domenica 26 gennaio 2020

Per mai dimenticare - Il giorno della memoria 2020





I morti non dimenticano
(per il giorno della memoria 2014)
di Renzo Montagnoli
 
 
 
Soffocati
fucilati
inceneriti
dopo stenti inenarrabili
i morti non dimenticano.
C'è una memoria
che non finisce in nulla
aleggia lo spirito
di chi se n'è andato.
Gli altri
i vivi
vanno avanti
e ogni istante passato
il ricordo s'appanna
fino a che resta
una vaga notizia
-Chissà se è vera? -
si chiede più dì uno
 
Ma i morti non dimenticano.
 
Quei poveri corpi disfatti
ancora urlano
il loro silenzio
affinché
non diventi anche il nostro.

 




"Il figlio di Saul": un canto fra i latrati
di Ferdinando Camon
 
 
"Avvenire" 27 gennaio 2016

 
 
Il modo migliore di celebrare il giorno della memoria è andare a vedere il film Il figlio di Saul. Terribile a vedersi, ma non vederlo è un delitto. Un capolavoro aumenta in chi lo vede la voglia di vivere, una vita che ti fa incontrare capolavori è un regalo del destino. Ma stavolta non è così. Vedi questo film perfetto, e resti muto e spento. C'è un attimo di smarrimento in sala quando il film finisce, nessuno fiata. Non so se esista uno strumento in grado di misurare la “vitalità” delle persone, la voglia, la capacità di vivere, ma se esiste, e se si potesse usarlo sugli spettatori che escono dalla sala dopo aver visto questo film, si scoprirebbe che la loro vitalità è prossima allo zero. È un film che ti fa vergognare. Perché mostra che cosa sono stati capaci di fare gli uomini, e poiché tu sei un uomo, vergognandoti di loro ti vergogni di te. Non conosciamo ancora bene le lugubri imprese del Daesh, non ce le hanno mostrate per intero, e siamo grati di non averle viste. Chi verrà dopo di noi le vedrà. E proverà la stessa vergogna che proviamo noi oggi, vedendo questo film che ci mostra il macabro lavoro di un Sonderkommando. Sì, tutti abbiamo visto Birkenau (nessuno doveva uscire dal secolo scorso senza averlo visto), dunque abbiamo visto i luoghi dove si svolgeva l'abominevole operazione che si chiamava Sterminio. Ma quei luoghi oggi sono muti. Li vedi ma non li senti. E ogni racconto, ogni testimonianza, ogni diario che li descrive, non te li fa sentire. E senza sonoro sono morti. Il film recupera il sonoro. Urla, pianti, percosse, imprecazioni, latrati, abbaji, e ordini, ordini, ordini, che con i latrati e gli abbaji si fondono in una sola lingua, non umana ma canina. I soldati che fanno queste cose sono umani trasformati in cani. L'ideologia, il razzismo, l'odio per gli altri, l'obbedienza ai capi, le “cose dei padri” cioè la patria, hanno costruito questo risultato. Ci sono cani che prima mordono e poi ringhiano, così questi uomini-cani prima calano la bastonata e poi urlano l'ordine. Nessun dubbio che il lavoro del Sonderkommando o si fa così o non si fa. Siamo nella catena di montaggio dello Sterminio, i forni, la cenere da smaltire nel fiume, le docce da lavare, via un carico sotto l'altro. Nella catena di montaggio, a sterminare ebrei, sono altri ebrei, schiavi. Uno di questi, un ungherese, crede di riconoscere in un bimbo morente il proprio figlio. O, più probabile, vede quel piccolo morente e lo adotta come figlio. Ne nasconde il cadavere, lo porta sempre con sé, anche nella fuga, per tutto il film gira in cerca di un rabbino che sul piccolo morto reciti il Kaddish, la preghiera ebraica per santificare il corpo da seppellire. Il film vive sul contrasto tra i corpi sprezzati come immondizia, e il corpo di questo bambino santificato. Noi oggi siamo in un'epoca di corpi che esplodono, muoiono per uccidere, e questo film ci offre un corpo morto da santificare, cioè da far vivere in eterno. Il film è sull'urto tra l'odio razzista e l'amore paterno. Non abbiamo mai spinto lo sguardo così dentro l'orrore dove la strage si compie ininterrotta. La storia del film dura un giorno e una notte e un giorno, 36 ore, e in questo tempo i carichi di deportati che arrivano sono molti e imprevisti, come arrivano vanno sterminati, prima che capiscano qualcosa. L'aspetto più dis-umano dello Sterminio è la “normalità”, anzi la “serenità”, con cui i carnefici lo eseguono. Le SS sono scherzose, fanno complimenti sulla lingua ungherese, ammazzano con nonchalance, con divertimento. Così avveniva in Cambogia. In Rwanda. In Bosnia. Così avviene nel Daesh. Nel lavoro della morte o impazzisci o ti diverti. Qui le SS si divertono, come Jihadi John con il coltello alla gola del prigioniero. Divertendosi, passano al dileggio. Il protagonista Saul casca in mezzo a un gruppetto di SS, lo potrebbero ammazzare subito, invece accennano con lui a un duetto di danza. In una fabbrica si producono pezzi di ricambio, e pezzi, Stücke, plurale di Stück, sono i cadaveri prodotti nel mattatoio. Nel buio di questo Inferno si sente a tratti il Kaddish: contro i latrati di un'umanità di cani, la dolcezza di un canto divino.
 





Il giorno della memoria
di Renzo Montagnoli
 
Il 27 gennaio di ogni anno  è il giorno della memoria, ricorrenza introdotta dal nostro paese con una legge del 2000 in adesione a una proposta internazionale volta a ricordare le vittime del nazismo e del fascismo, con particolare riguardo a coloro che furono eliminati sistematicamente solo per il fatto di appartenere a una razza, oppure di avere un diverso credo religioso o un orientamelo sessuale particolare.
Infatti, nel corso della seconda guerra mondiale, ma anche negli anni immediatamente precedenti, la Germania adottò un piano volto a sopprimere ebrei, omosessuali, zingari, testimoni di Geova, Pentecostali, Untermenschen (cioè sottouomini, come venivano considerati i russi). Nel girone infernale rientrarono anche i disabili e i dissidenti politici.
Quante furono le vittime? E' difficile quantificarlo con esattezza, ma la stima è di circa 16 milioni di esseri umani uccisi con esecuzioni sommarie o periti per stenti. Di questi circa sei milioni furono ebrei, oggetto di persecuzioni anche in passato.
E' giusto ricordare perché un simile orrore non abbia più a ripetersi, ma secondo me non si possono tacere tutti quelli eliminati unicamente perché componenti di un'altra razza, e allora preferisco pensare che oggi vengano ricompresi anche il milione e trecentomila armeni che i turchi in vario modo soppressero, nonché i milioni di nativi americani uccisi dai conquistadores spagnoli e dai coloni degli Stati Uniti e del Canada, sempre dimenticati, ma erano genti che vivevano sulla loro terra, avevano tradizioni, delle civiltà che finirono per soccombere alle violenze degli invasori. 
La storia dell'uomo è purtroppo costellata da genocidi, fin dai suoi primordi, e il fatto che l'ultima grande strage sia accaduta non più di una settantina di anni fa lascia dei dubbi sull'evoluzione della specie.
Del resto, fino a quando ammetteremo le guerre per risolvere i contrasti, gli olocausti saranno sempre possibili, a riprova che l'uomo, a volte, riscopre in se stesso una bestialità non riscontrabile nemmeno fra gli animali.
Se oggi è un giorno della memoria, questa è corta per alcuni, individui che si affidano a un negazionismo farneticante per difendere il loro concetto aberrante di supremazia della razza. Non sono casi sporadici, anzi stanno diventando sempre più frequenti; questi signori, ma signori è un termine troppo rispettoso nei loro confronti, cercano il mito della superiorità per ovviare alla loro debolezza, per riscattare ai loro occhi le inesistenti qualità umane che li contraddistinguono.
Il razzismo serpeggia nell'ignoranza e purtroppo questa si sta espandendo in un mondo in cui gli interscambi sono sempre più frequenti; la paura del diverso poi viene abilmente giocata da governi per distogliere l'opinione pubblica dai veri problemi. E' come una calunnia che poco a poco fra presa sugli individui, alimentando nei più l'indifferenza e in altri la violenza, due miscele esplosive che, combinate, possono giustificare qualsiasi azione, anche la sistematica eliminazione di esseri umani.
Occorre quindi vigilare, non prestare facilmente ascolto a campagne più o meno larvate che inducono l'insorgenza di un concetto razziale, perché oggi può toccare ad altri, ma domani potrebbe toccare anche a noi di essere vittime di un genocidio.
 
 
 
 
P.S.:
 
L'immagine fotografica che segue è una scultura in materiale refrattario opera di Mara Faggioli e dedicata all'olocausto. Rappresenta uno dei tanti bimbi dei lager sottoposto alle crudeli sperimentazioni del famigerato Dr. Menghele. Chi era costui?
Così lo descrive Mara:
Il Dott. Josef Mengele fu certamente tra i peggiori criminali nazisti.
Ad Auschwitz effettuò atroci, orribili ed agghiaccianti esperimenti sui bambini, in particolare sui gemelli.
Prelevava, senza anestesia, parti di fegato o di altri organi vitali, praticava iniezioni di virus e trasfusioni incrociate, iniettava metilene blu negli occhi, al fine di mutarne il colore, ma l'unico risultato, dei suoi folli e insensati esperimenti, era quello di procurare la cecità dopo atroci e inutili sofferenze.
Ed altro ancora……..
Penso che si possa notare in quella posizione fetale tutto il dolore di un bimbo a cui è stata negata la vita così atrocemente.


 
 
A un bimbo del lager
di Renzo Montagnoli
 
Non più lamenti
né sofferenze.
Finalmente libero
da un mondo
senza futuro
ritorno a te,
mamma,
puri spiriti
nella pace
dell'eternità.
 
 
(Liberamente ispirata
alla scultura di Mara Faggioli)






La bambina di Pompei
di Primo Levi
 
 
Poiché l'angoscia di ciascuno è la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si è fatto nero.
Invano, perché l'aria volta in veleno
È filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l'orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d'Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta è stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull'altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d'assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.







La notte – Elie Wiesel – Giuntina – Pagg. 112 – ISBN  9788885943117 – Euro 10,00




Il messaggero per l’umanità




Sopravvissuto ad Auschwitz, nel 1986, una lunga vita già alle spalle, Wiesel ottenne il Premio Nobel per la Pace in virtù del grande sforzo umano che fece per superare l’annientamento-subìto come individuo durante l’esperienza concentrazionaria- trasformandolo in un intenso lavoro a favore della pace che riteneva essere non tanto un dono divino quanto una capacità umana di accoglienza. In occasione della celebrazione del giorno della memoria nel nostro Paese, nel 2010, al Parlamento italiano ha, tra le altre parole, lasciate impresse queste: “Mi hanno chiesto in un’intervista: quando andrà in cielo, quali saranno le parole che dirà a Dio? Io dirò un’unica parola: perché? Questa domanda non dobbiamo farla soltanto a Dio creatore, ma anche alle creature: perché Hitler e i suoi accoliti, nati nel cuore del cristianesimo, hanno fatto quello che hanno fatto? Perché volevano ad ogni costo distruggere l’ultimo ebreo sul pianeta? Oggi, riuniti per ricordare quel fatto, quell’avvenimento, che non ha precedenti nella storia, ci si potrebbe chiedere: ma perché la memoria? Perché riaprire vecchie ferite? Perché infliggere un tale dolore ai giovani? Per i morti è troppo tardi. Sì, ciò che è stato fatto non può essere annullato, neanche Dio può annullare ciò che è stato fatto. Tanta paura, dolore e tormento non possono essere dimenticati. Ma possono essere veramente ricordati? In che modo ? In che modo possiamo aprire i nostri cuori e le nostre anime al ricordo e, ancora, conoscere la speranza?”.
Non fu facile per Wiesel, internato da ragazzino e unico sopravvissuto della sua famiglia, tornare alla vita e testimoniare la sua esperienza, pubblicò “La notte” solo nel 1958 grazie alla pressione di Mauriac, riducendo un precedente lavoro apparso due anni prima a Buenos Aires. Si tratta di un volume di un centinaio di pagine appena, dedicate alla memoria dei suoi cari e portatrici di tutto l’orrore possibile, come letto purtroppo anche in altre testimonianze, con la particolarità legata al fatto che queste memorie si stamparono, indelebili e per sempre, dopo essere state esperienza viva prima e decodificazione poi operata da un ragazzo di appena quattordici anni. Come capire la notte che si apre e diventa infinita, la successione di cambiamenti che trasformano la vita in sopravvivenza, la morte che impèra ovunque, lasciate per sempre le iniziali illusioni che non permettono di stravolgere improvvisamente la sicurezza? Lo sguardo è ampio, coglie l’insieme, consegna i particolari. L’occhio del fanciullo si posa sulla donna che perde il senno, sul volto dei bambini che salgono poco dopo al cielo, trasformati in volute di fumo, gli orecchi registrano i pianti e le urla, l’olfatto rifugge l’orrore, l’ occhio indugia sui prigionieri che lavorano sotto il sole, scorge ciò che non dovrebbe vedere, si sofferma infine sul pianto degli impiccati: anche un suo coetaneo penzola, tarda a morire ma non ha pianto.

Come ricordare? Leggendo di un giovane ortodosso, dedito allo studio, desideroso di avvicinarsi a Dio, di un ragazzino che si scontra con il Male e perde il suo dio per canalizzare poi la sofferenza, da adulto, nella ricerca del bene in seno all’uomo, senza perdere la speranza. Il comitato norvegese per il Nobel lo chiamò “il messaggero per l’umanità”.

Siti





Roberta Pieraccioli
La Primavera (2015)
Euro 12 - Pag. 160
La Resistenza in cucina (2014)
Euro 12 - Pag. 175
Ouverture Edizioni - www.ouverturedizioni.it
 
Non ci potevano essere due libri più adatti per celebrare il giorno della memoria, entrambi firmati da Roberta Pieraccioli e pubblicati di Ouverture Edizioni. La Primavera è una raccolta di racconti sul filo della memoria tra Firenze e la Maremma, due luoghi geografici che rivestono grande importanza nella vita dell'autrice. La Resistenza in cucina racconta le ricette in tempo di guerra - buone anche nel periodo di crisi che stiamo vivendo - ma non è soltanto un originale ricettario di cucina povera in cinquanta pietanze, quanto un viaggio a ritroso nella nostra storia, tra mercato nero, autarchia e piccoli trucchi per mettere in tavola il poco che si riusciva a trovare. Due libri che raccontano in modo diverso il secondo conflitto mondiale, tra storie di povera gente e avventure quotidiane, fatti realmente accaduti e analisi del mondo dal punto di vista del popolo che si arrangia, resiste e sopravvive. Lo stile dei racconti è semplice ma letterario, ricorda le storie di guerra di Cassola e Flaiano, permeate di Bianciardi e Vittorini. L'autrice ha fatto buone letture e la sua scrittura ne risente in modo positivo. Le ricette sono insolite, precedute da una sorta di piccolo saggio sul modo di cucinare negli anni Quaranta e sulla necessità di far bastare le poche cose reperibili sul mercato. Frittata d'ortica, torta di pane, polpettine di borragine, bucce di baccelli lessate, fiori d'acacia fritti, farinata di castagne, sformati di piselli e ceci... ma anche frittate senza nulla a base di acqua (latte, nel migliore dei casi) e farina cucinate per merenda da nonne amorose. Roberta Pieraccioli dirige la Biblioteca e i Musei di Massa, ha pubblicato racconti con Paola Zannoner, in questo caso attinge ai ricordi culinari di nonna e madre, mentre dedica le storie alla memoria dei genitori, abili narratori di vicende del passato, alla cui fonte si è abbeverata. Quando si parla di libri utili per la memoria storica del nostro territorio, d'ora in avanti non potremo prescindere da questi due titoli.
 
Gordiano Lupi
 
www.infol.it/lupi








Per il giorno della memoria dell’anno 2019
di Renzo Montagnoli




In prossimità del giorno della memoria mi è venuta voglia di scrivere sul razzismo che, nonostante tutto, non solo serpeggia, anzi prende sempre più piede, ma già dai primi momenti sono cominciate a sorgere delle remore, la principale delle quali è questa: non sono bastati i milioni di morti dell’olocausto, perché purtroppo, nonostante la celebrazione annuale della ricorrenza, la discriminazione razziale va dilagando. Questo un po’ ovunque e non solo in Italia, ma, essendo cittadino di questo stato, tengo a guardare cosa accade nel mio paese e purtroppo devo ammettere che un po’ mi vergogno di essere italiano, un po’ mi vergogno per il fatto che quelle che un tempo consideravo delle semplici tendenze campanilistiche si sono dilatate e impregnano di odio una società già di per sé malata. Al di là della repulsione nei confronti di chi ha la pelle nera, cioè dell’immigrato che arriva con i barconi, c’è tutta una serie di atteggiamenti che non può che lasciare sbigottito un essere dotato di normale umanità. Certamente c’è una pesante responsabilità dei governi precedenti, che non hanno potuto, o non hanno voluto, spiegare agli italiani quale era e quale è l’effettiva situazione, complice anche il fatto che sugli immigrati ci hanno marciato non pochi. Ora però, con proclami di chiusure di porti, e amenità varie, si rischia davvero di istituzionalizzare una sorta di razzismo che affonda le sue radici nell’ignoranza di un popolo che lo vede ai primi posti al mondo in questa triste classifica, confermando che i nostri piazzamenti migliori non sono in ciò che va bene, ma in ciò che va male. Comprendo e concordo che ci deve essere una regolamentazione all’ingresso di disperati in Italia, ma o si fanno le cose serie e si varano norme ad hoc, tenendo soprattutto presente che per molti lavori di bassa forza snobbati dagli italiani gli extracomunitari sono una manna, oppure si continua così alla giornata, fra un proclama e l’altro, alimentando l’insicurezza che esiste soprattutto come percezione, a tutto vantaggio delle continue campagne elettorali. Peraltro, siamo uno strano popolo in cui ci sono degli scalmanati al Nord che danno addosso a quelli del sud, che contraccambiano volentieri, in un contesto generale in cui più che all’unione di un paese si tende alla sua disunione, e così il campanilismo diventa eccesso, come nel caso del calcio, ma quel che è peggio serpeggia una mania di cercare il disaccordo, in ambito politico perfino nello stesso partito e addirittura in seno alla famiglia.
Mi chiedo allora che senso abbia commemorare i milioni di caduti dell’olocausto, se a questo non corrisponde una reale volontà di superare le differenze, di cercare il meglio in ognuno di noi, e non il peggio, anche per una questione egoistica, perché questo continuo gioco al massacro ha come unica prospettiva il crollo del paese, lo sfacelo delle istituzioni, l’impoverimento di una popolazione che via via si va barbarizzando.



Primo Levi, dire l'indicibile

di Ferdinando Camon

 

 
"Avvenire", 1 aprile 2007
 
 
Primo Levi è morto di sabato, il martedì dopo m'è arrivata una sua lettera. Mi viede addosso una tristezza infinita e mi dico: "Ecco, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi". Mi aspetto la confessione che vivere gli è impossibile, che dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c'è spazio per le vittime dello Sterminio e per chi lo nega, che lui si uccide adesso ma doveva farlo quarant'anni prima, e che dunque le spiegazioni non vanno cercate in quel che succede adesso, ma in quel che era successo 45-40 anni prima. Questo m'aspetto, aprendo la lettera, che dev'essere stata l'ultima che ha scritto e imbucato. Se m'è arrivata al martedì, doveva averla imbucata il sabato: dunque durante la passeggiata che faceva ogni mattina. La apro: un inno alla vita, un vortice di programmi, speranze, attese, da riempire settimane, mesi e anni. In quei giorni stavo cercando di farlo tradurre in Francia da Gallimard: a Gallimard suggerivo ogni tanto dei libri italiani, l'editore li faceva leggere ai suoi consulenti, che erano tre, e ognuno emetteva un voto, che poteva essere 1 o 2 o 3. Se il libro otteneve tre 3, passava. Se otteneva due 2, era bocciato. Se otteneva due 3 e un 2, lo prendeva in mano l'editore in persona. Con mia enorme sorpresa, il libro di Levi, il suo capolavoro assoluto: "I sommersi e i salvati", non era passato. Da Parigi mi chiamava al telefono il direttore della Gallimard, Hector Bianciotti, grande scrittore argentino di origine italiana, ora membro dell'Académie Française, e mi diceva: "Ferdinando, non ci piace". Non potevo crederci. Chiamai il quotidiano "Libération" e concordai di scrivere un intero paginone, per spiegare ai francesi perché dovevano tradurre Primo Levi. E' in questo frattempo che Levi muore. Nella sua ultima lettera, mi chiede se Gallimard vuole un'altra copia de "I sommersi e i salvati", mi chiede una copia di "Libération" quando esce l'articolo che lo presenta ai francesi, si mette a disposizione per tutto quel che può servire. L'articolo è uscito due giorni dopo la morte di Levi, e da quel momento il destino delle sue opere in Francia ha avuto un andamento grottesco: chiama la Gallimard, m'informa che l'editore Albin Michel ha preso "I sommersi e i salvati", anche loro vogliono "I sommersi e i salvati", gli farei un piacere se avvertissi la signora Levi, Lucia. Dopo una settimana richiamano: Albin Michel prende tre libri, anche loro prendono quei tre libri. Una settimana dopo sono a Brescia, sto tenendo una conferenza alla libreria Ulisse, chiamano per dirmi che loro "sono disposti a prendere di Primo Levi tutti i libri che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di nessun altro". Non è finita. Albin Michel protesta: "Lo avevate rifiutato, io l'ho preso, perché mi ostacolate?". Per chiudere la faccenda, mi chiedono una fotocopia della lettera di Primo Levi: quella è la prova che Primo Levi voleva Gallimard. E così la faccenda s'è chiusa. Primo Levi rifiutato in Francia è la ripetizione di Primo Levi rifiutato in Italia. "Se questo è un uomo" era stato letto, nella casa Einaudi, da Natalia Ginzburg, e respinto. Quando Levi morì, Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così: "E' morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale". Come possono due editori importantissimi non capire opere che varranno fino al Giudizio Universale compreso? La risposta che mi viene è che c'è "troppo", in quelle opere. Questa risposta è legata a mia valutazione di Primo Levi scrittore, che è la seguente: Primo Levi ha vissuto la massima colpa della storia, non al grado massimo in cui la colpa fu commessa, ma al grado massimo in cui poteva essere raccontata. Levi era un chimico. Un chimico studia le reazioni nel contatto tra elemento ed elemento. Levi ha osservato e descritto le reazioni nel contatto tra l'uomo più potente e il più debole. Il primo fa della propria volontà la legge della storia. La volontà "propria" è propria del popolo ma anche del singolo individuo dentro il popolo. Se il potente uccide, il delitto è giusto perché il potente lo vuole. Questo sistema è riassunto nell'incontro fra Levi e il dott. Pannwitz. Il dottore sta esaminando Levi, è proprio un esame di Chimica. A un certo punto alza gli occhi e lo guarda. Anche Levi lo guarda. Levi cerca di capire il proprio pensiero e il pensiero dell'altro. L'altro pensa: "Questo essere davanti a me merita certamente di morire. Ma prima vediamo se contiene qualcosa di utile". Nel proprio cervello, Levi sente formarsi questo pensiero: "Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono intimamente malvagi". (Cito a memoria, con possibili imprecisioni). Levi doveva rendere quel che di utile conteneva, e morire. Non doveva né sopravvivere né scrivere. Nella sua sopravvivenza e nella sua scrittura c'è stato un doppio fallimento del sistema Lager. Il sistema Lager non ha agito su Levi con tutta la sua forza. Perché Levi era un chimico, perché ha imparato il tedesco, perché non si è mai ammalato, e perché ha avuto la fortuna di ammalarsi negli ultimi giorni, evitando la marcia della morte, l'evacuazione dal Lager (raccontata da Elie Wiesel). Claude Lanzmann ha incontrato superstiti del lager che hanno sofferto di più, sono stati torturati o hanno lavorato ai forni. Davanti alla macchina da presa, si torcono, piangono, o svengono. Dicono qualche parola, non di più. Hanno passato il limite del dicibile. Levi è arrivato a quel limite. Forse non lo ha retto, e questo potrebbe spiegare la sua morte. Sono andato a trovarlo più volte, e ho raccolto in un librino i nostri dialoghi. Nell'ultima risposta dice: "C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio". Era una negazione drastica dell'esistenza di Dio. Quando gli ho mandato il testo per le correzioni, ha aggiunto, a matita: "Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo". Era una riapertura: non c'è, lo cerco, non lo trovo, lo cerco ancora. Rigirandomi la sua ultima lettera fra le mani, mi dicevo: Spero che l'abbia trovato.
 
 






Shemà (*)
di Primo Levi




Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza piu forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.


(*) In ebraico: ascolta






Smemorati
di Enzo Maria Tempesta
 
 
 
Il 27 gennaio è stato
il giorno della memoria.
Che è?
Ecco,
ve ne siete già dimenticati
questo è un paese di smemorati.
Eppure è stato solo ieri
che s'è parlato della Shoah
di quel massacro d'innocenti
da far vacillare le menti.
Eh, italiani brava gente
ma di memoria proprio niente
Prendiamo a caso un fatto:
il 26 aprile del ‘45
tutti, proprio tutti,
dai tracotanti federali
agli indomiti avanguardisti
di colpo divennero antifascisti.
E quegli otto milioni di baionette?
Spuntate, arrugginite,
alla svelta cedute al ferrivecchi.
Ma anche di quel 26 aprile
venne meno la memoria
e così l'infausto fascismo
ritornò alla luce
risedette sui romani scanni.
Or siamo vicino alle elezioni
e c'è un tale che ci ritenta
un contaballe d.o.c.
che trova sempre smemorati
pronti ad affidar la loro sorte.
Eh sì, lo diceva anche mio nonno
- con l'età mi cala la memoria –
si vede che questo è un paese di vecchietti
che va avanti a viagra e gerovital
ma che dimentica il provvidenziale fosforo
che dà vigore alle meningi.
Già, è proprio così,
ma per prenderlo occorre
un po' di cervello
e quello sembra cosa rara,
certa roba d'un tempo assai lontano,
di cui, guarda caso,
non c'è più memoria.