venerdì 19 maggio 2017

90 anni, di Miriam Ballerini




90 anni
di Miriam Ballerini






Un numero che a dirlo
riempie la bocca.
Eppure ti parrà ieri che
bambina,
sanavi le ginocchia sbucciate.
Un battito di ciglia
e gli occhi eran di donna.
Reggi accanto,
con le mani sempre più fragili,
un bagaglio pieno
di tutti i giri di una luna
che a quarti, s’è vestita e svestita
delle fasi di una vita intera.
Una valigia troppo piccola
per contenere tutte le emozioni
che colmato hanno questi anni.
90 anni…
eppure resta solo un numero
per chi ha la scorza d’una arancia
che ancora ha succo con cui nutrire.


La colonna sonora:





Fontamara, di Tiziana Monari




Fontamara
di Tiziana Monari






Non c'è nessun Dio delle stagioni quassù a Fontamara
ci sono stelle stanche ed una luna di passaggio
che sorride indolente
quando gli sciacalli rincorrono la notte
quando la neve di dicembre si addensa sui ciottoli dei fossi



si sacrificano gli agnelli quassù a Fontamara
su queste montagne annegate nell'azzurro
ruvide ed arse dal vento di febbraio



nessuno è padrone od imperatore quassù a Fontamara
c'è solo un gatto che fa le fusa sopra il fieno
e servi, contadini con l'ombra di Giuda dentro gli occhi
che goccia lenta tra la borragine ed il mirto
nel dorso scarlatto delle foglie ormai appassite.



E' sprezzante la vita quassù a Fontamara
ammantata di fame,povertà,carestia
la morte cammina bieca con un cappotto lacero di stoffe
un bottone da capitano
e fila solo un poco d'amore nell'arcolaio



e la fame è come un cucciolo di lupo
la sera prima del sogno
solo poche castagne,le mele vizze sulla tavola apparecchiata ad ombre e pane



persino il silenzio riposa stanco
mentre la vita accade
e trema l'inverno randagio sopra il cuore.



Quassù a Fontamara.



La colonna sonora:



https://www.youtube.com/watch?v=7k5VapxafWQ








Meglio..., di Renzo Montagnoli




Meglio…
di Renzo Montagnoli




Meglio morire
quando si corre nel vento,
ogni giorno diverso, ogni cosa mai uguale
nella pubertà che è la più bella età.


Dopo,
i soliti riti tribali, la villeggiatura
tutti intruppati, la partita di calcio la domenica,
lo stanco bacio della buona notte.




Meglio morire
con in bocca il sapore
di un bacio rubato
e il fremito che ancora invade il corpo.


Baci anonimi,
quasi dovuti, sapori di salsa di pomodoro
o peggio ancora l’acre aroma del tabacco
baci senza passione in giorni grigi di noia.


Meglio morire
quando si cavalca l’onda
nella speranza che non si spenga mai,
nel desiderio di affondare in un mare di specchi.


La monotonia delle giornate,
ogni cosa che ha un suo prezzo,
anche l’affetto, se ancor si può chiamarlo tale.
E infine l’attesa di quel momento senza ormai rimpianti.




Meglio sarebbe
non essere mai nati
per non dover poi
morire ogni giorno.




Da La pietà


La colonna sonora:


















Siamo tutti migranti, di Laura Vargiu



Siamo tutti migranti
di Laura Vargiu




Siamo tutti migranti
da millenni erranti,
vagabondi d’anima e cuore
eterni profughi tra giri di parole
inseguiamo sogni, speranze, illusioni
le fragili stagioni dei nostri amori


Siamo tutti migranti
antiche e nuove diaspore danzanti,
più degli uccelli spieghiamo le ali
più delle nuvole sorvoliamo terre e mari
per trovar vergine inizio altrove
pur se radici forti s’intrecciano alle rose


Siamo tutti migranti
impazienti e stanchi,
in cerca di qualcosa o di qualcuno
mortalmente affamati di futuro
mentre l’oggi si consuma inerme
e solo il passato ci appartiene veramente


È forse l’atavica memoria a muover i nostri passi
ad accomunarci dalla solitudine riarsi
quando fuggiamo da perenni inverni
attraversando pregiudizi, muri e deserti,
nessuna frontiera tra noi e gli altri
perché in fondo siamo tutti migranti.


Da “I cieli di Gerusalemme e altri versi vagabondi"  (L'ArgoLibro, 2016)


La colonna sonora:






Un campo di girasoli, di Mariangela De Togni




Un campo di girasoli
di Mariangela De Togni






C’è solo un campo di girasoli
a rendere palpitante
l’orizzonte.
E nel liquido d’una corolla
di fiore, una moltitudine
di colori e di fragranze
perché nel cuore prenda
forma il mare.


Nel suo fiato di stelle
la notte col suo ciglio bianco
di luna a illuminare
l’anfora colma di silenzio
sotto le finestre a bifora
della chiesa solitaria
dagli alti pilastri di pietra
levigati da litanie d’attesa.


Veniamo da rivoli di maree
a rammendare i pensieri
sfilacciati dalla vita.
Ma in quella simmetria
di danza che ci coglie
leggeri sui ciottoli
a sussurrare sospiri.
In quella monodia
piena di sorgenti
anche la solitudine
si smarrisce
in una luce di cielo.




Da Frammenti di sale (Fara Editore, 2013


La colonna sonora:



Alle Case Venie, di Romana Petri




Alle Case Venie


Realismo, tragedia e amore nei giorni dell’armistizio
Romana Petri racconta la vendetta della protagonista fra il 1943 e ’45




In maniera leggera, appena accennata, ci rimanda a certe impressioni del realismo magico di Elsa Morante o di Garcia Marquez,  il bel romanzo di Romana Petri «Alle Case Venie» (Superbeat, pp.203, euro 16,50). Sarà perché Alcina, la protagonista, trentenne dai capelli neri e ii cuore «rosso come il sangue» parla con Astorre,  con il padre morto, che non ha ancora trovato pace nell’aldilà,  pentito anche del suo erroneo pensiero politico di allora, regalando una sensazione fatata ad un romanzo che, per il resto è realistico. Il 2 settembre del 1943 il caldo soffocante dell’estate sembra essersi dilavato in un unico giorno di pioggia alle Case Venie, podere sopra Città della Pieve. L’armistizio ormai si respira nell’aria, ma la guerra continua, implacabile, a mietere le sue vittime. Alcina vive nel minimo borgo umbro col fratello Aliseo e il cane Arduino, orfana di entrambi i genitori Astorre ed Amarantina. Spalterio è un baldanzoso amico che spesso va a trovare i due fratelli, molto affezionato ad entrambi.
Siamo nel lasso di tempo che corre tra il 1943-45. Il fascismo ha chiuso i battenti, ma le razzie dei tedeschi in ritirata, in cerca di cibo per la sopravvivenza, perseguitano ancora i campagnoli, compresi gli appartenenti alla famiglia di Alcina, antifascista fino all’osso, ostile a questo regime prevaricante.
Alcina vorrebbe responsabilizzare il fratello diciassettenne affidandogli il delicato e pericoloso incarico di andare a prelevare carte e documenti che il capo dei partigiani periodicamente inviava agli antifascisti al fine si sapessero regolare.
Aliseo riesce nella difficile e pericolosa impresa. Ma c’è un Minghetti, feroce fascista, che induce Alcina, Aliseo e il cane, nonché la fidata vicina di casa Jone, a raggiungere i partigiani sul Pausillo. La seconda parte del romanzo è piuttosto cruenta in quanto descrive le azioni dei partigiani che si scatenano contro tedeschi e fascisti.
La tragedia non poteva brillare per assenza, in un romanzo che dopo la prima parte bucolica, profumata anche degli odori della campagna, si muta in concitata lotta. Aliseo, in una delle sue imprese, forse abbagliato dal sole, cade in una trappola tesagli dal nemico. Sotto gli occhi atterriti della sorella e dell’amico Spalterio, viene mitragliato, senza pietà, da quel Minghetti che tanto odiava gli antifascisti.
La vendetta di Alcina sarà terribile, come nelle antiche tragedie greche. Ucciderà l’uccisore del fratello, pregando Spalterio di non intromettersi. Sangue chiama sangue e questa non è certo una novità.
Alcina torna alle Case Venie, dove chiude i suoi giorni anche il cane Arduino.
Dopo tanta tragedia, c’è un finale dolce . Alcina riceve il suo primo bacio d’amore da Spalterio. Una nota tenera ad alleviare l’atmosfera cruenta degli anni della Resistenza partigiana, oltre ad essere la testimonianza del commovente rapporto tra un padre caduto in errore e una figlia desiderosa di riscattare la sua figura e la sua memoria.


Romana Petri è nata a Roma e vive tra la sua città e Lisbona. Ha ottenuto numerosi premi come il Premio Mondello, il Rapallo Carige, il Grinzane Cavour e il Bottari Lattes. È tradotta in Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Spagna, Serbia, Olanda, Germania e Portogallo. Tra le sue numerose opere di successo, citiamo: «Ovunque io sia», (Beat 2012) e «Le serenate del Ciclone»(Neri Pozza, 2015).


Grazia Giordani




Immagine convessa, di Vincenzo D'Alessio




Immagine convessa
di Vincenzo D’Alessio
Presentazione di Alessandro Ramberti
con nota critica di Anna Ruotolo
in copertina: Antonio D’Alessio
Fara Editore
Poesia
Pagg. 68
ISBN 978 88 97441 65 6
Prezzo Euro 10,00


Quando il silenzio è più forte di un grido


La poesia sa essere immagine, o acuto grido di dolore, e anche tanto altro, perché nei versi si può ritrovare l’anima dell’autore. In genere ogni poeta ha una tematica preferenziale, più volte sviluppata, scavata e ricercata; meno facile che in uno stesso artista si ritrovino argomenti diversi e che questi riesca a fonderli in un equilibrio sostanziale che dona integrità alla lirica, capace di proporsi come autentico specchio delle innumerevoli sfaccettature dell’anima. É questo il caso di Immagine convessa, una raccolta di Vincenzo D’Alessio dedicata al figlio Antonio, scomparso troppo presto e innaturalmente prima dei genitori. Sì, innaturalmente è il termine più adatto, perché se la scomparsa di un proprio caro è sempre dolorosa, qualora questi sia molto più giovane di chi resta appare talmente contro ogni logica che al dolore si aggiunge l’angoscia. Non vorrei, però, che chi legge queste mie righe dovesse pensare che si troverà di fronte a una serie di lamenti continuati, perché non è così, perché il dolore è prima di tutto una lacerazione individuale e interna. Il dolore, per essere tale, non deve essere gridato, si deve convivere con lo stesso, giorno dopo giorno, in un silenzio che di per se stesso è un urlo. Eppure, il figlio ogni tanto ritorna, in versi sommessi (Dio del vento / riportami la voce / di mio figlio / ora tuo figlio / per un attimo di eterno.). E se lì il riapparire nel ricordo è esplicito, meno evidente, ma ancor più presente, è la presenza del figlio nei versi dedicati ai giovani del sud , giovani come quello perduto. Pur tuttavia,
nella presenza saltuaria di una tendenza naturalistica, non manca e anzi è preminente un grande senso civico, una ferma volontà di affermare un’idea di umanità lontana dal materialismo, ma fatta di giustizia e di sostanza. (Solofra terra d’inganni / rubi l’innocenza ai poveri / senza ascoltarne il pianto / distruggi la memoria / con il facile guadagno. /…). E in questo quadro, nel solco di un altro poeta che l’ha preceduto, quel Rocco Scotellaro, che ha saputo vedere la sua terra con il cuore e con la mente, prorompono vitali, quasi anatemi, ma senza violenza, i versi dedicati a un meridione sempre più senza speranza (Non dormiamo sottoterra / l’anima fugge le distanze / il vento accompagna il fischio / dell’uomo dentro le montagne,. / Sud di miseria e tradimenti / strada ferrata senza più ritorni / dove veglia il cuore? / è nuova l’alba, è nuova!).
Se ciò non bastasse, troviamo pure il solco del ricordo che si rincorre, si apre, si chiude, si riapre, ma la memoria non è mai fine a se stessa, è un pozzo a cui attingere per lasciarsi andare a un dolce rimpianto.
Quindi, si tratta di una silloge che presenta una grande ricchezza di varietà tematiche e che probabilmente è il compendio di un lungo lavoro, con poesie più lunghe e più brevi, e fra queste ultime ce n’è una di soli quattro versi che, forse a causa della mia non più verde età, mi si è fissata bene nella mente e nel cuore: Ride il vecchio nello specchio / ha divorato la giovinezza / avidi occhi puntati ai fogli / dell’ultimo quaderno.
Non aggiungo altro, se non la mia calda raccomandazione a leggere questa bellissima raccolta.


Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra nel 1950. Laureato in Lettere all’Università di Salerno è stato l’ideatore del Premio Città di Solofra, nonché il fondatore del Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e dell’omonima casa editrice. Acuto e attento critico letterario, ha pubblicato anche saggi di archeologia storia (v. bibliografia Polo SBN di Napoli). Diverse le raccolte poetiche che anno ricevuto premi e riconoscimenti, la più recente è La valigia del meridionale ed altri viaggi (Fara 2012, seconda edizione 2016 ). Nel 2014 vince con Il passo verde la pubblicazione in Opere scelte (Fara 2014). La tristezza del tempo è inserita in Emozioni in marcia (Fara 2015). Con Alfabeto per sordi è tra i vincitori del concorso Rapida.mente ed è stato inserito nell’omonima antologia (Fara 2015). Tutte e tre le sillogi sono riproposte in appendice a Immagine convessa.


Recensione di Renzo Montagnoli

Un amore, di Dino Buzzati




Un amore – Dino Buzzati – Mondadori – Pagg. 294 – ISBN  9788804668176 – Euro 14,00


Un giro di giostra


Con una prosa coraggiosa che reitera frasi in maniera ossessiva e che si nutre di un vivace alternarsi di voci verbali ai limiti della consecutio, Buzzati stupisce. Stupisce nello stile, lui che nei suoi racconti aveva prediletto il linguaggio semplice e comune, la prosa lineare e limpida dove l’assurdo regnava incontrastato. Stupisce inoltre nel contenuto: un amore maschio per una giovane ragazza che si prostituisce, la rappresentazione della psiche maschile. L’uomo in questione è un affermato professionista ma nella vita privata è limitato nel rapporto con le donne, è insicuro, inefficace. A corollario della sua affermazione professionale una Milano rampante, frenetica, operosa e grigia come non mai. Una città capace di schiacciare l’individuo, un agglomerato di palazzi perso nella collettività affannata a produrre, a fare e non a vivere. Leida allora diventa per lui la vita: se ne innamora subito e la cerca e la vuole ripetutamente. La paga: lui il borghese agiato, lei la ragazzina che ambisce a mutare il suo status sociale.


Il denaro paga, il denaro garantisce la via di fuga qui rappresentata da una casa chiusa e dall’antico mestiere dei quali, attraverso Dorigo, il protagonista, si tesse l’elogio: l’unica bolla di libertà in un mondo rigidamente regolamentato. Il paradosso e l’assurdo, cui Buzzati non poteva rinunciare, scaturiscono dallo scontro dei mondi, quello borghese e quello delle meretrici, entrambi retti dal denaro, nel quale si intrufola il sentimento, l’amore. L’opera insegue faticosamente per quasi due anni l’evolversi dei rapporti tra Dorigo e Leida, il lettore teso a cercare una possibilità di realizzazione del legame, si assiste invece all’annientamento totale dell’individuo, ora in balia della forza cieca, ingenua, ossessiva alimentata dall’amore. Si giunge poi, d’un fiato, al finale bellissimo, struggente, inquietante come nel migliore Buzzati e il lettore si riappacifica con l’autore , lo ritrova, gli perdona l’avventura erotica nella quale ritrova infine la dimensione surreale e inquietante dell’esistenza che un amore aveva momentaneamente adombrato.


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MondoBlog del 19 maggio 2017

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