sabato 9 settembre 2017

Chissà la meraviglia delle farfalle, di Maria Attanasio



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Chissà la meraviglia delle farfalle

di Maria Attanasio




L’operosità delle formiche.
Il miracolo del miele.
Il canto delle cicale incessante.
La fedeltà del cane.
L’elegante indipendenza del gatto.
Il pianto del bambino nella notte.
La corsa del fiume.
La rabbia del mare.
La dignità dell’albero.
La Natura non si ferma mai, ci fermeremo noi.


E quale miglior musica per la natura:














Era la vita, di Gavino Puggioni

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Era la vita
di Gavino Puggioni




Era la vita
in quelle verdi vallate
bruciate dopo dal solleone
ridente
nell’arcobaleno delle stagioni


Era il genio della mia infanzia
a colorare i prari
in mezzo agli orti
della mia terra


Era di un bambino
abbracciato a quell’universo
natura incontaminata
dove l’uomo era sé stesso
sacrifici e speranze
dolori dimenticanze
abbandoni sogni e desideri


la vita in una emozione


ed ora così la ricordo




Da Afonie indispensabili Incontri di-versi (Thoth, 2017)


La musica di accompagnamento:












Il pianto del Rio Secco, di Vincenzo D’Alessio


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Il pianto del Rio Secco
di Vincenzo D’Alessio


ad Antonio Giannattasio, esponente di
Legambiente in Solofra.


Sono nato qui, ne ho memoria
dove le rocce bianche vegliano
da anni i miei ritorni
Sono nato insieme ai miei
fratelli dalle nevi perenni
dei Mai dalle sotterranee vene
che d’inverno bevono acqua
La mia strada ha visto
tanti nomi ma una l’acqua
che arrivava alla ruota
dura dei mulini dove
grano e farina erano la gioia
di un anno intero di lavoro
L’acqua che ho portato
ai bottali veloci della concia
il tannino che accoglievo
ora cromo terribile mangia
come fuoco le mie vene
Gli uomini hanno perso il tesoro
lasciato dai padri dove
l’oro era la mia acqua
da bere al lavoro nel giorno
nel ritorno a casa la sera
Maledizione è stata questa
dose tanto che il letto dove
poso arde di verde mortale
non c’è pace né gioia agli uomini
e agli animali morti di sete
Ho trascorso anni fino al mare
ho visto luoghi nuovi ogni stagione
poi mi hanno tolto la passione
delle sorgenti e oggi sono
solo un cumulo di sassi
arido suolo incastrato nel
dimenticatoio delle ore
invisibile ai bambini senza
l’umore cristallino della mia
voce spenta per sempre.


Il sottofondo musicale:







Nella luce del tramonto, di Renzo Montagnoli





Nella luce del tramonto
di Renzo Montagnoli




In questa luce
che lenta si spegne
rivivo ciò che è stato
una manciata di tempo
che è il mio passato.
E’ con affetto e tenerezza
che rivedo volti
che già mi hanno lasciato.
Il tramonto disegna
strisce di luce
sul mio volto pallido
impietoso svela
le lacrime che sgorgano copiose.
Ripensare a ciò che è stato
seguendo la traccia del ricordo
è sofferenza e non gioia
è la consapevolezza
che tutto passa
e che anche il nostro tempo
sarà presto andato.


Da La pietà


La colonna sonora:







Tramonto sul mare di S’archittu, di Piera Maria Chessa



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Tramonto sul mare di S’archittu
di Piera Maria Chessa


Mi fermo stupefatta
davanti a te, sole,
che lento ti nascondi
ai nostri occhi.
Non sono la sola
a guardarti, ad ammirarti,
un ragazzo, al mio fianco,
in estasi ti osserva.
Immobile
rapito da tanta bellezza
si abbandona
alla tua luce calda
e al tremolio dell’acqua
che s’indora.
Entrambi, lui ed io,
attendiamo l’istante
in cui tu
stanco della tua giornata
deciderai di andare.


Il sottofondo musicale:








Fatherland, di Robert Harris




Fatherland
di Robert Harris
© 1992 Arnoldo Mondadori Editore 
ISBN 8804374640 € 11,00 pag. 333




Cosa sarebbe accaduto che se a vincere fosse stato Hitler? Quale società avrebbe creato?
A queste domande ha dato una propria interpretazione lo scrittore Robert Harris, con questo romanzo ben scritto che, una volta iniziato a leggerlo, ti costringe quasi ad arrivare alla fine.
Ci troviamo nella città costruita da Hitler, nel 1964.
La polizia è stata assorbita dalle SS e March Xavier ne fa parte, anche se non è assolutamente di parte politica.
Tutto ha inizio con la morte di un gerarca nazista, pare che si sia suicidato.
Per March inizia un’indagine che lo porterà a scoprire tutta la polvere che può starci sotto un tappeto.
Presto Kennedy verrà in visita in Germania, ma l’impero di Hitler, la sua Fatherland, Patria, sta scricchiolando.
Presto March si accorge che quest’ultimo suicidio è solo l’ultimo caso di tante, troppe morti sospette.
Una giornalista americana lo aiuterà nelle indagini.
Dopo molte indagini, fra traditi e traditori, scopriranno quale grande mistero si cela dietro tutti questi omicidi. Chi sono i colpevoli e perché il turbine che prima pareva solo una tempesta, sta accelerando rischiando di diventare un vero e proprio uragano.
La giornalista, con le prove di quanto sta accadendo, l’eccidio di milioni di ebrei, riesce a passare il confine con la Svizzera, quindi a tornare in America dove potrà pubblicare le carte dello scandalo e fare sapere al mondo intero cosa succede in Germania.
Per March è previsto un altro finale.
Tutti i nomi dei vari nazisti corrispondono a persone realmente esistite che, ovviamente e per fortuna, hanno fatto ben altra fine nella storia.
Un giallo davvero ben costruito, con adattamenti storici impeccabili e una penna che si fa seguire.


© Miriam Ballerini


Figli di terracotta, di Katia Debora Melis





Figli di terracotta di Katia Debora Melis






Perché è bugiarda la vita?
La tua mente fragile e offesa
non lo capirà.”




È poesia da leggere e assaporare lentamente, questa di Katia Debora Melis, un lungo e articolato percorso emozionale alla ricerca del senso dell’umano esistere tra le pieghe sbiadite del nostro tempo; orfano di farfalle e ladro di sogni, quest’ultimo ha il respiro affannato di un vecchio quartiere, dove viviamo l’ergastolo dei giorni dal soffitto pulsante di stelle.
Ci si sente davvero al centro di questi versi che si succedono ora brevi e lapidari, ora più lunghi e indugianti sul mondo “che non conosce più equilibrio di stagioni”; e noi, che in esso abbiamo radici, siamo quei figli di terracotta la cui nascita viene mirabilmente fissata in “Genesi”, affascinante ed evocativo incipit della silloge:


Quando il Sole
ha ingravidato la Terra
è diventato padre di tutti i padri
e la Terra, forte,
si è lasciata plasmare.
Nacquero figli di terracotta.
Siamo noi.”


Niente di più fragile, dunque, niente di più caduco – e, sotto certi aspetti, meno nobile – della natura umana, soggetta di per se stessa a smarrirsi e incrinarsi tra le burrasche della vita.
Attraverso una poetica matura e sapiente, ricca di immagini suggestive, l’autrice ci conduce tra squarci di contemporaneità e note di profondità intimistica. Desolante lo scenario della società attuale: “Regna/ il lamento/ ovunque. […] L’immagine leggera del sorriso/ vola via/ dissolta dalle ombre/ cariche di lacrime/ degli occhi del mondo.”
I colori dominanti non sono quelli luminosi della bella stagione, ma quelli cupi e opachi d’autunno e inverno perenni; si vaga così tra le parole cariche di disorientata sofferenza, sperando in uno spiraglio di primavera forse inesistente o cercando, per via artificiale, un “piccolo germoglio di sereno”. Manca il calore del sole a dipanare quelle ombre pesanti che sono i pensieri, mentre il dolore, come ci confida amaramente una delle liriche più belle, diviene un’immensità in cui non è semplice ritrovare il sorriso affinché si possa dare gioia autentica agli altri senza dover più fingere. Anche il tema della falsità e quello conseguente dell’accorato bisogno di sincerità risultano presenze tutt’altro che marginali nella scrittura della Melis: “Perché è bugiarda la vita?”
E se la vita ci racconta le proprie menzogne, la poesia, tuttavia, non tace le sue verità. Essa è spudorata, non meno scandalosa, e chi da sempre le dà voce, il poeta, è simile a un anonimo soldato, armato soltanto di vecchie e nuove parole e impegnato su innumerevoli fronti. Molte saranno ancora le battaglie e le guerre da combattere. Pertanto, oggi più che mai la poesia, che in fondo parla di quell’io senza tempo né luogo che siamo tutti noi, è chiamata a non rinunciare alla sua schietta spudoratezza, ai suoi voli surreali, alla speranza stessa ch’essa racchiude in sé.
Pubblicata lo scorso anno dalla casa editrice calabrese Thoth, la silloge “Figli di terracotta” è veramente splendida: “una scrittura così squisita e profonda”, come scrive Lorenzo Spurio in chiusura della sua attenta e approfondita prefazione all’opera, alla quale accostarci per riflettere sul nostro tempo e la società che siamo, magari imparando a camminare con passi leggeri su questa nostra martoriata terra desiderosa di vivere una nuova stagione, “come se volassimo/ radenti/ sull’acqua.”


Laura Vargiu


La bestia nella giungla e altri racconti, di Henry James






La bestia nella giungla e altri racconti - Henry James - Garzanti – Pagg. 197 – ISBN 9788811363095 - Euro 8,50




Il volume raccoglie quattro racconti che coprono un arco temporale compreso tra il 1877 e il 1903: “Quattro incontri” (1877), “L’allievo”(1891), “Greville Fane”(1892) e il più famoso “La bestia nella giungla”(1903). Sono dunque rappresentate le varie fasi nelle quali si è soliti suddividere la produzione di James, la prima che ci consegnò tra gli altri Il romanzo “Ritratto di signora”, la seconda caratterizzata dal disinteresse del pubblico e dall’insuccesso delle opere teatrali e poi la major phase che ha regalato al lettore gioielli veri e propri come “Giro di vite” e “Le ali della colomba”.
Un unico filo conduttore, macabro, nero , intesse i quattro racconti: la morte accompagnata sempre dall’ambiguità, non che essa sia destinata al momento del trapasso ma, come ben sa il lettore di James, all’esistenza ,tanto da esserne il suo sigillo primario. Può trattarsi del sogno europeo- rievocato a morte avvenuta- della maestrina americana Caroline, e abortito per un raggiro che la congela in un’esistenza altra da quella sognata; può essere ancora l’ambiguo rapporto tra precettore e allievo condannato da malattia e famiglia; o ancora il rimembrare la sfacciata fortuna letteraria di certi personaggi indegni, madre e figlio, che diabolicamente si compensano l’un l’altro e infine, una bestia in agguato come il colombre buzzatiano, temibile, da paresi esistenziale e null’altro che un paletto mentale inficiante e rovinoso.
Tante le tematiche care al nostro James in questa breve galleria: il sogno europeo con le ambientazioni riconducibili al vecchio continente secondo l’occhio americano, il magico connubio tra americani in Europa, l’evanescenza di fugaci incontri e di inaspettati ritrovamenti, l’amore alla James, impossibile e dannato, o monco e mai estremizzato in idillio, e ancora l’ambiguità nelle relazioni umane, il precettore , l’allievo oltre tutto il disappunto per l’industria del libro e il mestiere dello scrivere, un inno alla moralità e all’intransigenza formale che invece dovrebbe accompagnare l’esigenza di esplicitare i propri moti dell’animo.
Bel volume che permette la fruizione del famoso “La bestia nella giungla” a compenso della rinnovata fatica che si fa a inseguire la prosa di James, persi tra fiumi di parole che si arricciano e si dilatano e si amplificano e confondono, turbano, talvolta fanno perdere il filo e arrovellano e stuzzicano per lasciarti sempre con una soluzione aperta, la tua personale chiave di lettura alla vita.
Si lascia la lettura dopo il bellissimo racconto finale quasi trasfigurati in personaggio consapevole che certo non si farà battere dalla bestia della sua personale giungla..ah ah ah … diabolico James!


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Mi fido del mare, di Carla De Angelis




Carla De Angelis: “ Mi fido del mare ” – Poesie - ( FaraEditore, 2017)


Mi incontro oggi con la raccolta di poesie di Carla De Angelis: “ Mi fido del mare”, edita presso FaraEditore di Rimini a giugno di quest’anno.
L’Autrice ama il mare e l’ha cantato in diverse raccolte precedenti.
L’amore per l’immensità del mare è paragonabile all’amore per l’immensità del Bene Supremo di fronte all’opposta immensità del male che attanaglia costantemente l’esistenza degli esseri umani.
Le due forze in campo il lettore le potrà verificare nei versi di questa raccolta attraverso le metafore: giorno/ notte; sole/luna; bianco/nero; dualismo di scelte, di ambienti, di profumi.
La Nostra scrive in versi l’amore verso l’umanità. Scrive versi per incontrare altre voci nel confronto. Pubblica per rappresentare una barriera al dilagare del materialismo: offrirsi senza superbia nell’opera creativa che la poesia ha assunto dalla sua comparsa in mezzo agli uomini (prima apparteneva agli Dei):
(…) Apparecchiamo ogni giorno dolci carezze / per il tuo sacrificio in ogni dove / purché ci sia un solo uomo ad ascoltare / uniamoci a tavola nello stesso colore / la strada è questa, stessi passi nel cuore / ” (pag.73).
Oggetti ed emozioni. Ricordi e luoghi. Ritmi e odori. La poesia di Carla nasce di notte, lo scrive di suo pugno nell’introduzione, quando i silenzi sono più forti e la serenità ha il respiro dell’infinito.
Tenace e perseverante, questa poeta, ci pone di fronte ad una tematica che coglie in modo esaustivo la lezione del Novecento che abbiamo vissuto e che Luciano Anceschi ha raccolto in queste parole: “ (…) Così il metodo della analogia e quello delle equivalenze oggettive sono forse le tecniche simboliche più insistenti che percorrono tanto in senso sincronico che in senso diacronico la sintassi poetica del novecento secondo particolari e disformi disposizioni e risultati.” (“Le istituzioni della poesia, 1968).
Le figure retoriche nei corpi poetici di questa raccolta si rifanno a questa lezione:
(…) Il tempo è prezioso e finito / è meglio nuotarci dentro / come fosse mare / (pag.37) – (…) “ Mangiavamo il tempo, era tenero e buono, ma / la strada era sbagliata.” (pag.75) – “ Amo così tanto il mare / che vedrei azzurra anche la morte / se mi cogliesse mentre nuoto / verso l’altra sponda ” (pag.99).
Assonanze, metafore, analogie, personificazioni, anafore, l’enjambement e altre figure retoriche accompagnano il racconto poetico dell’A. e il suo amore per il mare/ infinito.
Una riflessione merita la prima composizione poetica, a pag.13: l’invidia: il peggiore veleno che muove il male nel mondo, è personificata nell’astro notturno, la luna, capace di portare via la felicità di una nascita: “ La luna invidiosa della tua bellezza / quella notte si posò accanto al tuo lettino / rubò qualcosa di te / basterà la vita per ritrovarlo? / ”
Come nelle nostre favole meridionali più diffuse “ le janare ” di notte raggiungevano le culle dei neonati e i più belli li storpiavano per invidia.
Così i versi di Carla annunciano il maleficio che ha portato via la bellezza della sua creatura. L’astro ha assunto la valenza di una “ luna nera” apportatrice di calamità e sofferenze.
Nella raccolta il richiamo a questo dramma è presente molte volte come ad esautorare il dolore che è nella mente e sostenere la luce del Bene per porre fine all’interrogativo enunciato nei versi.
Una raccolta dettata dalla maturità dell’A., divenuta sagace, padrona della parola, dei suoi effetti positivi sul lettore e sulla benefica intensità del suono dei versi.
Nuovi percorsi raggiunti dall’incontro con altre esperienze poetiche e contaminazioni contemporanee: “ Eppure amo questa vita che fa di me una / persona / impreparata inquieta ” (pag.105).
A questo punto, caro lettore, sono certo che accetterai l’inserimento di una leggenda cristiana ispirata dalla lettura di questa raccolta.
Tra le molte di queste attribuite a Sant’Agostino d’Ippona, vescovo di Cartagine, si racconta che mentre passeggiava in riva al mare, preso dalla sua metidazione filosofica sulla Santissima Trinità, incontrò un fanciullo che portava acqua dal mare verso un buca che aveva scavato sulla spiaggia con una conchiglia.
Il santo chiese al fanciullo cosa stesse facendo: “metto il mare in questa buca ”, rispose semplicemente il fanciullo. Agostino lo riprese: “ è una fatica inutile, il mare non potrà mai entrare nella buca”. Al che il fanciullo disse: “Agostino, come potrà l’immensità di Dio entrare nella tua testa?, e scomparve.”
Accetta la mia limitatezza e confrontati anche tu con la vastità di questa fiducia verso un mare, caro a chi scrive, che sommuove i versi di Carla De Angelis.


Vincenzo D’Alessio


Tutte le poesie 1940 – 1953, di Rocco Scotellaro





Tutte le poesie 1940 – 1953
di Rocco Scotellaro
Cura e nota di Franco Vitelli
Arnoldo Mondadori Editore S.p.a.
Poesia
Pagg. XXXVI – 354
ISBN 9788804532347
Prezzo Euro 10,00




Mai fu più intensa una così breve vita




Spesso ignorato, a volte appena oggetto di un accenno, l’opera del poeta ha rischiato di affondare nelle sabbie mobili dell’oblio, evento nefasto a cui non poco ha contribuito la figura dell’autore, poliedrica, interprete genuina di un ceto diseredato a cui ha tentato di dare una speranza. Certo la figura di Rocco
Scotellaro, sindacalista, uomo politico sindaco di Tricarico, avvolta nel mito ancor più reso incisivo dall’improvvisa scomparsa a soli 33 anni di età, splende a tal punto da correre il rischio di oscurare lo Scotellaro poeta, nonché narratore, artista di non poco conto, anzi fra i grandi della seconda metà dello scorso secolo. Il rischio più grosso, però, fu che questa notevole produzione poetica restasse nei cassetti, ma per fortuna Carlo Levi, che aveva conosciuto Scotellaro negli anni del confino, la rese nota con la pubblicazione nel 1954 di una raccolta intitolata E’ fatto giorno. Ci troviamo quindi di fronte all’atipico caso di un poeta postumo, giacché nella sua breve vita non ebbe la gioia di essere alla ribalta, almeno in questo campo. Successivamente seguirono pubblicazioni di altre raccolte, fino a quando non si decise di provvedere organicamente alla messa in stampa dell’opera omnia ed ecco allora il presente volume, secondo una ricostruzione e un accorpamento dei vari testi effettuata da Franco Vitelli che, nella nota introduttiva, precisa di averli divisi in quattro blocchi (E’ fatto giorno; Margherite e rosolacci; Frammenti ed epigrammi; Canti popolari). Credo che questa impostazione, oltre a rendere più omogenea la pubblicazione, abbia anche il pregio di cercare un accomunamento di tematiche che tendono meglio a delineare l’intrinseca elevata qualità di questa poesia neorealista.
In ogni caso le liriche, armoniche, sono di particolare bellezza nella loro varietà e, per dimostrarlo, eccone due: da Lucania (M’accompagna lo zirlio dei grilli / e il suono del campano al collo / d’un inquieta capretta. /…) e da L’acqua piovana (Salute, miei parenti morti, / l’acqua piovana vi lava la faccia. /…).
Sullo sfondo c’è sempre la terra natia verso la quale il suo amore deve essere stato viscerale, come viscerale era quello per i suoi abitanti, per i miseri contadini delle valli, e in genere per tutti gli ultimi di questo mondo. Ecco che ritorna, in poesia, il forte impegno civile e sociale, come in Pozzanghera nera il diciotto aprile (Carte abbaglianti e pozzanghere nere…/hano pittato la luna / sui muri scalcinati!/ I padroni hanno dato da mangiare / quel giorno si era tutti fratelli, / come nelle feste dei santi / abbiamo avuto il fuoco e la banda. / Ma è finita, è finita è finita / quest’altra torrida festa / siamo qui soli a gridarci la vita / siamo noi soli nella tempesta. / E se ci affoga la morte / nessuno sarà con noi, / e col morbo e la cattiva sorte / nessuno sarà con noi. / I portoni ce li hanno sbarrati / si sono spalancati i burroni. / Oggi ancora e duemila anni / porteremo gli stessi panni./ Noi siamo rimasti la turba / la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti.). Direi che questa poesia è quella che meglio di tutte delinea Rocco Scotellaro sindacalista, politico e poeta, una fusione più unica che rara, un’immagine che di per sé non ha bisogno di commenti. Le poesie di questo volume sono tante (468) e mi piacerebbe riportarne delle altre, ma sarebbe superfluo, perché non c’è di meglio che di leggerle piano piano, centellinando i versi, correndo con la mente a un mondo arcaico, a una civiltà contadina bruciata da un travolgente progresso industriale, e di cui non restano più nemmeno le ceneri, se non nei versi, spontanei, magari sofferti, ma appassionati di un uomo la cui vita, alquanto breve, fu intensa come una lunga combattuta esistenza.
Da leggere, perché i capolavori devono essere letti.




Rocco Scotellaro (Tricarico, Matera, 1923 - Portici, Napoli, 1953) scrittore italiano. Dalla sua sofferta esperienza di militante socialista, impegnato a riscattare, anche con l’azione politica, la secolare degradazione del sottoproletariato rurale della Lucania, Scotellaro ricavò gli elementi costitutivi di un messaggio poetico (È fatto giorno, 1954, premio Viareggio; Margherite e rosolacci, 1941-1953, 1978) che esprime una genuina assimilazione dei moduli neorealistici, evidenziati nel saggio-inchiesta sui Contadini del sud (1954) e nell’abbozzo di romanzo L’uva puttanella (1955). Le opere, pubblicate postume, hanno generato contrastanti giudizi sul suo ruolo di attivista politico, di intellettuale contestatore e di suggestivo cantore di miti ancestrali della cultura contadina.


Renzo Montagnoli




MondoBlog del 9 settembre 2017

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