mario si presentò e attraverso il cancello stese un braccio con il
suo biglietto da visita.
La vecchia alzò nuovamente la testa candida, si avvicinò al cancello,
prese il biglietto, lo lesse e disse in un italiano un po’ ruvido e piatto ma
sicuro: “Giornalista? Un giornalista dalla Czernicka?
Perchè? Non è famosa la Czernicka.”. Ripeteva il suo
nome con insistenza, quasi con voluttà mentre i suoi
occhi grigi si dilatavano accompagnando un sorriso sornione che disegnò una
ragnatela di rughe sottili nel suo viso.
“Comunque i miei fiori possono aspettare” – continuò aprendo il cancelletto e facendosi da parte per lasciarlo passare -
“sono un po’ come me: non hanno fretta.”
Il soggiorno della piccola casa era zeppo di fiori tanto da
sembrare anch’esso un’aiola fiorita. Fiori coloratissimi sul davanzale, sulla
tavola ed a terra in tanti vasi assiepati in più punti della stanza. Persino
tra le tendine alle finestre spuntavano vasetti penduli, con cascate di fiori
multicolori.
Seduto in una leggerissima sedia di Chiavari che scricchiolava ad
ogni movimento del corpo, Mario si adoperò subito per infrangere il muro di
reticenza che la donna sembrava erigere attorno.
E per far questo Mario cominciò a parlare, solleticando la vanità
della vecchia, lasciandosi trascinare in un fiume di parole che sentiva false
e, mentre parlava, trasse dalla tasca dell’impermeabile un minuscolo
registratore che posò sul tavolo ed accese con noncuranza, dicendo: “E’ per gli
appunti...” .
La vecchia non rispose
ma abbassò più volte la testa canuta, annuendo. Poi, incrociando le
braccia, lo fissò con gli occhi grigi: “Vada avanti – disse – mi piace quello
che dice. Ha una voce dolce...musicale... molto affascinante, lo sa?”
“Grazie. E lei non vuol proprio dirmi niente? Della sua arte,
intendo. Dei suoi poteri. Della sua vita, anche.”
“Della mia vita?” - La vecchia trasse un respiro profondo –
“Niente di Czernicka può interessare i suoi lettori.
Mi creda, a nessuno interessa la vita di una vecchia. Troppo lunga. E
l’arte...oh, l’arte! e i poteri! L’arte è finzione ed
io non fingo. E lei crede che abbia dei poteri?”
“Tanta gente lo crede.” Non era una risposta ma poteva stimolare qualcosa. “E vorrei crederlo
anch’io” – mentì - “Credere che esistono persone
speciali. Credere nella loro forza. Solo che non ci si può fermare solo a
questo, non crede? E’ difficile poi non chiedersi da dove viene questa forza.”
Mario vide che il sorriso era tornato sulla labbra
della vecchia, misto a qualcosa che stranamente somigliava ad una sorta di
apprensione materna. “Forse è fatta” pensò sollevato dando uno sguardo al
registratore. Ma la donna si era alzata ed in silenzio si avviò verso un
cucinino che si intravedeva dietro una tenda a fiori.
“Lei è uscito presto questa mattina. Ha fatto colazione? – disse
la Czernicka ritornando con un piccolo vassoio pieno
di biscotti – Il caffè è sul fuoco. Caffè italiano.”
Dopo un po’, assaporando il caffè in una tazzina d’altri tempi,
Mario tentò di riprendere il discorso.
- “Non mi
ha risposto, signora. Sarei felice se mi dicesse qualcosa. Su questa forza,
intendo. Come la sente arrivare, come la riconosce, come fa a trasmetterla.”
- “Lo deve
proprio scrivere?” – disse la vecchia con un sorriso sornione.
- “E’ il
mio lavoro, signora, però non è solo per quello. A questo punto è per me,
capisce?”
- “Per
lei? Lei vuole capire? Capire...”
I grandi occhi grigi della vecchia si allargarono ancora di più e
lo sguardo divenne sognante, quasi languido. Sembrava che stesse guardandosi
dentro.
Poi quello sguardo si irrigidì e le pupille si puntarono con forza
sugli occhi di Mario.
- “Errore”
– disse con forza – “Tutto sbagliato. Scriva, scriva che è tutto sbagliato. Non
può capire. Non può capire anche se vede, anche se
tocca. Lei vede la vita, vede sbocciare i fiori, li vede appassire. Vede la
morte. Tocca la vita e può toccare anche ciò che muore ma
non può capire.”
Mario tentò di allontanare lo sguardo da quel mare di grigio che
emanava dagli occhi della vecchia. Quelle pupille lo infastidivano e lo
attraevano ad un tempo.
- “La
capisce lei la vita?” – proseguì la Czernicka - “E la
morte? Eppure sono lì, sono sempre vicini a noi, vita e morte. Ci siamo
abituati tanto da non farci caso. Li vediamo lontani, tanto lontani, molto più
delle Stelle e assai meno comprensibili.”
Mario sentiva la voce della vecchia sempre più piano, quasi una
cantilena rassicurante, dolce ed ipnotica. Non voleva che smettesse. Quella
voce era diventata un sussurro quasi indistinguibile dai rumori della campagna.
Rumori ritmici, continui, fruscianti, come lo stormire degli alberi vicino alla
casa, il cinguettio degli uccelli, il canto lontano d’un gallo. D’un tratto era
diventato faticoso capire il significato di quelle parole. Sperò solo che il
registratore funzionasse a dovere.
Poi cercò di mettere a fuoco qualcosa che gli impedisse
di annegare in quell’inaspettato fiume di parole. I
fiori, ad esempio. Doveva guardare bene i fiori. La casa ne era piena. Anche le
tende, le pareti. Fiori dappertutto. Ricordava fiori dai colori sgargianti. Ora
erano grigi. Pareti grigie. Ed un riquadro di cielo grigio oltre la finestra
sovrastava un mare di erba grigia. Di un grigio luminoso, fresco, come il cielo
dopo un acquazzone primaverile, appena coperto da un velo di nubi con grandi
squarci d’azzurro.
Mario sentiva la bocca impastata. Gli era difficile formulare
anche una domanda banale.
- “ I
gerani, signora... i gerani...dicono che riesce a farli fiorire d’inverno...” – riuscì a dire.
La Czernicka non rispose oppure Mario
non l’udì. Sentiva invece sempre più forti i rumori della campagna e udiva
appena la voce della vecchia frammista ai fruscii delle fronde. Quella voce,
adesso, gli sembrava necessaria per giustificare l’esistenza stessa di quel
momento: senza di essa vi sarebbe stato un silenzio
innaturale.
“Lei non crede che io abbia tentato di capire? – stava dicendo la
vecchia – “Tutta la vita ho tentato, ma è inutile. Forse capiremo alla fine.
Forse proprio all’ultimo momento, chissà.” - Sorrise -
“Forse capiremo appena dopo la fine ma non potremo dirlo a nessuno e lei,
signor Mario, non lo potrà scrivere sul suo giornale...”
Il giornale, già, il giornale. Mario pensò vagamente ad un fax che
voleva mandare quella sera stessa. Ma il fax svanì quasi subito dalla sua
mente, come un’immagine non a fuoco, di nessuna importanza.
La donna, seduta nella piccola sedia tornita, continuava intanto a
parlare anche se le parole diventavano sempre più
indistinte e confuse: vocali troppo lunghe assorbivano nella loro musicalità
intere frasi in un tempo stranamente dilatato mentre Mario si sentiva immerso
in una specie di musica, quasi avviluppato nel calore di un bozzolo di materia
organica a guardare quel viso fin troppo fresco, illuminato da due grandi occhi
da cui non riusciva a staccarsi e da un sorriso dolce, da adolescente.
L’età della donna. L’aveva scritta su un foglio quell’età. Dov’era quel foglio? Forse sbagliata, quell’età. Certamente sbagliata.
Era difficile per il maturo giornalista distogliere lo sguardo da
quegli occhi grigi ma la cosa non gli dava fastidio:
anche così riusciva a mettere a fuoco alcuni particolari che prima gli erano
sfuggiti e che ora vedeva con maggiore chiarezza.
I capelli della donna, ad esempio, che prima gli erano sembrati
bianchissimi, ora, forse per via di un raggio di sole che si era insinuato tra
le tende, gli apparivano di un biondo dorato.
La Czernicka continuava a parlare, piano, quasi sottovoce e quella nenia riusciva ora ad acuire
i sensi di Mario, a liberarli dall’ovatta stopposa in cui prima erano caduti,
ad indirizzarli, acuti e curiosi, verso quel corpo snello che si indovinava
sotto la veste lunga della donna.
Oddio, non poi tanto lunga, quella gonna, da nascondere caviglie e
polpacci ben torniti. Anche la lunghezza di quella veste era stata forse una
falsa impressione: quando la donna accavallava le gambe Mario riusciva ad
intravedere un balenìo di pelle bianca.
Si chiese perchè mai quella donna continuava a parlare con una
voce sempre più suadente e maliziosa. Si chiese, ma senza un particolare
interesse, cosa diceva quella voce. L’importante non erano le parole. Non
doveva smettere: era questo l’importante. Suoni indispensabili. Senza di essi il vuoto. Il terrore di trovare il nulla oltre quella
voce.
La voce arrivava sempre più ovattata e morbida, sospinta da labbra
turgide incastonate in un viso di porcellana. Sospesa in un vuoto senza tempo
la voce della donna si librava nella piccola stanza e colpiva corde remote di
esistenza, di piacere, di felicità.
Mario, pur seduto nella piccola sedia di Chiavari, tese le mani
verso la donna che le chiuse nelle sue.
Il fresco abbraccio di quelle mani rese a Mario un barlume di
consapevolezza su una qualche realtà diversa, più vera ed eterna. Che lo toccassero,
quelle mani, che continuassero a stringere forte le sue e
quella realtà sarebbe apparsa in tutto il suo fulgore.
Non le sentiva estranee, quelle mani. Gli dicevano, quelle mani,
quanto aveva perduto nel lungo cammino della sua esistenza e quanto ancora
poteva ancora sperare di afferrare di quel cammino se solo riuscisse ad
annullarsi in esse, se lasciasse che quelle mani lo
toccassero, si fondessero in lui.
Mario vedeva Ada Czernicka immobile.
Tuttavia intuiva estendersi a tutto il suo corpo, in modo naturale e spontaneo,
l’abbraccio di quelle mani. Nessuna parte era tralasciata. Quelle mani lo
mutavano, lo rinnovavano, fino a consentirgli di sentire, nella parte più
intima e nascosta della sua coscienza, richiami ormai assopiti. Sentì venire ad esistenza ricordi quasi dimenticati ed un dolce, intimo
calore che preannunciava il rinascere di qualcosa che non sembrava più
appartenergli.
Poi d’improvviso vide, con lo smagliante fulgore di cristalli
iridescenti.
“Giulia – gridò – mia piccola Giulia! Il tuo fascio di libri
legato con l’elastico rosso... Ti vedo corrermi
incontro, vedo l’onda dei tuoi capelli fluire lenta sul tuo collo e sulle
spalle, ti vedo ansimare e ridere, ridere mentre i tuoi piccoli seni si
sollevano... Mi prendi le mani tra le tue, andiamo al mare, Mario, dici.
Andiamo al mare, Giulia. Le dita intrecciate. Sento il tuo profumo misto alla
salsedine e il tuo respiro che si confonde con lo sciabordio delle onde contro
la scogliera. Più avanti, per un attimo, lo sguardo si perde nell’azzurro e nel
blu, poi si riposa sul tuo profilo ed io immergo il viso nei tuoi capelli... “
Alzando lo sguardo, Mario si vide
riflesso nel grande specchio che occupava l’intera parete di fronte. Non aveva
notato uno specchio in quella stanza, uno specchio così grande, ma fu
soddisfatto di quello che vide. Il suo vestito sportivo a quadri, la sua
cravatta sbarazzina, quel lungo ciuffo di capelli che si ribellano al
pettine...E dire che non aveva notato uno specchio in quella stanza...
I colori, attorno, sono mutati: sono
ormai di un giallo vivo. Tutto giallo. Il sole doveva essere entrato a fiotti
nella stanza, e lui non se ne era accorto .
“Giulia, hai fatto bene a mettere il
vestito rosso. Ti dona. Il sole è già caldo. Dobbiamo sbrigarci: ci aspetta una
giornata intensa con quei diavoli scatenati. Dici che staranno buoni
nell’autobus? No, forse ci faranno impazzire ma non
importa. Non dimenticare i termos, Giulia.”
Il riflesso dello specchio rimanda
immagini diverse. Dalle finestre luci di lampioni e pulsanti insegne al neon.
Dentro calde luci e riflessi dorati ovunque e fra questi riflessi Mario osserva
la sua immagine cambiata. Il vestito scuro ed il papillon gli donano un
aspetto fine, distinto. Forse si intravede qualche capello grigio alle tempie ma non guasta.
“Come siamo eleganti, stasera. E tu sei
bellissima, cara, con il vestito azzurro. Hai prenotato il ristorante per dopo?
O forse preferisci cenare a casa? Anch’io, Giulia, anch’io...”.
Quanto tempo è passato? Solo alcune ore, se le insegne al neon sono ormai spente e
non disturbano più il soffuso chiarore caldo dell’unica lampada schermata che
illumina il salotto. Solo i lampioni mandano ancora la loro luce fredda a
scontrarsi con le imposte semiaccostate.
“Mi piace guardarti, Giulia, mentre
stai sdraiata sul divano. La tua vestaglia rosa ha un colore che si confonde
con quello delle tue gambe nude. Non nasconde nulla quella vestaglia. Tieni la
testa riversa sul cuscino ed io sono tentato di sedermi vicino a te ed
abbracciarti. Ti desidero, Giulia, ma resto in piedi a
guardarti. Stai con gli occhi socchiusi, in silenzio, le braccia e le mani
abbandonate in grembo. Una gamba sollevata. Ti desidero, Giulia, e sembra che
il tuo corpo mi chiami, ma io gli resisto. Ti desidero, Giulia, ma voglio
prolungare questo momento, fermarlo dentro di me. Voglio continuare a guardarti
e mi vien voglia di inginocchiarmi vicino a te e
pregare nel tuo corpo un dio pagano sconosciuto prima di immergermi nel tuo
tepore...”
Il sole si è nascosto e dalle finestre
entrano rettangoli di luce smorta, liquida. Si posa sopra le cose come un velo
plumbeo. I mobili sono pieni di polvere. Il giorno si è di nuovo insinuato in casa ma non ha portato che il colore delle nuvole.
“Perchè, Giulia quella coperta sulle
spalle? Non c’è freddo, Giulia. Perchè quei brividi strani? Il tuo viso è
arrossato, e quasi non sembra più bello. La pelle è tirata, lucida, la tua
fronte imperlata di sudore, da quanto tempo non curi più i tuoi capelli ...”
Il grigio si è trasformato in bianco
vivido. Un bianco che colpisce con forza ed annulla ogni pensiero. Neppure i
sentimenti possono sopravvivere in quel bianco assoluto, spezzato solo da
macchie d’azzurro e riflessi metallici. Strane macchine e tubi alle pareti.
Fetore di disinfettante e di morte.
Mario vede l’ago della
flebo infilato in una mano di Giulia, fermato da un cerotto, la pelle è
nera e gonfia. Si avvicina e prende l’altra fra le sue. L’accarezza, sente il
freddo di quelle dita sottili che spuntano dalla manica macchiata, si china su
quella mano e la bacia e sente il sapore salato delle sue lacrime.
“Non riesci a parlarmi, Giulia, non ci
riesci? Parlami, Giulia! Oh si, si, parlami, cara. I ragazzi? Arrivano, Giulia.
Arrivano. Sono in autostrada. Un’ora al massimo... Ascoltami,
Giulia, ascoltami!”
Con angoscia vede che gli occhi di lei
sono di nuovo spenti ed il respiro è diventato lento e pesante...s’interrompe,
a volte, per riprendere con un rantolo orribile.
“Giulia – ripete, quasi gridando - i
ragazzi verranno, non preoccuparti. Solo un ingorgo, arriveranno fra un’ora al
massimo. La strada è lunga, Giulia, è stato tutto così veloce...”.
Quando solleva il viso si vede riflesso
nel grande specchio, riconosce l’immagine di un uomo dai capelli radi e quasi
del tutto grigi, le guance un pò cascanti, le lenti
spesse. Un uomo che da un pò di tempo, ogni mattina,
lo osserva dallo specchio del bagno.
Quella mano che tiene tra le sue gli viene strappata con decisione e Mario vede solo svolazzare
camici bianchi attorno al letto, aghi perforano vene gonfie, deve uscire dalla
stanza, non vuole, Grida. Viene spinto, tirato, prima
dolcemente poi con forza. Grida. Da lontano vede solo camici bianchi svolazzare
come grandi uccelli da preda, attorno al letto.
Oltre la porta metallica, bianca e fredda, Mario grida ancora qualcosa ma le parole vengono
assorbite dalle alte volte del corridoio deserto, lavate dalla luce bianca,
annullate dal candore delle pareti.
Quando il mondo si ricompose attorno a
lui in una stanza tappezzata a fiori, Mario incontrò gli occhi grigi ed
immobili della Czernicka e si trovò a stringere una
mano estranea, scarna e piena di macchie rugginose.
Non c’era alcuno specchio in quella
stanza.
Si alzò barcollando e con gesti lenti
prese il piccolo registratore, lo spense e l’infilò in una tasca
dell’impermeabile. Disse solo: “Vado via”.
Gli occhi della vecchia erano tristi quando rispose semplicemente: “Mi spiace, mi spiace
davvero.”
Mentre superava la porta immergendosi
nella luce di un sole ormai alto, Mario sentì ancora la voce cantilenante della
Czernicka, opaca e triste, rimbombare nel vuoto
dolorante del suo cervello.
“Se faccio fiorire i gerani d’inverno?
Sì che lo faccio. La Czernicka prova e a volte
riesce. Anche a far rifiorire ricordi. Non è un peccato. Alcuni sopravvivono.
Anche i gerani fioriscono, signor giornalista, ma
pochi sopravvivono. Come i sogni. Come le speranze. Muoiono d’inverno. Anch’io
provo a rifiorire, ma dura poco. Perchè il mio non è un vero fiorire: è solo un
attimo rubato all’inverno.”
Mario aveva già superato il cancelletto sul vicolo. La voce della vecchia era ormai
quasi inaudibile, ma gli sembrò ugualmente di sentire, in lontananza, che
diceva: “L’inverno uccide i gerani, senza pietà, signor giornalista. L’inverno
è troppo forte per la Czernicka.”
Cosa dire? Forte, bello, coinvolgente, drammatico. Immerso nella lettura sono stato trascinato nell'alveo di un torrente che inzia a scorrer quasi titubante sull'alveo della vita, prende vigore, travolge irruento e ritorna sornione a confondersi nell'infinità dell'oceano dove sbocca.
RispondiEliminaSi respira un'atmosfera arcana in questo racconto veramente stupendo.
RispondiEliminaAgnese Addari
Stupendo, sia nell'espressione sia nel contenuto. Oh tu vita, che tanto doni per poi riprenderti ancor di più.
RispondiEliminaA noi mortali non resta che l'inganno dell'illusione, di diventar in un percorso di tempo minimo eterni nei sogni che le nostre anime assetate di ricordi felici sanno proiettare nella realtà.
Alla fine si perde tutto ciò che ci è stato caro, e non ci rimane che la speranza di un al di là che ci ripaghi delle follie di questa vita, amata assai ma ancor più detestata per ciò che rilascia: un perchè senza risposta.
Complimenti Enzo e saluti cari,
Lorenzo
Ecco, nel leggere racconti così si ritrae un ampio senso di appagamento, perchè lo stile, la trama, le descrizioni e il contenuto si fondono mirabilmente in quel quid che più ampiamente, anche se in modo appropriato, si può definire un'opera d'arte.
RispondiEliminaSalvatore Lumia
Davvero bello e molto affascinante!
RispondiEliminaGiovanna
Realtà, sogno, suggestioni, ricordi, sofferenza... C'è tanto in questo racconto che incomincia in modo così "normale" e si conclude alla fine di un viaggio faticoso e doloroso compiuto a ritroso "dentro" la propria vita. L'ho letto in uno stato d'animo di sospensione, di attesa, perché mentre la storia procedeva si moltiplicavano le possibilità, le possibili conclusioni.
RispondiEliminaE' proprio vero, niente di ciò che vediamo è come sembra.
Grazie a Enzo M. Lombardo e grazie a te, Renzo.
Piera