domenica 28 agosto 2016

Chissà, di Renzo Montagnoli



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Chissà
di Renzo Montagnoli




Come un’ape sugge il polline dai fiori
assaporo ogni momento gli istanti della vita
riempio gli occhi dell’irripetibile spettacolo
di una natura che sembra donarsi.
Dell’ape stessa che svolazza sulle ortensie
colgo l’intrepida ricerca del suo cibo,
della lucertola che sonnecchia al sole
intuisco il palpito del suo cuore che si scalda.
Di ogni cosa voglio imprimere la memoria,
del mio stesso viso che nel tempo invecchia.
Chissà se nel dopo mi sarà concesso il ricordo,
chissà che in quell’antro oscuro possa splendere
un po’ di quella luce che adesso colgo.


Da Lungo il cammino


La colonna sonora:












Di stelle grezze, di Angela Caccia


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Di stelle grezze
di Angela Caccia




Sono nata nel mese
dei morti squillando vita


nella cordata degli anni
conobbi i piccoli peccati
e la vergogna
la grazia ombrosa della timidezza
la transumanza dei sogni
in utopia


riflessi di stelle grezze
su un cosmo ancora informe
– è un gioco di ombre la crescita
il pedaggio per modellarsi alla vita –


schiuso il bozzolo
uno sciame di note:
suoni di parole rimbalzavano
sui pensieri pietrosi


… quanti franamenti
per un rivolo di sintonia!




Da Il tocco abarico del dubbio (Fara, 2015)




La colonna sonora:






Il canto sommerso dello uadi, di Franca Canapini





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Il canto sommerso dello uadi
di Franca Canapini



Ero steppa irta-arida di luce
vento infuocato mi stormiva attorno
-i minuti parevano millenni-


In un secondo


fu pioggia martellante
rapida mi dilavò tutte le ossa
disfece fino al pianto la mia terra
scavò pozzi profondi, suonò tendini sopiti
mi tracciò con ramisolchi di percorsi


In un secondo


fui fiume gonfiesondante
spaventato di se stesso
trascinavo in ogni dove
terra sconvolta, acqua e schiuma; e foce
tanto lontana che non mi fu concessa


addio addio mia terra!
mia acqua! addio addio!


Sono di nuovo steppa
irta di sempre e di mai più
eppure fremente sottocrosta
so che vibrerò alla prima goccia
uscirò dal mio sonno di sabbia


Celo in queste sassaie polverose
il corso di direzioni sconosciute
di ogni loro più infimo rigagnolo
e pozzi e forre e anse di mistero


Oltremisura aperto
attendo la pioggia santa del mio dio
-i millenni paiono minuti-


La colonna sonora:




La pieve del mio paese, di Giovanna Giordani



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La pieve del mio paese
di Giovanna Giordani






E’ grande la pieve del mio paese
sembra una madre con le braccia tese
verso i suoi figli in cerca di riparo
come nel mare rassicura il faro


Brillano gli ori alle candele accese
chi la volle non badò certo a spese
per ornarla, un principe non avaro
assunse artisti dall’ingegno raro


La contemplo e ripenso al mio passato
le solenni  funzioni  e l’innocente
rapimento dell’animo incantato


dalla sacra bellezza  onnipresente
che un po’ stregava il cuore lieto e grato
al pensiero di un Dio benedicente.


La colonna sonora.










La perdita della fede, di Stefano Giannini


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La perdita della fede
di Stefano Giannini
 
 
 
Potrei esordire affermando che la perdita della fede è la peggior disgrazia che possa capitare a un credente. Che la fede è un dono di Dio, e un dono non si dovrebbe mai perdere o sciupare, che per conservarla si deve ben “coltivare “ con la preghiera, frequentando la Chiesa ed i Sacramenti, praticando la carità, approfondendo la conoscenza delle Sacre Scritture ecc… ecc…. Quale cristiano credente continuerei su questa strada se dovessi parlare della fede in Dio, ma siccome in italiano la parola fede può anche significare anello nuziale “fede nuziale”, è di quest’ultima “mia” fede che in breve mi accingo a raccontare la storia.
Me la infilò al dito medio della mano sinistra, com'è usanza (spingendo forte perché non voleva entrare), mia moglie il 25 febbraio 1961 in una bella chiesa di Lucerna.
Per qualche anno restò saldamente avvinghiata all’anulare. Poi, un brutto giorno, per un ovvio motivo che dirò, me la sfilai dal dito e la misi in tasca dei pantaloni. Fu un grave errore, perché a tarda sera, cercandola, in tasca trovai solo il fazzoletto da naso e nulla più. La grossa fede d’oro, al cui interno era incisa la data di matrimonio e il nome “Antonietta”, era andata smarrita.
Alcuni mariti “infedeli” si tolgono la fede prima dell’approccio con un’altra donna fingendosi scapoli per meglio conquistarla, proprio quell’atto sancisce l’intenzione del tradimento: togliere, nascondere il simbolo dell’unione e della fedeltà giurata è come sospendere momentaneamente un voto.
Ma questo non fu il caso mio anche se mia moglie, in un primo momento, può averlo sospettato.
Da poco tempo ritornato definitivamente a casa dalla Svizzera dove ero stato emigrante per dieci lunghi anni, pieno di nostalgia e d’entusiasmo, quel fatidico mattino ritornai in campagna a rivedere la mia vecchia casa dove sono nato, girai per i campi che la circondano, mi soffermai a guardare le piante che avevo lasciato dieci anni prima ora molto più alte. Notai, rattristato, il vecchio ciliegio, che era stato il trampolino dei miei giochi di bambino, spoglio e rinsecchito, ormai alla fine della sua vita, mentre le piante di robinia lungo il “cavedale” erano da tagliare, e come avevo visto fare tante volte da mio padre ogni tre/quattro anni, mi accinsi, con sega e accetta a tagliarle alla base per farne pali di sostegno e legna da ardere.
Fu nello svolgere quel lavoro manuale che, avendo il palmo delle mani alquanto delicato, per evitare la formazione di vesciche, tolsi la fede dal dito dimenticandola in tasca, da dove durante la giornata, avrei estratto più volte il fazzoletto da naso per asciugarmi il sudore.
Fu in quei frangenti che assieme al fazzoletto estrassi, inavvertitamente, anche la fede, perdendola chissà dove.
Come la perdita della fede in Dio, oltre ad essere una brutta disgrazia, è anche causa di grande sofferenza, simile per me e mia moglie fu la perdita della “vera” che ci eravamo scambiata nel più bel giorno della vita.
Il dispiacere più grande lo provò mia madre; la cercò e ricercò inutilmente per mesi e mesi. Ripassò con pazienza certosina tutti i percorsi che avevo fatto quel giorno, ripassò a testa china, palmo a palmo tutti i diecimila metri quadrati del campo e tutti i siti in cui avevo sostato con grande fiducia di ritrovare la “fede”. Ma tutto fu vano !
Passarono gli anni, tanti anni; il tempo mutò le cose: sul verde panorama che osservavo dalla finestra sorsero come funghi tante case, lungo la Valle avanzò inesorabile un grande nastro di cemento e asfalto, lunghi viadotti stesi come lenzuola sopra il fiume che paziente li sopporta. Anche sul mio viso e sui volti delle persone note e conosciute il tempo aveva lasciato le sue indelebili “tracce”. Grandi è piccoli eventi accaddero sulla terra, ed altri più o meno importanti nel mio “piccolo mondo”: la crescita dei figli, l’impegno nel lavoro, prima in fabbrica poi nel sociale e tutti gli eventi del quotidiano che sono poi la vita.
Veloci come il vento trascorsero trent’anni dal giorno della perdita della fede nuziale.
Quando perdemmo ogni speranza di ritrovarla, ne acquistai un’altra per non stare senza il segno del matrimonio e per non cadere in eventuali tentazioni.
Venne il “tempo delle mele”, la fine d’ottobre del 1993 ; mentre nell’orto ero intento a zappare delle piantine di fragole, mi parve di notare un improvviso luccichio fra le zolle smosse, forse un frammento di vetro …?  Perché non accertarsi meglio ? Pensai.
Chi mai mi suggerì d’interrompere il lavoro di zappatura e, con le mani, frugare in terra alla ricerca dell’oggetto luccicante ? Cosa trovo fra quelle umide zolle ? Ma sì, la mia fede,; inalterata, intatta, bella, lucida, come nuova.
Erano trascorsi 29 anni e sei mesi dal giorno che l’avevo perduta.
La gioia fu grande per tutti in famiglia: si fece festa tutto il giorno e col passaparola il fatto finì sui giornali. Nella cronaca locale il Resto del Carlino e la Stampa titolarono : “Perde la fede e la ritrova dopo 30 anni” - “Perde la fede e lo va a dire a Magalli “. Sì, perché lo stesso giorno della pubblicazione sul giornale, arrivò dalla Rai di Roma una telefonata che ci invitava ad andare a raccontare la storia della fede in una trasmissione televisiva di Rai Due chiamata “I Fatti Vostri”, condotta appunto dal Sig. Magalli, la cui redazione aveva letto lo strano fatto sui giornali.
Il giorno 25 novembre 1993 io e Antonietta eravamo a Roma a raccontare tutta la storia in diretta su Rai Due, con curiosità e meraviglia nostra e dei quattro milioni di spettatori che ci seguirono in TV.
Fu una bella e indimenticabile esperienza. Furono due giorni di intense emozioni. Oltre che gli studi televisivi e le telecamere puntate su di noi, ammirammo i più noti monumenti della città : San Pietro, la Cappella Sistina, i Muse Vaticani, i Fori Imperiali e tante altre meraviglie della Città Eterna. Quel viaggio, non programmato, ci parve ancor più bello e ricco dell’antico viaggio di nozze.
Il ritrovamento della fede, creduta smarrita per sempre, fu sicuramente di buon auspicio per altri altrettanto meravigliosi, importanti e magnifici eventi che a breve avrebbero seguito quell’inaspettato ritrovamento, come la nascita di tre meravigliosi nipoti : Beatrice, Ophelia e Leonardo.
Dopo questa esperienza auguro che nessuno abbia a perdere la “fede”, sia quella in Dio che quella nuziale, perché è rarissimo si possano poi ritrovare.


Dietro la porta, di Giorgio Bassani




Dietro la porta
di Giorgio Bassani
Feltrinelli Editore
Narrativa romanzo
Pagg. 112
ISBN 9788807880117
Prezzo Euro 7,00


L’origine dell’infelicità


Gli anni non sono riusciti a medicare  un dolore che è rimasto là come una ferita segreta”


La giovinezza non è sempre primavera di bellezza, anzi può essere un periodo di profonda tristezza interiore, di solitudine riveniente da una inconsapevole auto esclusione. Ed è di quegli anni, anni di studio al liceo, che parla questo delicatissimo romanzo di Giorgio Bassani. É il ricordo che guida la mano del narratore, che descrive con sapienza un microcosmo in cui tutti per un po’ ci siamo trovati, quello scolastico. Il periodo storico va dall’ottobre del 1929 al giugno del 1930, ma ho rilevato che quel mondo di aule, di compagni di classe, di insegnanti era assai simile a quello che ho vissuto io, solo che a dividerci c’era stata una sanguinosa guerra e una lunga ricostruzione; per il resto, gli atteggiamenti dei professori, le piccole gare per riuscire a essere il più bravo, le invidie, le ripicche sono le stesse dei miei anni ‘60 e occorrerà arrivare al famoso ‘68 perché vi sia un radicale e irreversibile cambiamento. Per l’autore è un periodo di sfide tacite, della ricerca di un compagno con cui condividere gli studi e la scelta cade su quello che, senza essere un somaro, non è nemmeno una cima, una sorta di gregario che non potrà mai diventare un pericoloso concorrente nella gara per diventare il più bravo della classe. Inizia così un rapporto in cui la continua frequentazione fa scivolare verso un’intimità sempre più accentuata, che sfiora anche la sfera sessuale nel difficile periodo del passaggio dallo stato infantile, o quasi, a quello adulto. L’io narrante è timido e tende sempre di più a chiudersi a riccio, come a proteggere quell’innocenza dell’infanzia in cui gli piace crogiolarsi. Ma c’è chi matura prima e il nuovo compagno ne è un esempio, e così l’autore apprenderà dolorosamente quanto il presunto amico sfotta quel suo essere ancora non adulto. É allora che diventerà uomo, ma la lacerazione interiore, una sofferenza sorda e muta, lo accompagneranno per tutta vita. La perdita dell’innocenza é la perdita di un mondo che gli pareva eterno e che invece si è squarciato nell’amara realtà delle miserie umane; ciò lo isolerà ulteriormente, impedendogli di aprire quella porta che lo conduca alla consapevolezza di essere parte di una realtà che inconsciamente rifiuta.
Dietro la porta é un autentico gioiello, soffuso, tenue e forte al tempo stesso, frutto di un ricordo che è un grido disperato.
Da leggere, senz’altro.




Giorgio Bassani nacque a Bologna il 4 marzo 1916 e morì a Roma il 13 aprile 2000.  Di famiglia ebraica, patì le persecuzioni razziali e durante gli anni di guerra partecipò attivamente alla resistenza. E’ solo dopo il 1945 che si dedica all’attività letteraria in via continuativa, sia come scrittore che operatore letterario (suo è il merito di aver caldeggiato all’editore Feltrinelli la pubblicazione de Il gattopardo).
Poeta raffinato, Bassani ottenne il successo di pubblico con Il giardino dei Finzi Contini, di cui fu curata anche una trasposizione cinematografica da parte di De Sica.   
 
Renzo Montagnoli


Fontamara, di Ignazio Silone




Fontamara - Ignazio Silone – Mondadori - Pagg. 270 – ISBN 9788804319634 . Euro 11,00






Esautorato da ogni possibile attivismo, esule scampato al disordine interno della sua patria, disilluso dalla sua stessa statura morale che non gli permise di gradire la svolta stalinista del suo partito, solo a Davos, in Svizzera, lo scrittore abruzzese ricercò la compagnia della penna , scrivendo questo importante romanzo, e della sua terra, rappresentandola stretta nella morsa della storia fatta dagli usurpatori, di qualunque specie, e di suoi tre compaesani, i quali immagina a loro volta esuli al suo cospetto.
Inizia così il romanzo, con l’intento di raccontare ciò che è stato di Fontamara, piccolo paese della Marsica, inesistente nella carta geografica ma lì, vivo, nel Fucino, come tanti. Il racconto è affidato proprio alle voci narranti dei tre esuli: padre, madre e figlio. La loro vita e le loro peripezie restituiscono il travaglio dell’intera comunità pur focalizzandosi sul destino di alcuni piccoli uomini e di alcune piccole donne.
Il candore della narrazione affidata ai tre compaesani ha la potenza di rappresentare, senza intermediazione alcuna, in un abile stratagemma narrativo, lo stupore e l’ingenuità di una comunità che ha registrato per secoli la realtà su determinati schemi mentali,su logiche assodate, e che ora non ha alcun strumento per dare lettura alla realtà cambiata. Non ha cultura, il cafone, per evitare gli imbrogli, non ha informazioni per capire il segno dei tempi mutati, non conosce problema che non sia direttamente riconducibile alla sua stretta e grama esistenza. Lo sguardo lungo può giungere solo a capire i minimi scarti registrabili in una corta scala sociale: non c’è movimento, ormai, neppure minimo. Ognuno è condannato al suo stato sociale. Berardo, la figura tragica della narrazione, rappresenta questo immobilismo e il misero tentativo di combatterlo. Le oscure figure che dettano le regole attuali, i fascisti, possono essere contrastate se si vuole modificare la propria condizione; si assiste così ad un’ evoluzione politica dello spirito di questo emblematico personaggio che, mosso da un intento di riscatto individuale, si immola ad una causa senza in fondo capire bene la sua scelta depauperata dalla sua carica idealista, venute meno le premesse individuali che lo portarono all’azione.
La narrazione ha il pregio di restituire l’impatto della barbarie fascista sui poverini cafoni , ignoranti, ingenui, inconsapevoli e vittime fin troppo gratuite di un artificio storico. Le pagine si nutrono di una sottile e amara vena ironica che la realtà stessa determina nel tentativo di decodifica di un quid astruso, incomprensibile, sfuggente che è però capace di suscitare almeno una domanda: “Che fare?”


Amaro ma fondamentale.




Siti


Gratitudine, di Oliver Sacks




Per leggere certi libri bisogna esserne degni

di Ferdinando Camon

 



"La Stampa-Tuttolibri" 9 luglio 2016 



Oliver Sacks sta morendo di cancro, non c’è più niente da fare, uno dei ricordi più atroci è la maledizione di sua madre quando ha saputo della sua omosessualità, eppure si mette al tavolo e scrive un ringraziamento alla vita, commosso perché molto ha ricevuto ma qualcosa ha dato. Io credo che la commozione scatti soprattutto perché qualcosa ha dato. E come? Scrivendo libri. Il suo modo di vivere è stato scrivere. Lui muore, ma poiché i libri che ha scritto sono ancora vivi, lui resterà ancora vivo. Scrivere è un privilegio, e la gratitudine che, morendo, esprime alla vita, è per aver avuto questo privilegio. Morire è lo scacco della condizione umana, la sconfitta di tutti e di ciascuno. Qualcuno pensa che sopravvive chi è grande e perciò ammirato, è l’ammirazione lo strumento della nostra immortalità. Oliver Sacks pensa che il sentimento che dobbiamo meritare per non morire sia un altro: l’amore, e lo scrittore che vuole ottenere l’amore dell’umanità non deve scrivere la bellezza, fare opere belle, ma scrivere la verità, una verità vera anche dopo che l’autore sarà morto. Allora il ricordo che l’umanità avrà di questo autore è la gratitudine. E la gratitudine dell’autore per aver scritto è il contraccambio di quel ricordo. Scrivendo “Gratitudine”, librino breve, intenso e inobliabile, Oliver Sacks, passata la soglia degli ottant’anni, dice ai suoi lettori: «Vi sono grato di essermi grati». E noi, finito di leggere questo addio, gli siamo grati perché l’ha scritto. C’è un magistrato qui nella città in cui vivo, famoso per alcune inchieste sul terrorismo, che è anche un accanito lettore e tiene conferenze sui libri. Andando a parlare de 
La Città di Dio di Agostino confessò: «Finita l’ultima pagina, ho chinato la testa sul tavolo e mi son chiesto: Che cosa ho fatto io nella vita, per meritare di leggere questo libro?». Ci sono libri che bisogna “meritare” di leggere. Non tutti ne sono degni. Ogni libro ti fa un dono, ma ci sono libri che ti fanno un dono così prezioso, così completo, che ti chiedi se ne sei degno.
Oliver Sacks ha avuto pazienti che morivano dicendo: “Ho avuto una vita piena, e adesso sono pronto ad andarmene”. «Per alcuni di loro, questo significa andare in paradiso: sempre il paradiso e mai l’inferno, anche se Samuel Johnson e James Boswell tremavano entrambi al pensiero dell’inferno e s’infuriavano con David Hume che non aveva tali convincimenti. Io non credo in un’esistenza dopo la morte (né la desidero), se non nei ricordi degli amici, e nutro la speranza che alcuni dei miei libri possano continuare a “parlare” alla gente dopo la mia morte».
La soglia oltre la quale si cambia il pensiero sulla vita e sulla morte è ottant’anni: “Quando si hanno ottant’anni, lo spettro della demenza o dell’ictus incombe: un terzo dei propri coetanei è morto, e molti di più, con gravi danni fisici o mentali, sono intrappolati in un’esistenza tragica”. A ottant’anni ”si può avere un senso della storia, si riesce a immaginare che cosa sia un secolo”. Aggiungo io: se poi si passa dal Novecento al Duemila, si ragiona anche per millenni. Morale: “Non vedo l’ora di avere ottant’anni”. Ma non è vero, Sacks sta in guardia, cerca di tappare tutti i buchi per i quali potrebbe entrare la malattia, fa nuoto con una nevrotica compulsione. Tutto inutile: la malattia entra da un occhio. Un raro cancro all’occhio. Scoperto nel 2005, va in metastasi nel 2014, e porta all’
exitus nel 2015. Quando Sacks ha ottantadue anni. È felice per due ragioni: ha finito la propria biografia e ha mostrato il suo compagno al cugino Robert John Aumann, premio Nobel per l’economia: si sente accettato in tutto quello che è, scrittore e omosessuale. Allora può anche ”lasciarsi andare al riposo”, come ogni ebreo fa quando arriva il Shabbat. La sua vita ha un senso, può concludersi. Regalerò questo libro al mio amico magistrato, chissà che non abbassi la fronte sul tavolo un’altra volta. 




Gratitudine – Oliver Sacks – Adelphi – Pagg. 60 – ISBN 9788845930850 – Euro 9,00








La bella Rosina, di Roberto Gervaso




La bella Rosina
Amore e ragion di Stato in Casa Savoia
di Roberto Gervaso
Bompiani Editore
Storia biografia
Pagg. 302
ISBN 9788845220524
Prezzo € 6,20




Una bellissima storia d’amore




Se si osserva con attenzione l’immagine della copertina, una fotografia di Rosa Vercellana, meglio conosciuta in piemontese come la Bela Rosin, non si può far a meno di rilevare la floridezza del personaggio, bene in carne e nei punti giusti (fianchi e seno), con un bell’ovale in cui spiccano gli occhi scuri, dolci, ma non succubi, insomma quella tipologia femminile che tanto piaceva a Vittorio Enanuele II, impenitente donnaiolo, padre della patria e di non pochi italiani bastardi. È anche vero, però, che oltre a queste doti fisiche, la signora ne possedeva altre, tali da far innamorare in modo duraturo il re d’Italia, uomo avvezzo a ad assai frequenti incontri sessuali con qualunque femmina destasse il suo interesse – e ce ne furono moltissime -, a cui si presentava senza tanti preamboli per andare al sodo, in un’alcova che poteva essere il grande letto di un palazzo, come una brandina da campo, o anche un fienile e perfino sull’erba. Erano smanie di cui Vittorio Emanuele era preda e che servivano a temperare per un po’ la sua esuberanza, insomma si trattava di amore soltanto fisico, e non anche di affetto, di quel sentimento che porta due persone a confidarsi, a parlare, a sognare insieme, quello che invece ci fu anche e solo per la Bela Rosin. Di questo legame, durato una trentina d’anni, ci parla in questo libro Roberto Gervaso, con la sua consueta ironia, non scevra di simpatia per una donna capace, con le sue qualità, di accrescere i pregi del monarca e di attenuarne i difetti, un porto sicuro a cui rifugiarsi nei periodi bui o a cui approdare per condividere i pochi, ma sostanziosi, momenti di felicità. Il re, come noto, era sposato con Maria Adelaide d’Austria, un matrimonio combinato per cementare alleanze e dunque non ravvivato dall’amore, il che non impedì tuttavia a Vittorio Emanuele di adempiere ai suoi doveri di consorte, come testimoniano le sette gravidanze della moglie, l’ultima delle quali le fu fatale. Maria Adelaide era un tipo fine, riservato, veramente innamorata di Vittorio e che aveva capito che con quell’uomo non c’era nulla da fare, se non ignorare le sue frequenti scappatelle; lui nutriva un certo affetto per lei e in fondo era grato di avere una moglie che lo lasciava fare, come del resto analogamente si comportava la Rosina. Questa, figlia di un tambur maggiore, e quindi plebea, aveva solo quattordici anni quando Vittorio, non ancora sovrano, le mise gli occhi addosso e fu un colpo di fulmine, che durò fino alla scomparsa del re. Lei era assai bella e aggraziata, lui non era brutto, ma aveva un che di rozzo e un aspetto somatico che neula aveva in comune con i suoi ascendenti (i Savoia per parte di padre e gli Asburgo per parte di madre); anche il carattere era del tutto diverso, contrario a ogni etichetta, forse credente, ma non certo bigotto come il padre e la madre, andava più d’accordo con il popolino che con i nobili e per l’insieme di queste cose correva la voce che non fosse un Savoia, in quanto aveva preso il posto del legittimo erede, perito ancora in culla in un incendio; le stesse voci asserivano che fosse figlio di un macellaio fiorentino, ma secondo Gervaso tali notizie sarebbero da considerarsi infondate, pur restando ancora da spiegare le differenze fisiche e caratteriali.
La relazione con Rosina, con cui fu prodigo di regali in denaro, gioielli e proprietà, fu in realtà un matrimonio, anche se non ufficiale, da cui nacquero tre figli, di cui uno morto subito e ai superstiti (un maschio, chiamato Emanuele, e una femmina chiamata Vittoria) il re volle particolarmente bene, preferendoli ai figli legittimi avuti da Maria Adelaide. Questo menage era ben noto a tutti e trovò la dura avversione di Cavour, che nel libro viene descritto come un individuo della peggior specie, sempre in disaccordo con il re. Ciò nonostante, Vittorio Emanuele, pur consapevole di non poter prendere in sposa la Rosa (dopo la scomparsa della moglie) e di non poter legittimare Emanuele e Vittoria, il tutto per questioni dinastiche, prima investì del titolo di Contessa di Mirafiori la Vercellana, poi arrivò all’unica soluzione possibile, una sorta di compromesso, unendosi in matrimonio con lei morganaticamente. Gli anni migliori furono forse quelli dopo il 1860, quando, senza calmarsi nelle sue passioni (donne, guerra, caccia) il re, rimasto vedovo nel 1855, poté stare più vicino alla Rosina. I due colombi già cominciavano a pensare alla vecchiaia quando improvvisamente il 9 gennaio 1878 il re moriva per una broncopolmonite; la Vercellana non era presente al trapasso perché malata e per lei fu un gran colpo e un autentico dolore. La grande storia d’amore era finita, o forse continuava nel ricordo; non trascorse molto tempo dalla dipartita del re e anche la bella Rosina il 26 dicembre 1885 chiuse per sempre gli occhi.
Gervaso è uno storico e biografo che ho avuto modo apprezzare per la puntigliosità nella ricerca della verità e anche in questo libro tali caratteristiche sono presenti; forse, per la prima volta, si sbilancia, porta alla luce la sua simpatia per il personaggio, ma se veramente le cose sono state così è impossibile non sentirsi attratti da Rosa Vercellana, venuta dalla polvere e salita sull’Olimpo, una donna che tuttavia riuscì sempre ad aver ben chiare le sue origini, insomma non si montò la testa. Le notizie che fornisce l’autore sono tante che è impossibile descriverle e come suo solito all’inizio dedica un capitolo alla descrizione dell’ambiente e del periodo storico, indispensabile per proseguire la lettura avendo ben presente lo sfondo su cui si svolge questa bellissima storia d’amore che dapprima ruota intorno a Torino, capitale del Regno di Piemonte e poi, per un brevissimo periodo, d’Italia. È una città di militari e di preti, nonché di una massa di poveracci, quasi tutti analfabeti. Vittorio e Rosina sapevano leggere e scrivere, ma non erano certo dei letterati e al riguardo basta leggere i testi delle numerose lettere che Gervaso ha scelto e che, pur negli errori di grammatica frequenti, evidenziano tuttavia in modo chiaro l’intensità di un sentimento a cui pose fine solo la morte.
La lettura è senza dubbio consigliata.




Roberto Gervaso è nato a Roma il 9 luglio 1937.
Ha studiato in Italia e negli Stati Uniti e si è laureato in Lettere moderne, con una tesi su Tommaso Campanella. Collabora a quotidiani e periodici, alla radio e alla televisione, e da decenni si dedica alla divulgazione storica. Con Indro Montanelli, per Rizzoli, ha firmato sei volumi della "Storia d'Italia": L'Italia dei secoli bui, 1965- LItalia dei comuni, 1966 - L'Italia dei secoli d'oro, 1967 - L'Italia della Controriforma, 1968 - L'Italia del Seicento, 1969 - L'Italia del Settecento, 1970. Ha pubblicato: sette biografie, Cagliostro (Rizzoli, 1972), Casanova (Rizzoli, 1974), I Borgia (Rizzoli, 1976), Nerone (Rusconi, 1978), Claretta(Rizzoli, 1982), La Monaca di Monza (Bompiani, 1984) e LaBellaRosina (Bompiani, 1991); un grande giallo storico, Scandalo a corte (Bompiani, 1987); una storia della Massoneria, I fratelli maledetti (Bompiani, 1996); due raccolte di grandi storie d'amore, Appassionate (Mondadori, 2000) e Amanti(Mondadori, 2002); sei raccolte d'interviste, Il dito nell'occhio(Rusconi, 1977), La pulce nell'orecchio (Rusconi, 1979), La mosca al naso (Rizzoli, 1980), Dente per dente (Rizzoli, 1983),Sotto a chi tocca (Bompiani, 1994) e Salute! (Mondadori, 2001); una raccolta d'interviste immaginarie, A tu per tu con il passato (Bompiani, 1994); tre volumi di ritratti contemporanei,Spiedi e spiedini (Rizzoli, 1981), I Sinistri (Mondadori, 1997) e I Destri (Mondadori, 1998); un pamphlet politico sull'Italia di oggi, Peste e corna (Newton Compton, 1996); tre raccolte di aforismi, Il grillo parlante (Bompiani, 1983), La volpe e l'uva(Bompiani, 1989) e Aforismi (Newton Compton, 1994); un volume di confessioni, Di me tutto. Lettera a mia madre(Rizzoli, 1985); uno di galateo erotico, Se vuoi che t'ami...(Bompiani, 1986); uno sui sentimenti, Voglia di cuore(Bompiani 1993). I suoi ultimi titoli sono: Italiani pecore anarchiche (Mondadori, 2003), Qualcosa non va (Mondadori, 2004), Ve li racconto io (Mondadori, 2006) e Io la penso così(Mondadori, 2009).
Ha vinto numerosi premi, fra cui due Bancarella, con L'Italia dei comuni (1967) e Cagliostro (1973). I suoi libri sono tradotti negli Stati Uniti, in Canada, in America Latina, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone, Bulgaria, Polonia, Romania.


Renzo Montagnoli


MondoBlog del 28 agosto 2016

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