martedì 18 luglio 2017

C’era una bimba, di Piera Maria Chessa




C’era una bimba
di Piera Maria Chessa




C’è una bimba che mi osserva
da una foto in bianco e nero,
sta seduta sul ramo di un albero
con lo sguardo incantato.
Tanti anni son trascorsi
uno dopo l’altro, nessuna pausa,
il tempo non si è mai fermato.
Ora son qui a guardare
a ritroso la mia vita,
a capire quanto ho scommesso e vinto
e quanto ho perso.
Tempo di bilanci, di conclusioni,
tempo di lunghe riflessioni.


Sottofondo musicale:







Il castagno del nonno, di Tiziana Monari






Il castagno del nonno
di Tiziana Monari




In un groviglio d’erbe e di fiori ormai secchi
si stagliava nell’incanto del bosco il castagno del nonno
maestoso,imponente
immerso nella rapsodia dell’inverno


aveva un tronco nodoso e marrone
rami che si tendevano al cielo
foglie grosse ed ingiallite
appesantite da candidi fiocchi di neve
enormi ricci dischiusi come labbra di donne all’amore.


Ed il nonno arrivava alle prime luci dell’alba
sceglieva quei ricci succosi
raccoglieva frutti dolci e maturi
mentre la brina formava arabeschi di pioggia
ed il freddo pungeva lieve il suo cuore


la raccolta durava tutto il mattino
con l’inverno stretto al cappotto sgualcito
i passi impacciati dalle doglie del gelo.


Poi nel meriggio
il nonno riprendeva la strada di casa
in un cielo di nuvole basse
nel silenzio azzurro del bosco


sull’uscio di casa dei riccioli neri, una bimba vestita di rosso
aspettava quel piccolo uomo
che all’alba partiva
riportando ogni giorno qualcosa per cena


era buono anche il pane condito a castagne
perché c’era l’amore
ed anche il digiuno aveva il sapore caldo del sole.




Sottofondo musicale:











Io ringrazio, di Giovanna Giordani





Io ringrazio
di Giovanna Giordani




Quando ricevo il saluto del giorno
con la speranza che mi danza intorno
Quando cammino lieta fra la gente
come pesce che nuota col suo branco
Quando la pace si distende accanto
al mio esistere e mi bacia l’anima
Quando penso che qualcuno ha scritto
una poesia che mi conquista
Quando sento il suono delle campane
ammaliatore come di sirene
Quando penso all’amore e all’amicizia
che ho potuto dare e ricevere
Quando viene sera e  mi abbandono
serenamente ai sogni della notte
Allora
anche a labbra chiuse
per queste
ed altre cose
io ringrazio
la vita


Sottofondo musicale:








La sera nei ricordi, di Renzo Montagnoli





La sera nei ricordi
di Renzo Montagnoli




Ricordo quando la sera
all’imbrunire suonava
la campanella della chiesa;
con quella voce cristallina
chiamava al vespro
e allora le vecchine
uscivano di casa
con il rosario in mano
e s’affrettavano
al sagrato.
Non c’erano altri suoni
solo qualche grido di bambini
a tirare gli ultimi calci
a un pallone mezzo rattoppato.
Già le prime luci
s’accendevano
e il vecchio Agenore
si sedeva davanti all’uscio
con il mezzo toscano in bocca
a digerire il cibo della cena.
Al bar, o meglio all’osteria,
i soliti clienti si facevano
un bianchino
chiacchierando del più e del meno
o meglio ancor sussurrando
notizie scandalose
fatti di corna di cui magari,
senza saperlo, erano loro stessi vittime.
Poi
a una cert’ora della sera
i crocchi lungo lo stradone
si scioglievano
e tutti andavano al riposo.
Era un tempo lontano
che a volte ho il dubbio
che ci sia mai stato
ma è il ricordo,
una voce che mi pare
di udir di nuovo,
che mi dice che così è stato.
Un altro mondo, era quello,
un altro mondo quello
in cui io son nato.




Da Il mio paese

Sottofondo musicale:



Dietro, di Sergio Sozi




Dietro
di Sergio Sozi




Il titoletto di taglio basso del quotidiano La Sera era molto più in giù di quello, vistoso, d’apertura – che urlava lo sbarco di oltre trecento emigranti a Lampedusa – e stava in posizione inferiore anche rispetto ai sottotitoli che giravano intorno alla notizia principale. Insomma quel piccolo titolo era nascosto, anzi schiacciato (così pensava Aziz) dalla folla degli extracomunitari, e sussurrava: A Portofino approda il califfo. Nessuna foto concessa dall’illustre ospite causa ordinaria riservatezza. Lo stridore fra le due informazioni evidentemente non era stato notato dal direttore, responsabile unico di quella prima pagina on line, e tanto meno sarebbe balzato all’occhio del pubblico, ormai disabituato a certe finezze associative (o dissociative). Aziz non faceva eccezione e appunto, esaminando il tutto sul monitor, ignorava quel contrasto.
L’articolo, poi, a cliccarlo, continuava precisando che il piacente gentiluomo arabo in dirittura d’arrivo a Portofino, si proclamava il solo vivente dei numerosi sovrani Abbasidi. Dinastia immortale, che dunque non si era estinta, come da popolare convinzione occidentale, nel secolo XVI con la distruzione di Baghdad ad opera degli invasori mongoli. Di ciò il feudatario – intervistato al telefono poco prima che partisse per il Belpaese – offriva pubblicamente le prove certificate a chiunque desiderasse verificare il colore del suo sangue, appartenente al ramo familiare che dalla capitale irachena si era trasferito al Cairo a metà Cinquecento. Inoltre, aggiungeva il califfo, tale elevatezza genealogica aveva trovato conforto in una serie di – non ereditati – pozzetti di volgare olio di pietra associati a qualche investimentuccio azzeccato. E intanto che le plebi europee verificavano il blu intenso del suo plasma, lui avrebbe passato una metà (o anche più se gli fosse garbato) di quel mese di luglio 2018 in giro per l’Italia: tra ʽʽContatti d’affari, bellezza, monumenti e templi, sia pagani che cristiani.ʼʼ – Traslitterando: quattrini, donne, musei e chiese.
ʽʽCerto...ʼʼ prese a pensare Aziz al-Mutawakkil VIII mentre, seduto a prua con il PC portatile sulle gambe, decifrava il pezzo in lingua italiana che lo riguardava sull’home page del quotidiano, ʽʽ...certo... ʼʼ e ogni tanto occhieggiava verso il pilota che stava attraccando con il motoscafo di trenta metri al molo turistico ligure: ʽʽ...certo dovrei proprio essere un demente a trascurare cose deliziose come quelle; ho fatto bene a lasciare il grosso del femminame a casa.ʼʼ E senza farsene troppo accorgere, giusto quel tanto che bastava, egli rimirava con colpetti d’occhio il gruppo di amiche in minigonna, chissà studentesse universitarie, ferme sulla banchina ad assistere estasiate alle calme operazioni dei cinque marinai in linda divisa che, a bordo del gigantesco natante battente bandiera siriana, gonfiando i petti si affaccendavano ad accostare al molo e approntare la passerella, affinché il loro altolocato padrone potesse presto mettere piede, per la seconda volta in vita sua, sul suolo italiano. L’altra volta, quattro anni prima, era dovuta all’acquisto dello yacht stesso.
Adesso però era presente anche la settima moglie, Amina: nel bagno a sistemarsi da secoli e in crisi di nervi perché non assistita dalla solita dama di compagnia, che il marito aveva voluto lasciare a Damasco. Aziz sentiva le sue urla di insoddisfazione allo specchio senza curarsene, tutt’al più sorridendone: «Stiamo per scendere a Portofino cara, la passerella è pronta!», gridò senza ricevere risposta. E sottovoce: «Ah, le apparenze vane: tu che senza trucco sei da buttare nel cesso ed io... io a sbattermi in questo nuovo millennio dove perfino un re deve fingersi capitalista rampante, self-made man, per avere credito nel mondo della finanza...». E «Fingi fingi fingi, anche in mezzo al mare...», iniziò a cantarellare, «fingi sempre, non ti stancare...». E navigava su Internet senza sapere dove andasse, così, tanto per far aspettare i sudditi.
Intanto Faruk, il capo delle guardie private, nella sua cabina vicino poppa, prendeva dall’armadio la 44 Magnum. Verificò il caricatore e se la mise sotto la giacca nera, nella fondina ascellare; la leggera Beretta 7,65 era già sistemata nell’altra custodia in pelle applicata alla cintura dei pantaloni scuri. Due coltelli a scatto nelle tasche. Non si vedeva niente di tutto ciò. Elegante fuori, il giovane arabo, ma arsenale dentro. Capelli neri corti imbrillantinati. Quasi due metri d’altezza. Uscì dalla cabina. Gli altri tre omoni della scorta gli somigliavano negli armamenti e anche fisicamente: erano in piedi, lungo la murata di babordo. Appena riunitisi, i quattro, senza parole, chi fumando chi immobile, gli occhi fermi su chissà quale oggetto rasoterra, iniziarono a seguire il protocollare e un po’ estenuante rito dell’attesa di Aziz. Il padrone dal nome impronunciabile e la faccia poco meno sacra, appena guardabile... di sfuggita, non più.
Erano salpati cinque giorni prima da Sidone, in Libano, dove l’Abbas, villa galleggiante modello Ferretti 960, restava alla fonda per circa dieci mesi l’anno. Il gruppo dei siriani aveva raggiunto quel porto da Damasco, loro città di residenza abituale, con le solite due Volvo otto posti blindate: una per Aziz, moglie e scorta, l’altra per servitù bagagli e ciurma. Le macchine erano rimaste parcheggiate in Libano, dove era previsto anche il rientro del gruppo a fine vacanza.
Mezz’ora dopo la partenza da Sidone erano al largo, non lungi da Cipro e diretti verso il Mar Tirreno a velocità sostenuta. Le tappe, poi, erano state poche ma piacevoli: l’isola greca di Donussa; una ridente località del siracusano; infine il Circeo, dove il siriano aveva acquistato, in ricordo della bella passeggiata sul lungomare, un anellino di platino con rubino da sedicimila euro. Dono contraccambiato dalla settima coniuge con un lungo appassionato bacio, concesso al marito quando erano in vista dell’aspra costa presso Ajaccio, Corsica.
«Prima di sbarcare, devi ordinare ad Alì da parte mia che in albergo per cena stasera non avrò ospiti, ma lui deve fare la spesa subito. Provviste abbondanti. Inizierà a cucinare per me e mia moglie appena rientra dal giro. E non potrà dormire. Avrò bisogno di cibo caldo tutta la notte. E domattina sarà lui, proprio come a Damasco, a prepararmi la colazione, ché degli estranei, soprattutto se italiani cattolici falsi e intriganti, io non mi fido affatto...», disse Aziz qualche ora prima di attraccare a Portofino rivolto al pilota: «...no anzi, ad Alì non spiegargli ’sta cosa degli italiani intriganti: tu digli solo che assolva al suo ordinario dovere di primo cuoco reale: solito servizio, soliti pasti sempre pronti per me e i miei eventuali ospiti. E spiega pure alla cameriera e al maggiordomo che a Porto-come-cacchio-si-chiama... Portofino sì... insomma, lì fra i barbari io stasera andrò in un club per ricrearmi un poco. Loro dunque mi devono approntareimmediatamente il bagno e le cure corporali di sempre, senza dimenticare oli, essenze, cristalli aromatici e il tappeto da preghiera già direzionato verso la Mecca. Ecco prendi nota, bravo. E senti. Una mossa sbagliata con un’unghia incarnata che mi fa strillare, come fece quella scema di pedicure un mese fa prima di avere il collo spezzato come la gallina che era... o due gradi centigradi in più per l’acqua del bagno come successe all’altra emerita cretina di Samara (te la ricordi la bionda? La dovetti far sgozzare da mio figlio Rahmaran, per farlo un po’ maturare, poveretto lui che gli faceva impressione il sangue: poi non più). Dico, uno sbaglio, una disattenzione... o peggio una cattiva figura all’estero e io li getto ai pesci... e indìco pure una gara di tiro alla fiocina fra gli amici... tutti e due a bagno li metto digli tu: al maggiordomo e all’ancella. Già sono tanti i disagi del viaggiare, almeno il personale sia efficiente! Chiaro?».
Il pilota coetaneo, cioè cinquantottenne, da buon ex capitano di lungo corso salutò militarmente senza fare una piega e: «Particolari desidèri riguardo l’abbigliamento ed il menù, vostra altezza?», chiese ad occhi bassi, lieto dell’attenzione prestatagli da Aziz.
«Ci penserò di volta in volta io personalmente a darvi le istruzioni. Ah che noia muoversi. Soprattutto fra ’sti rozzi, atei e sozzoni di europei. Neanche più italiani, francesi, inglesi: soltanto democratici, loro, democratici... chissà che vorrà dire: che identità è la democrazia?».
Un paio di ore dopo, a tramonto appena iniziato, Aziz al-Mutawakkil VIII, quasi soddisfatto dell’articolo giornalistico, spegneva il computer e smontava con solenne calma dallo yacht, seguìto a qualche metro dalla settima moglie, Amina, con la testa rivolta all’in giù e chiusa nel velo integrale. La coppia veniva accolta da un ossequioso comitato d’onore: una dozzina di italiani, maresciallo dei Carabinieri e sindaco di Portofino inclusi. Finite in fretta e senza troppa partecipazione da parte degli ospiti le cerimonie di benvenuto, con inchini e sorrisoni degli autoctoni, tre taxi, pronti a poche spanne dall’acqua, portarono i siriani all’albergo; dove la suite di centosessanta metri quadrati – cinque stanze, sala, salotto, triplici servizi e cucina – li attendeva linda e pinta. Nel garage riposavano le tre auto a noleggio con le quali i mediorientali si sarebbero spostati finché erano lì.
«Ah, che miseria di tugurio, per giuda», commentò Aziz mettendo il naso nell’appartamento. «Tappeti: paccottiglia occidentale di solo un paio di secoli fa; quadri settecenteschi, almeno autentici speriamo: modernariato. Niente rubinetteria in oro... tutto argento. E il samovar che avevo ordinato? Non lo vedo. Mah. Speriamo almeno di farci qualche bell’incontro misto: dopotutto, l’unico lato positivo delle cristiane è che sono sessualmente disinibite quel tanto che basta a noi persone timorate di Allah».
Inutile precisare che la settima moglie era stata alloggiata in un altro appartamento, più piccolo, dello stesso hotel, ma a debita distanza. «Donna», le disse Aziz al telefonino durante le abluzioni, «adesso sono le ventuno e trentadue: fra mezz’ora esatta vieni qui a cena. Poi rientrerai in camera ché io devo uscire. Ci rivedremo qui domani alla stessa ora. Questo per il momento il programma. Domani sera ti impartirò il nuovo. Chiaro?».
Stava prendendo inizio la solita procedura di Aziz in viaggio di piacere: discoteca, orgetta notturna, dormita diurna, (rari) incontri ufficiali, nuove conoscenze, spesucce in giro con Amina, pasti. Due o tre giorni così, poi noia. Cambio località.




Da Portofino la comitiva, tre giorni dopo, si era spostata a Capri. Altri tre giorni e via a Pompei. Ancora due giorni ed eccoli nel primo hotel di Taormina.
Nella splendida cittadina siciliana, la migliore fra le varie discoteche riservate al jet set internazionale era aperta da mezzanotte alle dieci di mattina, ora in cui veniva offerta una colazione luculliana agli ospiti, selezionati con criteri di stretto censo e conoscenza personale con il padrone, il giovane Francesco Ciccio Melluso. Un industrialotto dotato di ottimo intuito affaristico che – senza spiacere alla mafia, per carità! – aveva da poco fondato il club di liberi incontri, affollandolo di un gentil sesso da lui remunerato per divertirsi, ballare, assaporare pietanze raffinate e soprattutto vivere appieno la propria libertà sessuale. Le consumazioni di bevande e cibi, come quelle erotiche, erano rigidamente facoltative gratuite e illimitate per tutti gli amici presenti – no, non i clienti, gli amici, per carità. Con i trecento euro del biglietto d’ingresso di ogni amico maschio il guadagno era comunque garantito.
Dunque, intorno all’una di notte di quel 16 luglio 2018, sabato, l’enorme SUV nero con a bordo il califfo e i quattro gorilla parcheggiò di fronte all’entrata del locale.
Il sovrano fu immediatamente oggetto di multiple ma ben armonizzate attenzioni, da parte di un trio di statuarie ragazze sui vent’anni. Ben presto, intorno al suo tavolinetto s’era radunata mezza discoteca, maschi e femmine di ogni età. Si beveva parecchio. Anche lui, ormai sicuro di non avere intorno occhi islamici, verso le tre aveva smesso con gli analcolici di facciata.
Intorno alle cinque del mattino, Aziz provò un capogiro. Strano, per uno che era abituato alle nottate allegre. Seguì un attimo di buio assoluto. Poi il risveglio.
D’ora in avanti lasciamo la parola ad Aziz al-Mutawakkil VIII in persona.




«Aprii gli occhi a causa del fetore: le luci basse, quelle colorate al centro della pista, i divanetti in velluto rosso, i profumi, le scollature... tutto era sparito. Niente più musica. Al loro posto il buio, un buio denso, e una puzza di sudore stantio, urina, cibo alterato e... paura. Lo conosco l’odore della paura perché era quello dei condannati a morte quando – subito dopo che, in quanto giudice supremo, li avevo messi davanti al plotone d’esecuzione – mi avvicinavo per chieder loro personalmente l’ultimo desiderio. E puzzavano tutti alla stessa maniera. Anche alla stessa maniera dello spettacolo che dovetti vedere quella volta, non troppo tempo dopo che avevo riaperto gli occhi nel buio assoluto, grazie all’accendino che m’ero trovato in tasca. Ne possedevo diversi d’oro massiccio, ma quello era un comune Bic di plasticaccia. E la mia tasca, constatai, era quella di un paio di jeans sudici, lisi e troppo stretti. Toccandomi dappertutto con la mano libera iniziai a girare la fiammella intorno al corpo: stavo indossando anche una camicia a quadri forse rossi e bianchi, mentre ai piedi avevo delle robuste babbucce turche da campagnoli, sporche di fango. Roba mai vista prima.
ʽʽSpegni quella luce, imbecille, si dorme qui!ʼʼ, proruppe una voce maschile rauca... come di un vecchio. Stendendomi verso di lui lo illuminai. Stava accucciato a poca distanza, semicoperto. E avrà avuto diciassette, diciotto anni. Baffi neri e pizzetto. Una felpa chiara. Due scarpe da ginnastica buttate lì accanto. Infangate come le mie babbucce. Parlava un arabo delle nostre parti, arabo siriano.
ʽʽNon capisci, nonnetto?ʼʼ, insistette spazientito, ʽʽleva quell’accendino e approfittane per dormire. Domani sennò il padrone non te lo dà il lavoro, se ti vede mezzo insonnolito e stanco. Già sei debole di costituzione... e denutrito... rischi grosso...ʼʼ
ʽʽLavoroPadrone?! Ma con chi stai parlando?!ʼʼ replicai irato alzandomi.
Non mi degnò di risposta: soltanto un sospiro sdraiandosi di nuovo sotto la coperta bigia. A quel punto ammutolii. Perché gli occhi abituatisi all’oscurità mi avevano trasmesso il panorama: ero al centro di una vasta sala senza mobili né letti, appena illuminata da lampioni esterni arancioni che filtravano da tre finestre, chiuse con inferriate e munite di veneziane interne. Cercai d’istinto una porta senza vederla. La sala era interamente popolata da esseri i cui corpi strabordavano, stesi, fitti, identici a nera marmellata, fin sotto i muri. Il tanfo si moltiplicava. Alcuni giacevano del tutto chiusi dentro i sacchi a pelo, altri con indosso solo i vestiti. Poche coltri leggere. Li contai. Quarantasette forse quarantotto. Soltanto maschi mi sembrò. Si respirava male. Presi a tremare.
ʽʽDevo telefonare. Capito!? Subito!ʼʼ, urlai da fermo, sentendomi del tutto impotente.
ʽʽFattela finita, stronzoʼʼ. Rispose senza agitazione una voce diversa ma sempre anziana alla mia destra. ʽʽDopo due giorni, ancora non hai capito che ora la storia è cambiata? Non siamo mica più nel Centro d’Accoglienza: ora qui è vietato telefonare! Ce l’hanno requisito l’altroieri il cellulare, insieme ai documenti... appena siamo stati assunti. Fatti beccare a una perquisizione con addosso un documento d’identità o un telefono e vedi che fine fai, sciocco vecchiastro. Comunque, se vuoi crepare fai pure. Io tengo mamma a Raqqa, e devo mandarle i soldi ogni mese se no schiatta come gli altri... papà per le pallottole del sultano (Dio lo stramaledica)... lei sarà di fame. E mo vaffanculo e fammi dormire l’ultima oretta che mi rimane prima dell’appuntamento nel punto raccolta col bus che ci scarrozza fino ai campi di pomodori...ʼʼ
ʽʽIn autobus ai campi... ma che accidente farnetichi?!ʼʼ, urlai perso e pazzo di furore.
ʽʽNo, no, NO: sono quasi le cinque di mattina e TU DEVI STARE MUTO! Sennò adesso ti prendo a calci nel culo. Chiaro?!ʼʼ. Una breve pausa. ʽʽRispondi vecchio: TI È CHIARO?!ʼʼ
ʽʽSì, sìʼʼ. Mormorai, più a me stesso per confermare l’incubo che rivolto a quell’ennesimo vecchio-giovane mio connazionale. D’un tratto provai la stessa paura che ebbi, sin dalla più tenera età, davanti a mio padre.
ʽʽNon solo SÌ, ma SÌ SCUSA TANTO, si dice. Non la imparasti l’educazione da tuo padre?ʼʼ
ʽʽSì... no. Porc... è vero: non ho più il telefonino! Devo telefonare, uscire di qui. Dimmi ti prego: dov’è l’uscita?ʼʼ.
Ridacchiò senza allegria: ʽʽUffa. Va be’ ragazzi: ormai siamo tutti svegliʼʼ, constatò con voce diventata stanca. Molti sbadigliarono e presero a stiracchiarsi in silenzio. ʽʽDiamo una schiarita alle idee di Massul, che forse stanotte si è fatto una cannaʼʼ. Mi fissò. ʽʽAllora Massul, ascolta bene: tu sei in Italia e come noi sei un uomo fortunato, perché sei vivo. Questo è il nostro domicilio; la chiave della porta ce l’ha solo il padrone: apre e chiude quando vuole. Questo ricovero-refettorio ce l’ha dato proprio lui, il padrone dei campi di pomodori, dopo tre mesi che eravamo rinchiusi nel campo profughi governativo. La polizia stava per rimpatriarci... almeno due su tre. Così, tanti sono fuggiti morendo in mare, altri stanno in ospedale, qualcuno in galera. Le donne decenti sul marciapiede. I restanti... boh. Noi, cioè anche tu Massul, siamo i fortunati, i prescelti. Veniamo pagati ben dieci euro al giorno più vitto e alloggio e cogliamo sammarzano solo dieci ore al giorno. Se rompi le palle ti spediscono in mezzo alla strada, dove esiste solo la parola fine. Quindi tu, o ti butti a mare, o te ne stai qui calmo e disciplinato. E dormi pure, così non crolli sui campi. Se cadi ti licenziano... non ti ricordavi più niente? Cos’hai fumato? Stai bene, Massul?ʼʼ
ʽʽMassulʼʼ, ripetei ipnoticamente. Avevo chiuso gli occhi e restavo in piedi. Immobile. Muto. Li riaprii e presi a vagabondare come in trance fra quella sorta di pianura in movimento ondulata di corpi maschili fetidi, mezzo imbacuccati in vecchie camicie, maglie di lana con scritte inglesi, varie coperture di chi sa quali tessuti e origini, bicchieri rotti, bottiglie di plastica, pentolini e piatti sporchi, cicche spente.
A quel punto mi misi la mano nell’altra tasca dei jeans e capii, perché su un pezzo di carta era scritto così:
Tutto questo finirà SOLO se manderai al seguente indirizzo di posta elettronica una mail, contenente i codici per aprire il tuo conto bancario delle Cayman. Preleveremo i venti milioni di dollari che ci sono e tu tornerai subito libero e ricco.
Di milioni ne avevo altri trenta sistemati altrove, ma l’idea di cedere al ricatto non mi sfiorò neanche il cervello.
Nei due giorni a seguire fu proprio come mi aveva spiegato il giovane-vecchio: dieci ore al giorno di raccolta pomodori e due pasti collettivi in quel capannone. Risposi male al capetto italiano – o per meglio dire a uno dei cinque sorveglianti armati che vigilavano su di noi mentre coglievamo – e mi presi una scarica di legnate.
Il terzo giorno scappai dall’isola – clandestino sul traghetto. Mi recai con mezzi di fortuna all’Ambasciata siriana di Roma, ma non potendo dimostrare la mia vera identità venni cacciato a male parole dall’usciere. Su un giornale lessi che la mia settima moglie Amina, già tornata in Siria, mi stava cercando; diceva che, colto da amnesia, mi ero perso una notte fra i vicoli di Taormina. Amina non aveva fornito alle autorità il mio ritratto, o forse lo avevano pubblicato un altro giorno. Ed io ero privo di soldi e documenti. Il numero di telefono riservato di Amina non me lo ricordavo perché era rimasto nella memoria del mio cellulare sparito. Insomma: impossibile rientrare in patria. E se era in atto una congiura forse, a farmi riconoscere, sarei stato anche ucciso. Così vagai per l’Italia arrangiandomi con mezzi legali e illegali. Inseguito dal terrore di fare incontri strani e appunto spesso facendoli. Ho preso più botte in questi mesi per strada che in tutta l’infanzia da quel violento di natura che veniva chiamato il mio precettore. Ed ora eccomi qui a mangiare con te, caro mio...»




«Non prendertela, Aziz, ma come faccio a crederti?», commenta l’alto e magrissimo Giovanni detto il Genovese, i lunghi capelli ormai bianchi. Tace perplesso, nella mensa piazzata come un indesiderato fungo velenoso al centro del quartiere benestante, in periferia della grande città lombarda. Tra gente che discute, litiga, canticchia e altra che tace rabbiosa o dorme con la faccia poggiata sul tavolo, Giovanni prende a pulirsi serenamente la bocca sottile. Ha una perenne smorfia. Il naso storto. Senza più guardare l’amico siriano, inizia a sbucciare una grossa arancia.
«Anche questa proviene dal Sud... come te Aziz... ma lei, anche se si chiama tarocco, non è taroccata come la storia che m’hai appena recitato... vecchio scarpone. Capisci cosa significa? Ce li avete gli anfibi militari che sparano panzane, in Siria?»
«Va be’ non posso dimostrarti niente. Niente di oggettivo. Ma è la pura verità».
«E allora dimmi: se le cose stanno come dici, perché diamine, dopo oltre due mesi, sei ancora qui a... a mangiare minestrone di verdure sciapo, pane gommoso e frutta irrorata di antiparassitari o scartata dai coltivatori? Perché non sei tornato da quelli con i... insomma da quelli come te? E chi è stato a conciarti così... chi c’è dietro
«Intendi chiedermi se ho sciolto l’enigma. Lo vuoi proprio sapere?»
L’italiano annuisce convinto.
«...e dunque va bene», proclama Aziz compiaciuto, «ma non subito. Domani, venticinque settembre Duemiladiciotto, refettorio dei poveri di Milano Nord, ore tredici: grande festa, con tricchetracche, petardi e stelle filanti per la fine, anzi per il seppellimento della mia storia! Ora però lasciami andare ché ho una cosa urgente».
I due uomini di mezza età si salutano con un cenno.
Ma guarda tu – pensa Giovanni rimasto solo al tavolo – che roba! E mi sento pure rodere l’anima dalla curiosità! Cosa ti va a inventare per mettersi in mostra... lo spacconcello...
Eppure qualcosa, del racconto, potrebbe esser vero... magari un venti per cento: che sin da piccolo ha studiato l’italiano. Lo domina straordinariamente bene. Meglio di me che sono nato... son nato a Marassi in mezzo a gente che conosceva solo il dialetto... e le manette. Sorridendo si accende una sigaretta; a qualche metro una vecchiona panciuta – la nicotina diffusa persino sui capelli – gli manda un insulto che Giovanni trascura. Le lancia un’Emmesse. Con un infinito sorso si scola l’intero bicchiere di vino bianco e riprende il filo dei pensieri: sono stato ad ascoltarlo, quel siriano, come non facevo neanche con la maestra Gianna in seconda elementare; e dire che l’avrei conosciuto – guarda l’orologio a muro – solo sei ore fa a colazione. E ci son rimasto a pranzo anche se mi aveva invitato mia sorella. Così, oltre ad aver saltato i suoi bei tortelli ripieni al prosciutto, ci dovrò pure litigare per non averla avvisata. Ah, son proprio un credulone. La vecchiaia è così, ma pure quell’Aziz ne avrà pochi meno di me... metti sessantadue anni dài.
Un attimo: ha detto che quando, due mesi fa, è giunto a Portofino ne aveva da poco compiuti cinquantotto. Insomma appena messo piede in Italia che ti va a combinare, a credergli ciecamente, il nobile annoiatissimo Aziz – uno che un attimo prima avrebbe lasciato a Damasco un harem di otto mogli, portandosene dietro soltanto una per non insospettire le altre che, sapeva lui, l’avevano incaricata di sorvegliare il comune marito affinché, nella immorale libera ed erotica terra europea, egli non facesse troppe scappatelle? Che fa dicevo Aziz?
Va a farsi fregare da un anonimo personaggio che lo vuole derubare. E che per farlo con comodo lo mette nei pasticci.
Mmm... fingiamo di credergli va’. Dovrei dedurre che chi ha ordito l’intera trama sia qualcuno che è riuscito a venirgli vicino, moltovicino. Mettiamo qualche italiano, non ricchissimo ma ben inserito nei giri dei potenti. L’arabo lo aveva incontrato durante il viaggio senza farci caso: uno dei tanti che gli stringevano la mano e che poi è riuscito a eliminare le guardie del corpo e ad isolarlo in maniera duratura... oppure... malavitosi in combutta con qualcuno che lo aveva puntato già da tempo in Siria: un clan avverso. O addirittura un parente: uno dei suoi sei figli, il minore... come mi ha detto che si chiamava... ecco: Rashid – il più trascurato da Aziz – che oltre al rapimento-beffa ha tentato anche il ricatto per un mero calcolo: una volta dichiarato il padre morto presunto all’estero avrebbe comunque ereditato (e infatti ha ereditato o sta per farlo) ma molto meno di venti milioni di dollari, dovendo dividere la torta con i cinque fratelli. Mah...




La mattina successiva, Giovanni, come promesso, si presenta alle tredici al solito tavolo della mensa di carità. Ma Aziz non c’è. Solo una lettera chiusa, che gli viene consegnata dal cuoco che serve i secondi piatti, quello coi baffi alla Saddam: «Sei tu Giovanni di Genova? Questa te la manda l’arabo. Dice che è dovuto andar via e ti saluta».
Nella busta una serie di foglietti di agenda tascabile, una decina di parole ciascuno, recitava quanto segue:




Caro Giovanni,


prima di tutto ti chiedo di bruciare questa lettera subito dopo averla letta.
Quando la riceverai, io sarò già all’aeroporto di Malpensa, in attesa del volo per Damasco dove finalmente rincontrerò Amina. La più amata delle mie mogli.
Come immaginerai, ho or ora ceduto al ricatto di cui ti avevo riferito.
Anche se ho capito che era stata proprio lei ad organizzare tutto insieme alle mie quattro guardie del corpo, che in quella discoteca di Taormina mi hanno drogato rapito e spedito in mezzo agli emigranti, preferisco che si prendano i miei venti milioni di dollari e mi restino vicino, amandomi sino alla morte. Una morte che sarà di vecchiaia e non solitaria, ne sono certo, solo se dirò chiaro e tondo ad Amina che sì, so tutto, non sono un idiota, ma le giuro solennemente che i nostri rapporti, se lei lo vorrà, continueranno come se niente fosse mai successo. Niente mai.
Cosa mi spinga ad agire così, ti chiederai, quando potrei metterli tutti al muro.
Ecco, è stato per me importante capire che dietro le nostre naturali cecità avidità e falsità è nascosta, sempre pronta a scattare, la vendetta di una giusta Nèmesi, alla quale spetta riequilibrare l’iniquo dare e avere del mondo degli uomini. Una dèa, quella, che ora devo comunque ringraziare per non avermi voluto uccidere in punizione della mia atavica, profonda e immutabile ipocrisia, aggravata dalla ricchezza materiale.
Insomma: ho pagato alla dèa quel che le dovevo per poter spezzare il circolo vizioso della mia eccessiva potenza. Punto.


Aziz




(Sergio Sozi ©2017)




Nei paesi del Sud, di Vincenzo D’Alessio




Nei paesi del Sud
di Vincenzo D’Alessio


Chi nasce al Sud di questa stretta penisola, tuffata nel cobalto Mare Mediterraneo, non sempre riesce a sfuggire alla fatale attrazione delle sirene che da quasi duemilacinquecento anni infestano le sue acque.
Le conoscono i vecchi pescatori che di questo mare hanno ascoltato il canto della calma e la violenza delle tempeste e, credetemi, non c’è proprio da scherzare quando ripetono: “ ‘o mare fa paura quanno fa ‘o mare”.
Chi nasce e cresce accanto al mare è più fortunato di chi nasce sulla dorsale degli Appennini meridionali dove il terremoto stermina quando vuole vite e sogni, ma difficilmente può godere la bellezza delle verdi faggete sparse sui versanti dove non giunge il vento del Sud, la freschezza delle acque sorgive nascoste agli occhi degli uomini, il volo dei falchi in pieno cielo.
Per pura fortuna sul finire degli anni Novanta del secolo appena trascorso fece la sua comparsa, nei cieli che sovrastano il Parco Regionale dei Monti Picentini, un raro esemplare dell’Aquila del Bonelli in volo dall’area di Roccadaspide(SA) verso l’entroterra dell’Irpinia.
Pochissime persone si accorsero della sua presenza nei cieli di quest’area e qualcuno già pensava che sarebbe stato un magnifico trofeo se abbattuta.
Nelle modeste comunità, ai piedi della sontuosa catena preappenninica, la gioia si sparse incontenibile: furono organizzate visite scolastiche, avvistamenti da parte dei componenti della LIPU sede campana; molti si interrogavano dove potesse essere il nido del formidabile volatile.
Accanto a tanta gioia maturava anche l’opposto senso di odio verso il bel volatile il quale a diverse ore del giorno solcava imperturbato i cieli del Parco, poi scompariva nella fitta vegetazione d’alta quota.
I bambini erano i più felici. Le maestre diedero compiti a scuola per l’evento. Si stamparono manifesti e brochure per far conoscere meglio il grande volatile.
Intanto i nemici dell’Aquila cercavano in ogni modo di raggiungere il nido per danneggiarlo e allontanare il volatile dai luoghi.
Passarono gli anni, cinque o forse sette, e l’attesa dei nemici ebbe i suoi frutti: l’Aquila fu vista precipitare nel folto della foresta dei faggi proprio sulla dorsale più vicina al luogo dove aveva realizzato il nido.
La notizia della sua scomparsa si sparse ovunque: i bambini, divenuti adolescenti, piangevano; le maestre a scuola iniziarono a custodire le foto dell’Aquila e tutti i lavoretti realizzati dagli scolari; la buona gente delle valli si rammaricava perché non riusciva a comprendere come fosse accaduto questa cosa terribile.
Iniziarono a nascere dicerie, bugie sparse dai nemici del fantastico animale, molte malelingue si vantavano di avere in qualche modo contribuito alla morte del volatile.
Nacque anche qualche leggenda che tramandava l’avventura dell’Aquila dal mare verso l’entroterra.
Non passò molto tempo da questo doloroso evento che fecero la comparsa nel cielo una schiera indefinita di corvi neri i quali calavano solo per depredare le colture sparse nelle valli o cibarsi sui cumuli dei rifiuti lasciati a cielo aperto.
I bambini ne avevano paura, nonostante i rappresentanti della LIPU difendessero i volatili, le maestre raccontavano le storie legate ai corvi e al loro volo verso le nubi quando si avvicinavano i temporali. Quasi nessuno era più felice.
Oggi tanta buona gente scruta il cielo nella speranza di scorgere ancora una volta il leggiadro volo dell’Aquila, la sua levità nell’affrontare le correnti, la sua vista acuta nello scorgere le occasioni a distanza, la capacità di essere da barriera per le molte specie che la temono e prolificano nel sottobosco delle valli del Sud.
Credo di essere rimasto tra i pochi che hanno visto volare l’Aquila e se ne ricordano ancora con gioia.




Il morso, di Simona Lo Iacono





Il morso di Simona un quarantotto nel ventre siciliano




Storia, verità e verosimiglianza si intrecciano dentro il romanzo




Date in mano alla scrittrice siracusana Simona Lo Iacono tracce di un fatto storico e su quella immaginaria tela lei vi ricamerà un imperdibile romanzo. Infatti, il suo fresco di stampa «Il morso» (Neri Pozza, pp. 238, euro 16, 50), c’incanta per l’insolita trama sorretta da una pregevolissima eleganza stilistica.
Palermo 1847. Lucia Salvo ha sedici anni, gli occhi come «due mandorle dure» e una reputazione molto chiacchierata nella sua città, Siracusa, dove la considerano una squilibrata, mezzo scimunita, una «babba», per meglio dire una pazza. La nomea se l’è guadagnata per via del «fatto», costituito da crisi compulsive attribuibili ad epilessia. Grandi personaggi del passato ne hanno sofferto. Persino Dostoevskij.
Questa sventura aleggia addosso alla ragazza come una maledizione.
Speranzosa di risollevarne le sorti, la madre manda Lucia a Palermo a sevizio presso la nobil casa dei conti Ramacca. La ragazza vi si reca riottosa, ben sapendo che il Conte figlio è diventato un erotomane, sempre più assatanato in tema di servitù femminile, sempre in ricerca di più laide emozioni, da parte di servette condannate al sacrificio.
Quelli erano i tempi, tempi di innegabili soprusi e Simona Lo Iacono non è solo pregevole scrittrice, è anche attenta storica, soprattutto della sua terra tanto amata.
Annoiato dalle troppo permissive e arrendevoli ragazze che gli concedono le loro virtù in giochi sempre più nuovi, ma per lui mai abbastanza, il capriccioso Conte figlio è alla ricerca di nuove emozioni. Ci vorrebbe una donna che gli opponga resistenza, creandogli l’illusione di una vera caccia, non di una resa aprioristica, in nessun modo guadagnata. Caratteristica la figura dell’evirato nano Minnalò, cui l’autrice dedica cura descrittiva molto suggestiva. E sarà proprio questo fedele consigliere del conte a porgergli la sventurata Lucia che tutto era tranne che arrendevole, e reagirà propinando al libidinoso Conte figlio, un morso deciso, ben assestato, una vera mossa da roditore, da cui mutua il titolo il romanzo.
Il Conte figlio era quello che cercava. Da questo gesto di ribellione si sgranerà il rosario di tutte le aggrovigliate vicende. Tanto che Lucia diverrà un’inconsapevole eroina durante la rivoluzione siciliana del 1848, il primo moto di quell’orda di scompigli ed insurrezioni popolari che sconvolsero l’Europa tutta in quel periodo.
Leggendo questo romanzo tra verità e verisimiglianza incontreremo i numerosi personaggi, nobili e servi, conservatori e rivoluzionari, quasi tutti avvolti in un’aura di perdenti in una terra che ci appare votata al sacrificio. E qui la «babba», come viene definita Lucia, trova la propria dimensione, la propria personalità, la propria capacità di amare e di ordire persino intrighi per amore, incontrando un’ingiusta fine. Ma non troppo vogliamo anticipare al lettore.
Simona Lo Iacono, di cui tanto abbiamo ammirato il linguaggio incisivo ed efficace, pervaso da incantesimi e malie, è nata a Siracusa nel 1970, è magistrato e presta servizio presso il tribunale di Catania. Nel 2016 ha pubblicato il romanzo «Le streghe di Lenzavacche»(Edizioni E/O), selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega.


Grazia Giordani