sabato 24 ottobre 2015

Monumento ai caduti, di Renzo Montagnoli

                                                                      Foto da web


Monumento ai caduti
di Renzo Montagnoli


Al mio paese, vicino alla piazza,
ma non in mezzo
perché il ricordo potrebbe rattristare,
ci sta un bronzeo monumento ai caduti
un fante impetuoso all’attacco
nell’atto di lanciare una granata.
Quando il comune intese farlo
pensava anche di mettere con lapide
i nomi dei caduti di due guerre
ma così il conto lievitava
e  i fondi eran già pochini
tanto che salomonicamente si risolse
con una dedica di un sol rigo:
ai caduti del paese in tutte le guerre.
Saggia decisione per non dover
tornare in argomento
semmai due guerre non fossero bastate
a ferire profondamente il mio paese,
ma avrei preferito ci fosse scritto solo
Ai caduti d’ogni guerra
ai nostri, a quelli dell’Italia
e di ogni altra nazione, anche nemica,
con sotto una piccola postilla:
monito affinché altre non vi siano”.
E’ certo poca cosa per scongiurare
sanguinosi e tragici conflitti
ma lo farei leggere ai bambini delle scuole
spiegando loro che in guerra
non c’è onore, ma solo orrore
che tanti ne son morti
al suono di fanfare
e che quella corona che il IV novembre
lì si depone per ricordare una guerra vinta
è frutto di retorica abitudine
un insulto alla memoria
di giovani immolati sul campo di battaglia
che solo chiedevano di vivere
mentre a loro fu invece  imposto di morire.

Da La pietà

La colonna sonora, uno stupendo adagio:



Un amore innocente, di Domenica Luise

                                                                       Foto sa web


Un amore innocente
di Domenica Luise


Il vecchio tremolante si sta avviando dal bar al supermercato, dal terzo piano di un casermone a sinistra una voce femminile grida: -Papà!
Il vecchio si blocca subito: -Sì, tesoro?
-Papà, mi serve una bottiglia di acqua frizzante, non farmi scendere solo per una bottiglia di acqua.
-Va bene, tesoro, ti serve altro?
-Visto che ci sei, papà, oggi ho solo formaggio, magari prendi un po’ di prosciutto cotto, quello compatto-, il donnone dice pure la marca e il tipo di confezione, chiede un po’ di mortadella e le pesche gialle pelose. Il vecchio entra al supermercato e fa la spesa con la sua pensione.
Un paio di volte alla settimana incontra certi amici al bar sotto casa e fanno uno scopone senza soldi, si divertono molto e chi perde paga il caffè a tutti, un caffè vero, non lento come quello della figlia. Oggi la vittoria gli costa ventitré euro e il muso dei due nipotini amatissimi appena torna a casa:
-E a noi niente?
Rimedia con cinque euro per uno, la figlia nemmeno gli chiede quanto ha speso. Si lamenta che è troppo tardi per andare a mare e sente caldo, le pesche sono acerbe, il prosciutto è poco, la mortadella è stantia, per l’acqua non dice niente e significa che va bene. Già.
Finalmente fa una doccia rapida ed esce dal bagno in due pezzi, con tutta quella pancia e il petto che scappa. Uno spettacolo:
-E sono già sudata di nuovo.
Si attorciglia intorno alla vita un pareo trasparente multicolore.
Madre e figli fanno il gesto di avviarsi: -Tu non vieni? Mio marito torna stasera, noi mangiamo là un panino, ho fatto anche un’insalata di pomodori, così andiamo leggeri.
-Non mi sento, fa troppo caldo, forse più tardi mi prendo un gelato.
-Per andare coi tuoi amici ti sei sentito-, ritorce subito la figlia. Il vecchio si arrabbia, ma non trova cosa risponderle e si siede davanti alla televisione, gli piace un film del secondo canale perché c’è un buffo cane con gli occhi intelligenti.
Peccato, poteva portare lui l’ombrellone.
Ascolta la porta sbattere, ci sente ancora perfettamente, e i passi, pesante la madre e saltellanti i bambini: scendono le scale perché nemmeno oggi l’ascensore funziona.
Lascia subito il film ed entra nello stanzino dove dorme per guardare liberamente la foto della moglie morta nella cornice buona sul comodino. Accarezza il vetro con le dita e ancora piange dopo nove anni.
Si chiamava Marisa. Non sapeva baciare e la notte del matrimonio fece l’amore per la prima volta e solo con lui a venticinque anni.
In viaggio di nozze indossava un tailleur principe di Galles e una bella borsa verde grande di pelle, aveva perfino la cappelliera e una camicetta di seta impalpabile, verde pure quella, a pallini gialli.
Era biondo naturale e sembrava una svedese.
A quei tempi in chiesa si portavano le maniche al gomito, non come oggi che si sposano scollacciate, stile vedo non vedo.
Marisa, al mare, aveva sempre indossato costumi interi e tutti le sembravano troppo audaci per lei. Gli chiedeva: -Sono indecente?
-Sei bellissima.
E gli diceva sempre: Roberto mio.
Ne ricordò quei dentini quando rideva, ne aveva uno un poco storto sul davanti che gli metteva tenerezza. Aveva chiesto le ricette alla suocera per imparare a cucinargli tutti i suoi piatti preferiti, da allora lui non aveva più assaggiato una pasta con le sarde come si deve e nemmeno quelle ciambelle saporose a colazione, col caffè appena svegli e sempre allegri o subito pronti a fare pace dopo un bisticcio scemo.
I due giovani sposi la sera, prima di addormentarsi, recitavano insieme le preghiere che i bambini imparano quando fanno la prima Comunione.
Marisa, nel corso degli anni, gli aveva dedicato un quaderno di poesie d’amore assolutamente sdolcinate, erano cinquantaquattro come l’età in cui il cancro l’aveva portata via. L’ultima gliel’aveva dettata, occhi negli occhi, sei giorni prima di addormentarsi, si intitolava: Non ti lascio davvero.
Perché non era morta: dormiva.
Egli era acculturato e s’intendeva di poesia, espressioni come “Tu sei il mio cuore” oppure “La mia anima bacia la tua” avrebbero fatto ridere i polli moderni, ma Roberto da subito si commosse per quelle parole ridondanti, fuori tempo e innocenti, dopo la morte di Marisa le imparò a memoria tutte e cinquantaquattro ed ognuna lo trafiggeva, ne ripassava una diversa al giorno e la sera, dopo le preghiere di sempre, la ripeteva a lungo nel pensiero anche se lei non era più lì a tenerlo per mano, poi le ricominciava tutte dall’inizio e godeva di essere stato amato amando fino a tal punto. Ogni parola era vera, anzi inferiore alla realtà. L’amore talora è sdolcinato o dolcissimo, perfino languido. Il respiro del seno di lei sotto quella camicetta di seta verde così sottile e come le batteva il cuore. Per questo non ne parlava mai e teneva nascosto in fondo al comodino il quaderno delle poesie anche perché non si sciupasse oltre, il tempo era passato e i fogli diventavano gialli, i tratti della penna scolorivano, incominciò a ricopiarle tutte in un quaderno nuovo e gli piacque di rispondere a poesia con poesia durante l’insonnia notturna e fu delizioso.
-Vienimi a prendere- sussurra il vecchio. Si sdraia sul letto e finge di morire e di vederla.




Diceria dell’untore, di Gesualdo Bufalino



Diceria dell’untore – Gesualdo Bufalino – Sellerio – Pagg. 224 – ISBN9788838924019 – Prezzo € 8,00


Storia ambientata in un sanatorio, prevalentemente. Incuriosisce subito la coincidenza e tematica e cronologica con altre due opere, la prima- che coinvolge anche l’altro rimando- ci riporta a “La montagna incantata”, la seconda a “La veranda” di Satta. In questo caso la coincidenza cronologica ha la sua ammaliante fascinazione: GesualdoBufalino , già sessantenne è convinto alla sua prima pubblicazione  e questa riscuote subito immediato consenso, siglato anche dal Premio Super Campiello (1981), mentre in Sardegna fra le carte di un noto giurista morto si scopre, confuso e celato, un manoscritto, prima opera rifiutata all’esordio come proposta per concorrere al Premio Viareggio. L’ambientazione è la stessa, la tematica giocoforza coincidente.
All’inizio del Novecento la tisi popolò dunque  anche nei romanzi e i luoghi destinati alla cura elioterapica entrarono di prepotenza nelle pagine più belle della letteratura, possiamo essere nel sanatorio di Berghof nelle Alpi svizzere di Davos con Thomas Mann, oppure  nella nostra Merano con Satta o ancora sulle alture di Palermo con Bufalino. Nei tre scritti il luogo è emblematico anche se solo con Mann viene amplificato allo scenario naturale circostante in modo più suggestivo.

Il tratto distintivo del romanzo in questione  è altro, è  evidente e va ricercato già nel titolo e nell’amplificazione semantica contenuta nel lemma “diceria” il quale può essere inteso come “discorso per lo più breve detto di viva voce, poi anche scritto e stampato...Di qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte...il troppo discorrere intorno a persona o cosa...”(TOMMASEO- BELLINI).
A quale rivolo interpretativo concedersi è già la prima sfida, sì perché leggere questo scritto è una sfida bella e  buona, soprattutto quando si impatta per la prima volta la scrittura del siciliano permeata di un tono alto, lirico, studiato, complesso e perverso.  È noto il lavoro di lima condotto incessantemente dall’autore ( l’edizione Bompiani da me letta offre in appendice epigrafi, versi, epitaffi, chiose integrative ad uso del lettore espunte tutte dal testo ultimo) e il carattere ermetico di un linguaggio che nutrendosi di un vasto corredo poetico, invita ad una lettura amplificata nel senso, da sciogliere come i termini di paragone dentro una metafora. L’impatto iniziale è ammantante, il lessico si amplifica verso lemmi mai uditi ( il vocabolario è d’obbligo a più riprese), il cervello sussulta, la trama abilmente si apre.

Di che parla dunque questo libro? Chiediamolo all’untore, a colui che giovane fatta esperienza di guerra e di successivo internamento in sanatorio, si ritrova a essere depauperato di parte della vita quella coincidente con i più begli anni, quella parallela al fiorire degli istinti e delle bramosie e al maturare di sentimenti profondi.
Il consorzio umano si riversa in un luogo finito contrapposto all’infinito del mondo fuori e le relazioni di base a tre figure : un antagonista in amore ( il mefistofelico dottore, “Il magro”) , una donna da amare ( Marta), un prete (Padre Vittorio). Tra i due giovani si intreccia una relazione amorosa corrosa e ammorbata in cui amore e morte si intrecciano nel mirabolante gioco dell’omissione, paradigmatico di temi quali l’olocausto, inteso come sacrificio, la malattia con il suo compagno di sorte che è lo stigma, la libertà e la privazione della stessa, il sogno. Ho enumerato solo quelli che mi hanno maggiormente colpita, in ogni caso l’opera offre anche la guida-indice dei temi e sono molto più interessanti proprio quelli che ho omesso.
La vicenda vive infine di un bellissimo finale che scioglie le relazioni umane e che riporta mestamente l’individuo alla sua individualità.
Da leggere assolutamente!

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Le guerre del Duce, di Denis Mack Smith



Le guerre del Duce
di Denis Mack Smith
Edizioni Mondadori
Saggistica storica
Pagg. 385
ISBN 9788804432296
Prezzo € 11,50

L’uomo della (im)provvidenza

È fuor di dubbio che l’assoluto protagonista del famoso ventennio, e cioè Benito Mussolini, sia personaggio meritevole di attenti studi e di ricerche storiche, se non altro per il fatto che nella nostra ancora giovane Italia mai c’era stato (e la speranza è che non ne vengano altri) un personaggio dalle così marcate caratteristiche da costituire quasi ununicum, nel bene e soprattutto nel male. Così di pubblicazioni su di lui e sul fascismo ce ne sono a bizzeffe, tanto che è il caso ormai di dire che si è arrivati a conoscere pressoché quasi tutto. Questo saggio del noto storico Denis Mack Smith si limita, e si fa per dire, alle guerre intraprese da Mussolini, che per natura, egocentrico come era, fu un guerrafondaio, pur di tanto in tanto atteggiandosi a pacifista. Nel dire che Mussolini fu il fascismo e il fascismo fu Mussolini si delinea apertamente la caratura e le vesti di quest’uomo, alla continua ricerca di un appagamento personale che non riusciva mai a raggiungere. Di certo non aveva le idee chiare: prima socialista e anti interventista, di colpo sostenne l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 e poi fu lesto a cavalcare il malcontento popolare della cosiddetta vittoria mutilata e della effervescenzaprerivoluzionaria del dopoguerra per impadronirsi del potere e diventare, di fatto, dal 1925 il padrone assoluto del paese. Occorre riconoscergli una grande capacità, derivante dall’esperienza quale direttore del quotidiano socialista L’Avanti, vale a dire l’abilità, non comune, di fare propaganda, facendo passare per vere notizie false e per false quelle vere. Non è che l’Italia, grazie alla sua presenza al governo, avesse migliorato la sua condizione economica e sociale, ma, in forza della dittatura e delle sue invenzioni, vere e proprie menzogne, se il popolo non aveva di che rallegrarsi del modesto reddito e della diffusa disoccupazione, però poteva almeno sperare in un miglioramento della situazione. Veniva detto che l’Italia era un paese egemone, ben organizzato, con i treni puntuali, la gente fiera e orgogliosa di discendere dagli antichi romani, tutte menzogne che avevano un certo successo in una plebe indottrinata già a scuola e in un mondo di fatto chiuso all’esterno. Un altro millantato punto di forza era l’onestà dei gerarchi fascisti, ma non rispondeva a verità, poiché questi erano dei macroscopici corrotti e Mussolini lasciava fare, ma tramite la polizia segreta si documentava sulle malefatte onde renderli ricattabili. Come è possibile comprendere al fascismo e al suo capo nulla importava degli italiani, se non la loro sottomissione ottenuta con un’abile propaganda. Mussolini diventò così un mito, alimentato da lui stesso, con promesse roboanti, puntualmente disattese, tanto che è possibile dire che, al contrario di quanto proclamato, non era il fascismo al servizio degli italiani, bensì erano questi che con il tacito consenso potevano mantenere in vita questo grottesco teatrino.  A forza di raccontar menzogne, purtroppo, il duce finì con ritenerle verità e qui iniziò una parabola discendente - che ci sarebbe stata in ogni caso, perché la situazione economica, già non soddisfacente, andava peggiorando - che condusse il dittatore a un delirio di onnipotenza tale da fargli credere che sarebbero state sufficienti solo le sue minacce di espansione per ottenere nuovi territori. In ciò si sentì confortato dai successi della guerra d’Etiopia, di quella di Spagna e di quella d’Albania, vittorie osannate come gigantesche e che invece si ottennero per il rotto della cuffia ed evidenziarono la grave impreparazione militare del nostro esercito, carente di mezzi e di uomini addestrati. Per avere ragione degli Etiopici si dovette ricorrere ai bombardamenti aerei indiscriminati e all’uso dei gas asfissianti, metodi entrambi caldeggiati da Mussolini, con un comportamento criminale che fu sempre una sua caratteristica; nel caso della guerra civile spagnola, i volontari fascisti (camicie nere e migliaia di disoccupati arruolatisi per sfuggire alla fame) furono clamorosamente battuti da un esercito irregolare a Guadalajara, il che convinse Mussolini a impegnarsi ulteriormente con uomini e armi, dissanguando di fatto le riserve valutarie nazionali; per l’Albania ci fu un’invasione da operetta senza spargimento di sangue, giacchè gli albanesi non avevano un esercito. Secondo lo stile propagandistico fascista queste furono considerate vittorie superiori a quelle conseguite dai più grandi generali della storia e il merito era da attribuirsi solo e unicamente al Duce. Il bello è che Mussolini credette davvero di essere un condottiero, tanto che, oltre ad accentrare presso di sé il ministero degli esteri, si prese anche quello della Guerra e quello dell’Aeronautica. In questi campi basilari era niente di più di un dilettante e quel che è peggio, a parte la politica estera fatta di un tira e molla che lo screditò non solo di fronte agli inglesi e francesi, ma anche ai tedeschi, ben consapevole delle difficoltà delle nostre Armi non fece nulla per avviare una razionale politica produttiva di ordine bellico, pur vantando di continuo l’inizio di una grande guerra, con cui il nostro paese avrebbe avuto il dominio assoluto del Mediterraneo e l’espansione verso est nei Balcani. Si potrebbe dire che giocava d’azzardo, ma, purtroppo, non aveva l’asso nella manica, anzi aveva l’Asse, il trattato di reciproco aiuto con la Germania nazista che arrivò a sottoscrivere senza leggerlo con dovuta attenzione e solo in seguito si accorse delle clausole capestro che conteneva. In continua altalena fra scendere in campo con i tedeschi, o restare neutrale, oppure addirittura affiancarsi agli inglesi e francesi, ma desideroso di nuovo bottino da spartire al tavolo della pace grazie a qualche migliaio di morti, finì per credere nella guerra e nella vittoria lampo del Reich, attaccando la Francia che aveva già chiesto l’armistizio (un comportamento da autentico vigliacco) e buon per lui che l’atto di cessazione delle ostilità fu firmato alla svelta, perché altrimenti il nostro esercito avrebbe subito una catastrofica batosta sulle Alpi. Non pago di questo, pensò bene di attaccare la Grecia, che aveva un modestissimo esercito; dovettero intervenire i tedeschi per scongiurare la disfatta, così come le truppe del Reich accorsero alla svelta in Libia dove solo 30.000 soldati inglesi travolsero la nostra armata che contava effettivi cinque volte superiori. In un crescendo wagneriano impegnò truppe in Russia, con gli esiti che sappiamo,  e nei Balcani dove si operò un’attività di polizia (e di pulizia etnica) con gravi atrocità (al riguardo, la mortalità nei campi di concentramento italiani era in linea con quelli nazisti di Dachau e Bergen-Belsen). Poi fu tutto un precipitare, con la fine che si meritava, del resto secondo una frase che aveva coniato e di cui andava fiero: se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi. A conti fatti di lui si può ricordare – ammesso di considerarla una caratteristica positiva – l’abilità nel creare il suo mito, di cui poi divenne succube; per il resto era un incapace, cattivo e crudele, che amava circondarsi solo di uomini mediocri perché questi gli davano sempre ragione. In concreto era una mente gravemente disturbata, uno che si sopravvalutava, perennemente alla ricerca di qualcosa che lo vedesse protagonista. Dell’Italia e degli italiani non gli importava un fico secco e l’atto forse peggiore della sua vita fu quello di accettate la guida della Repubblica fantoccio di Salò, evento che determinò l’inizio di una sanguinosa guerra civile. Quindi aveva ragione Churchill quando diceva che  era meglio avere l’Italia come nemico piuttosto che come alleato, e infatti fu una palla al piede per la Germania. 
La capacità di Denis Mack Smith di parlare di tutto questo in modo semplice e avvincente è veramente fuor del comune; il libro non stanca mai e vi si respira, pur da ex nemico, un invidiabile spirito di imparzialità. Le successioni degli eventi sono scandite senza intoppi e posso dire che si ha una concreta visione delle guerre del duce e non solo, perché quel che più conta, l’analisi psicologica di Mussolini è veramente approfondita. Non mancano poi pagine zeppe delle indispensabili fonti, così che questo è un saggio di primaria importanza, uno di quei volumi che non dovrebbero mai mancare nelle biblioteche personali e scolastiche, onde, comprendendo il passato, evitare il suo ripetersi in futuro.


Denis Mack Smith  (Londra, 3 marzo 1920) è lo storico inglese più noto nel nostro Paese e ha scritto libri relativi alla storia italiana dal risorgimento in poi.

Renzo Montagnoli



MondoBlog del 24 ottobre 2015

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sabato 3 ottobre 2015

Fantasia d’autunno, di Diversi Autori


                                                                    Foto da web

Oggi è il 3 ottobre e l’autunno si rende sempre più presente, con foglie che, ingiallite, cadono, cieli grigi, pioggerellina assillante e temperature che lentamente scendono.
A questa stagione è dedicata questa breve raccolta, con i contributi di poeti di chiara fama e di altri meno noti, e che ho voluto chiamare, in contrasto con il grigio uniforme e l’appiattimento delle ore, Fantasia d’autunno.

Autunno
di Vincenzo Cardarelli


Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.



Nei campi
di Giovanni Pascoli

I

Il capoccio avea detto: «Odimi, moglie.
Senti le rare tremule tirate
che fanno i grilli? Cadono le foglie;
e tristi i grilli piangono l'estate.
L'altra notte non chiusi occhio, tanto era
quel gridìo! - Seminate! Seminate! -
credei sentire. Poi, sentii ier sera
passar su casa un lungo rombo d'ale:
l'anatre vanno per la notte nera.
C'è sopra il verno. Il primo temporale
cova nell'aria. Sai che, per il grano,
presto è talora, tardi è sempre male.
Domani voglio il mio marrello in mano;
ché chi con l'acqua semina, raccoglie
poi col paniere; e cuoce fare in vano
più che non fare. Incalciniamo, o moglie».
II
E per due giorni consegnava il grano
alle soffici porche. Seminare
volle la costa, seminare il piano.
E per due giorni non uscì da mare
pure una nube; e il garrulo vicino,
«Il tempo è in filo,» gli dicea, «compare!»
Ma egli arava tutto il giorno, chino
sopra le porche. Il terzo dì, cantava
al buio il gallo, prima di mattino.
Ed egli al buio sorse, ed aggiogava
le brune vacche (uscirono mugliando
e rugumando la lor verde bava),
e seminava. Dore al giogo, Nando
era alla coda: Nando, il suo maggiore,
che ammoniva le bestie a quando a quando,
tarde, e la forza pargola di Dore.
III
Forza di Dore, le divincolanti
vacche reggevi; ma tuo padre il grano
pulverulento si gettava avanti.
La sementa spargea con savia mano;
altri via via copriva la sementa.
L'aratro andava, nell'ombrìa, pian piano:

qualche stella vedea l'opera lenta.

Da Primi poemetti (La sementa)

Autunno
di Adriana Pedicini


Danzano sul ramo
lugubre ipotalamio
prone all’assalto violento
 di sposo ventoso
prima che le stacchi dal ramo
il delirio del vortice
e a terra ammassarsi.
Le foglie
in autunno.

Malinconia d’autunno
di Renzo Montagnoli


Stilla il cielo l’umor grigio
di giornate senza sole
mentre monotone scorrono le ore.
È l’autunno fradicio di pioggia
la stagione della malinconia.
Stai chiuso in casa a pensare
a ricordare gli anni andati
di altri autunni senza più memoria.
Ma il resto emerge dalla bruma
volti noti che affiorano
e reclamano attenzione
occasioni perse altre cancellate
un percorso rivolto all’indietro
un film d’epoca lento e silenzioso
voci che vorresti riascoltare
e che mai potrai più udire.
Scende lenta una cappa di stanchezza
e s’abbassano le palpebre.
Fuori intanto solo piove
e il grigio cupo di quel cielo
scende dentro fino al cuore.

Da Lungo il cammino


 Giorno d'autunno 
di Rainer Maria Rilke


Signore: è tempo . Grande era l'arsura .
Deponi l'ombra sulle meridiane,
libera il vento sopra la pianura.
Fa che sia colmo ancora il frutto estremo;
concedi ancora un giorno di tepore,
.che il frutto giunga a maturare, e spremi
nel grave vino l'ultimo sapore.
Chi non ha casa adesso, non l'avrà.
Chi è solo a lungo solo dovrà stare,
leggere nelle veglie, e lunghi fogli
scrivere, e incerto sulle vie tornare
dove nell'aria fluttuano le foglie.


Autunno
di Salvatore Quasimodo


Autunno mansueto, io mi posseggo
e piego alle tue acque a bermi il cielo,
fuga soave d’alberi e d’abissi.
Aspra pena del nascere
mi trova a te congiunto;
e in te mi schianto e risano:
povera cosa caduta
che la terra raccoglie.

Albero d'autunno
di Attilio Bertolucci


Sporge dal muro d'un giardino
la chioma gialla di un albero.
Ogni tanto lascia cadere una foglia
sul marciapiede grigio e bagnato.


Soldati
di Giuseppe Ungaretti


Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie.


Le voci del bosco d’autunno
di Giovanna Giordani


Le voci del bosco d’autunno
borbottano piano
fra i rami inzuppati
le foglie stizzite
il profumo dei funghi
le castagne cadute
ed i fiori sbiaditi
Si alzano in volo
a rincorrere il vento
e si uniscono ai suoni
di Vivaldi e Chopin
sfavillanti di dolci
tristezze
poi si smorzano piano
in fondo ai sentieri
abbuiati
che risuonano d’echi
sottili e
assonnati

Autunno
di Guillaume Apollinaire


Passano nella nebbia
un contadino e il suo bue..
lentamente nella nebbia
d'autunno
che nasconde i poveri tuguri.
E, mentre s'allontana,
il contadino canta una canzone triste
Oh, l'autunno, l'autunno
ha sepolto l'estate.
Passano nella nebbia
due figurine grigie.


Autunno a Boccheggiano
di Salvatore Armando Santoro


Ruba l
'autunno l'ultimo tepore
nel Borgo senti un cigolio di mezzi
di carriole s'avverte un gran fragore.

La legna è già tagliata in giusti pezzi
pronta a bruciare ed a donar calore
e non importa se son ceppi grezzi.

C'è chi la taglia e c'è chi la rivende,
c'è chi la compra, nei fondi l'accatasta,
e poi c'è anche qualcuno, e non gli guasta,
che quella già tagliata ad altri prende.


Bosco d’autunno
di Boris Pasternak

Ha messo chiome il bosco d'autunno.
Vi dominano buio, sogno e quiete.
Né scoiattoli, né civette o picchi
lo destano dal sogno.
E il sole pei sentieri dell'autunno
entrando dentro quando cala il giorno
si guarda intorno bieco con timore
cercando in esso trappole nascoste.


Violini d'Autunno
di Paul Verlaine


Singhiozzi lunghi
dai violini
dell’autunno
mordono il cuore
con monotono
languore.
Ecco ansimando
e smorto, quando
suona l’ora,
io mi ricordo
gli antichi giorni
e piango;
e me ne vado
nel vento ingrato
che mi porta
di qua e di là
come fa la
foglia morta.


Una ballata d’autunno
di Maria Carmen Lama



Un giorno acceso di malinconia
anche se il sole splende sulle case,
sulle cose, sul cuore addormentato

L’autunno mi racconta una canzone
tutta colori appariscenti      spenti
e mi sorprende il mormorio del vento
che soffia e va nei viali del pensiero

Vagano mie parole come foglie
senza sapere se un addio le accoglie
così l’anima mia invano attende
alla prossima svolta d’incontrarti

E un rimpianto mi rende solitudine
mentre guardo quell’acero sfiorire
che prometteva di ricondurti a me

Nei viali del pensiero soffia il vento
e una ballata d’autunno si consuma

dissolvendosi piano

                in lontananza…


L’autunno è qui
di Milvia Comastri

L’autunno è qui
e ha scolorito il cielo,
che versa lacrime
per l’azzurro perduto.
Foglie screziate
cadono dai rami,
già un’aria fredda
si insinua fra le case.
Gli uccelli se ne vanno verso terre
dove l’estate non conosce fine.

L’autunno è qui,
dentro il mio vecchio cuore,
e mi scolora il sangue e le speranze.
Lacrime lente mi bagnano le guance:
non ho più ali per volare via.

Glicine d’autunno
di Cristina Bove

Siediti qui con me
sui gradini del portico, è di rosso
che si riveste il muro e sul terrazzo
la vite americana si è avvinghiata
ai fili tesi
lontano dorme il resto del paese

io qui mi fermo a respirare il tempo
l’uomo capelli bianchi e voce roca
imita il gallo, parla alle finestre, il matto
del villaggio
abita cerchi intorno alla mia casa
a volte ride a volte grida
raccontando se stesso a voce alta.

Ho saputo di inverni con la neve
sparire argini e guide
chiodi ficcati a colpi di tragedie
i destini raccolti da sudari.

E canta il vecchio, con le mani a imbuto
alle grondaie, dai tralci ricadenti
il glicine ingiallito
tasta nell’aria mossa sui cancelli.

Mi accoccolo tra il muro e la ringhiera
sui miei pensieri traccio
larghe ics
e sulle gambe stendo voli di mani
ai lembi di un vestito che mi appassisce addosso
e dentro no
non mi arrendo a sfiorire.

Le quattro stagioni (Autunno)
di Patrizio Spinelli

Provvida di grazie, stagione generosa,
dopo aver dato copiosi frutti
alla terra, che sfiorita rosa,
or appassisce, al ritornar de’ lutti.

Cresce il ruscello, sull’inaridita zolla,
cadono dai rami le secche foglie,
corto è il giorno, cede la vita, le voglie,
svanisce in cuor letizia come bolla

Rosseggia la vite e l’uva sui filari
riempie di ciocche i bei panieri,
rincasa l’ape laboriosa agli alveari

Fermenta il mosto al suo bollore
che poi addolcirà i mesti pensieri
e dolci saran i sorsi, come l’amore!

Come in autunno gli alberi
di Mara Faggioli

Come in autunno,
gli alberi
esausti e stanchi,
lascian cader le foglie
e quasi con sollievo,
le regalano al vento,
così, forse,
anche l’uomo,
dalla sua vita
si separa
senza rimpianto
          né dolore.

Da “Piuma leggera” Masso delle Fate Edizioni, 2004