giovedì 12 novembre 2015

La nebbia è solo grigia, di Corrado S. Magro

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La nebbia è solo grigia
di Corrado S. Magro



Un panorama che spaziava fino alle ultime creste delle colline che si affacciano sul mare. Al di là, le acque del profondo Ionio, accarezzate dai primi raggi solari sciabordavano contro le sabbie dorate delle rive. A destra il declivio con il cielo limpido lasciava scorgere la fetta che nel blu taglia per sé lIsola delle Correnti.
Sorvolava mentalmente la costa incorniciata dai lidi che si susseguono. Immerso nello spazio, navigava con il giardino terrazzato, un angolo di Eden adornato di siepi, gelsomini, e fiori da chi gli aveva dedicato una vita fino a quando avanti negli anni, a malincuore, decideva di separarsene.
Addii che si ripetono nel quotidiano, pietre miliari del divenire, addii che nella notte serena, a intervalli regolari, analoghi a quelli del verso del gufo che apre e richiude le palpebre, erano timidamente sfiorati dal lampeggio del faro di Capo Passero.

Varcato il cancello scese dalla vettura.
Rimase un attimo a osservare, poi girò lo sguardo su di lei che restava mansueta, le cinture allacciate, quasi volesse continuare verso unaltra meta.
Era andato al suo incontro allaeroporto e durante il tragitto gli aveva chiesto dove avrebbero trascorso le prossime settimane. Inutile precisare luoghi e dintorni. Non ricordava, le erano estranei.
«Siamo arrivati. Puoi scendere,» lo guardò incredula, smarrita. «Ti piace?»
Non rispose. Poi dopo una lunga pausa:
«È qui?… Dove mi porti?»
«Staremo bene. Vedrai. Ecco Maria e Paolo.»
I vecchi proprietari li attendevano contenti di vederli arrivare. Da una vita li univa una lunga amicizia mai soggetta a screzi.
Sorrise più per forma che per convinzione. Senza considerarli estranei, faticò a porli nella giusta luce.
Chi, cosa era per lui quella bella signora che lo abbracciava, e chi l’altro? Perché si conoscevano?
Laiutò discretamente introducendo nei convenevoli nomi di parenti comuni che poteva ricordare. Arrivato da alcuni giorni aveva disfatto le valigie e preparato la stanza che li accoglieva. Forse avrebbe dovuto aspettare, facendola partecipare. Era la domanda che si poneva ogni volta quando faceva qualcosa che riguardava anche lei.
Una domanda che sorgeva dai lunghi anni vissuti insieme senza passione sì, ma nel pieno rispetto, il rispetto verso il prossimo, consolidato dalla fragilità e incertezza del presente e del futuro che lattendeva.

Seduto rilassato in una comoda poltrona in un ambiente quasi ovattato; pigro, inoperoso, un angolo ancora tutto suo. Tosse e raffreddore lo tenevano in ostaggio. Osservava il platano che, attraverso le lamelle ad angolo degli avvolgibili, si rispecchiava nei vetri dell’armadio. Foglie e rami erano scossi dalla brezza. Fra poco sarebbe rimasto nudo, il suolo coperto di giallo avvizzito. Era autunno. Sarebbero rimasti alcuni fiori superstiti che dondolandosi al lungo peduncolo, avrebbero resistito alle intemperie. Chi andava si proteggeva, l’aria divenuta improvvisamente più rigida. Lui ripercorreva le settimane trascorse al sud. Nell’isola, il torrido la faceva da padrone.

Aveva rinunciato a dividere il letto con lei. La notte aveva il respiro pesante e lei ipersensibile ai rumori, era emigrata sul sofà di un vano adiacente. Quando se ne rese conto prese il suo posto. Decise in futuro di passare là le cinque, sei ore di sonno che si concedeva, nonostante fosse scomodo, tanto da attendere con impazienza l’ondata di luce dell’alba. Bisognava schermare con tende e tendine un sole pieno di forza. Ogni tanto nella penombra della notte la scorgeva in giro. Vagava in cerca di qualcosa, toccava un mobile, sfiorava un angolo:
«Cosa cerchi? Che ti serve?»
O non rispondeva o diceva: “nulla”, e poco dopo se ne ritornava a letto.
I vecchi proprietari erano rimasti il tempo necessario per introdurlo, spiegargli i circuiti d’irrigazione, mostrargli dove stavano attrezzi e suppellettili che lasciavano in dotazione sul posto. Durante la loro breve presenza era Maria che si adoperava a pulire, mettere ordine, cucinare. Partiti, il compito fu suo. Si rese conto che non avrebbe avuto nessun contributo.

Non era entusiasta ma si adattava senza grosse rimostranze di andare alla spiaggia libera. Importante era il mare, la sabbia presente nei decenni che li avevano visti trascorrere le vacanze negli stessi luoghi. Eppure una volta a chi le chiedeva se si recasse al lido Desiré aveva risposto:
«Ricordi e tempi ormai lontani,» quasi a dire “devo adattarmi a chi decide per me”. Ne fu scosso, ma il posto sotto l’ombrellone con lettini e sdraio già pronti era semplicemente un miraggio.
Al mare lei sarebbe rimasta notte e giorno sulla spiaggia. In costume da bagno, longilinea, un insieme di ossa, articolazioni e giunture pronunciate, scheletriche. Fumava tanto e nonostante ciò, raro un mal di testa o un raffreddore, solo una tosse rauca.Spesso aggressiva nei suoi confronti, forse un’autodifesa, un sussulto del subcosciente.


«Sono le undici e un quarto. Fra una buona mezz’ora ci avviamo, così potrò preparare per mezzogiorno.»
«Posso andare ancora una volta in acqua?»
«Non restarci molto.»
Spense il mozzicone nella sabbia e si avviò. Seduto sotto l’ombrellone la vedeva nello specchio di mare antistante. Nell’attesa forse chiuse le palpebre o si distrasse. Quando tornò ad osservare era sparita. Non si preoccupò. Non era ancora il momento di andare. Mezz’ora dopo non spuntava. Si mise alla ricerca lungo quasi un chilometro di battigia affollatissima. Era passata un’ora e ancora nulla. Preoccupato si recò dagli addetti al salvataggio. I ragazzi spinsero in mare il catamarano perlustrando le acque antistanti. Ritornarono senz’alcun risultato. Con la sabbia che scottava sotto i piedi, il timore del peggio faceva capolino. Prima ancora di prendere ulteriori decisioni, assieme ad altri che si prestarono a dargli una mano, continuarono a cercare. Nulla. Quasi due ore dopo, trafelato, lo raggiunse uno dei bagnini:
«L’abbiamo trovata.»
«Dove?» fece con un sospiro di sollievo.
«Più avanti. Nell’altra direzione… ma lei si sente male? È pallido come la morte. Vuole un sorso d’acqua?»
«Grazie, va.»
Quando la raggiunse, lieto di vederla, non le fece alcuna osservazione. Le chiese solo con un tono di voce il più normale che mascherava il suo stato d’animo:
«Dove sei stata?»
«Non lo so, perché?»
«Dai andiamo,» e raccolse le suppellettili avviandosi.
A che sarebbe servito farla partecipe di qualcosa che per lei non era mai stato? Forse era andata al Desiré.

Il mattino quando il sole iniziava ad accarezzare a Est le creste delle colline lui andava nell’orto. Dissodava, vangava, irrigava e raccoglieva legumi buoni da cucinare. Smetteva quando non era più in grado di arginare il sudore.
«Vieni a vedere quante cose ci stanno. C’è anche della frutta.»
«No. Che programma abbiamo oggi?»
Domanda assillante, ossessiva, che ripetuta un numero imprecisato di volte accompagnava ogni nuovo giorno.
«Nessun programma. Viviamo la giornata.»
Non l’accettava e ritornava alla carica:
«Più tardi andremo al mare.»
«Ah!»
Pochi minuti e la richiesta del “programma” si rifaceva viva  provocando una reazione, una risposta forse fuori misura che poi lo metteva a disagio. Cucinava, puliva, lavava, si occupava di tutto, teneva i rapporti con parenti e conoscenti, preparava l’arrivo dei familiari che presto li avrebbero raggiunti. Il proposito di darsi alla lettura dei libri portati con sé, l’aveva dovuto accantonare. Cosa avrebbe dovuto ancora programmare? Ma poteva fargliene una colpa?
«Vita di merda! Voglio tornarmene a casa o andare a Farfaglia,» là dove i parenti di lui avevano la masseria.
«Cambio il biglietto aereo e ritorni.»
Non rispondeva. Si rendeva ancora conto che sarebbe stata sola e non ce l’avrebbe fatta. Una volta, mentre si apprestavamo a recarsi in macchina da chi li aveva invitati, dopo la sua ennesima invettiva contro la vita che la obbligava a condurre, lui uscì dai gangheri:
«Vattene! E subito!» le ordinò con voce alterata.
Non rispose nemmeno ora. Chinò il capo, si richiuse in sé e lui si sentì male.

Alcuni mesi prima, alla clinica, facevano il punto della situazione. Una neurologa pane, burro e marmellata, alla sua suggestione di provare un metodo diverso di allenamento cerebrale, non solo contrapponeva un netto rifiuto ma le raccomandava di resistere, di non farsi mettere sotto pressione. Si pronunciava così su qualcosa di assodato per i risultati ottenuti, solo perché non lo conosceva ed era un “povero ignorante” a proporlo. Lei recepì stranamente bene il messaggio, assumendo anche per il resto un comportamento di rifiuto assoluto, che già in passato accettava di adattare sotto l’evidenza dei fatti. Solo lo sviluppo della patologia: l’insicurezza, sarebbe stata in grado di renderla più malleabile, condiscendente, forse perché incapace di una reazione.

Farfaglia era il punto di riferimento e polo di attrazione, sebbene ai tempi privo delle comodità del posto che ora li ospitava. Perché? Semplice. Nei suoi ricordi si affollavano le immagini di decenni ormai lontani. I ragazzi ancora piccoli o adolescenti, il fratello di lui gli metteva a disposizione un’ala tutta per loro. Ricordi che anche lui guardava e riesumava con piacere, ma impossibile a riviverli, condizioni ormai cambiate, posti occupati dalle nuove leve. C’erano stalle e animali, e i cani che spesso di notte non smettevano di latrare facendola brontolare: un passato bucolico in un ambiente che i figli durante le vacanze assaporavano.
Fu costretto ad accontentarla e due volte su tre, se non tutte le sere, sedevano alla tavola che la nipote, lavorando dalla mattina alla sera sempre di corsa, occupandosi dei genitori anziani e con uno stato di salute precaria, apparecchiava con arte per i tanti commensali.

La ultra ottantenne moglie del fratello affetta da demenza:
«Non si vedono più mosche.»
«Beh ma queste cosa sono?»
«Sì ma non come negli anni passati.»
«Ah!» faceva lui.
«Gli uccelli sono spariti.»
«Non fa più caldo come una volta,» eppure si crepava.
Sedute accanto, le due donne rivangavano un trascorso rimesso a nuovo, travisato. Spesso la nipote dava loro qualcosa da fare: pulire i legumi, preparare un’insalata.
Occupate e continuando a lagnarsi passavano il tempo, e lei per un po’ si sentiva nuovamente in vacanza.

Abitavano il villino da diverse settimane. Presto sarebbe arrivato uno dei figli con moglie e suoceri.
«Da dove viene nostro figlio»
A lui mancò quasi la parola:
«… abita poco distante da noi.»
Poi guardandosi attorno, confusa:
«Ma dove dormiranno? Non c’è posto. Ci tocca partire.»
«Ma no! La casa è su due piani. Vieni su…» salirono la scaletta interna a chiocciola, «…vedi ci sono due grandi stanze da letto, una l’abbiamo occupato per una settimana. Guarda, sono più belle dell’angolo che giù ci ospita, anzi sono lussuose, e godono di un piccolo soggiorno con una veranda stupenda.»
La confusione che rasentava il panico si riaffacciava il giorno dopo o quando il discorso cadeva sul figlio.

«Quando veniamo dal mare, per favore prima di entrare sciacquiamoci e allontaniamo la sabbia dai piedi.»
Non c’era verso. Doveva impedirle d’impossessarsi delle chiavi di casa e anche allora:
«Posso prendere dentro le pantofole prima di andare sotto il rubinetto?»
Qualcuno le chiese se fosse andata nell’orto.
«L’orto? No. Dov’è?»
Viveva nel terrore di rimanere sola e rifiutava che lui avesse da fare qualcosa fuori dalle pareti dei vani che abitavano, c’era il pericolo che non sarebbe più tornato. Lontano dalle sue orecchie in un momento forse meno fosco confidava ad alcuni parenti:
«Speriamo che possa morire prima di lui.»

A casa, al mattino da poco fuori dal letto, spesso gli chiede con apprensione:
«Stai uscendo? Dove stai per andare?»
Cerca nel calendario murale dove annota appuntamenti e date:
«Che giorno è oggi?»
«Che programma abbiamo?»
Si allontana verso la stanza dove sta il suo computer. Gli stessi giochi la occupano. La TV accanto, che rifiutava di guardare perché non esisteva nel passato trascorso nell’isola, sciorina immagini e notizie senza pausa. Lei ascolta, ma forse non vi presta attenzione. Ogni tanto riempie qualche casella dei cruciverba con i termini ripetitivi che ancora ricorda, fuma accompagnandosi con una tazza di caffè, si alza e domanda:
«Cosa devo fare?»
Se non ha nulla di convenevole sotto mano, allora lei va, lo sguardo vuoto, vaga in un mondo di figure fluttuanti, amorfe, avvolte dalla nebbia di un tunnel senza sbocco. Alzheimer!


L’ultima poesia, di Renzo Montagnoli

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L’ultima poesia
di
Renzo Montagnoli


Quanto aveva scritto, una miriade di versi, un’impressionante continuo scavo dentro se stesso alla ricerca di un confine che mai aveva trovato, ora gli sembrava solo un lontano ricordo, un susseguirsi di parole che si incrociavano, si scontravano, si perdevano a brandelli nella mente.
Era un poeta, era uno di quelli che si erano illusi nel corso dell’esistenza di aver trovato il modo di comunicare, attraverso gli altri, con il proprio io, forse era solo un presuntuoso, o magari solo un illuso che aveva creduto di dare un senso ai giorni che passavano attraverso una ricerca interiore per giungere a capire il  significato di ogni cosa. Tante domande di cui aveva creduto di trovare la risposta si erano rivelate solo l’inizio di una lunga e interminabile serie di quesiti irrisolti e ora che il tempo sembrava scandire le ultime ore, si chiedeva, quasi con angoscia, il perché di tanto affannarsi senza giungere a una conclusione.
Forse è un destino dell’uomo correre dietro ai miraggi della mente, forse è un riaffermare la supremazia, pretesa, ma tutt’altro che realizzabile, del singolo sul proprio destino.
Una volta, in un convegno a cui aveva partecipato con altri letterati, poeti, scrittori, filosofi affermati, uno  dei presenti gli aveva chiesto se la poesia era il mezzo o il fine.
L’aveva guardato in volto, stupito, come se all’improvviso quella domanda fosse la risposta a tante altre ancora lì in sospeso, in attesa probabilmente vana di una soluzione.
Lui era rimasto attonito, poi aveva risposto che era l’uno e l’altro, un giudizio salomonico, anche se in realtà pensava fosse il mezzo per arrivare al fine. Nulla in effetti si svelava in quei versi che sembravano un treno che corre diritto verso la meta, quel limite estremo a cui pareva di essere prossimi ad ogni passo e ad ogni passo sempre più si allontanava.
Teorie, ipotesi, aveva concluso, ma per la prima volta si era incrinato qualcosa in lui, aveva compreso che la corsa ormai era senza fine.
Aveva continuato a scrivere, ma con un entusiasmo diverso, più attenuato, consapevole ormai di questo limite del tutto invalicabile, se pur contento ogni volta di scoprire qualche cosa di nuovo, poco, rispetto ai propositi iniziali, ma sempre gratificante come può esserlo anche una piccola conquista.
Poi, in seguito, quando ancora stava abbastanza bene, aveva rilasciato un’intervista a un giovane di belle speranze, uno di quelli che stavano iniziando a percorrere la lunga strada della ricerca e che per sostenerla e sopportarla aveva accettato dal suo editore  l’incarico di saperne di più sul pensiero di un grande vecchio che ormai da tempo non aveva più nulla da dire e che invano si sforzava di abbattere quel muro di confine a cui era giunto dopo anni di lavoro.
Il vecchio poeta aveva risposto con sincerità, anche perché nel ben più giovane collega aveva rivisto se stesso agli albori, ai primi successi, in quel tempo in cui  ancora credeva che nulla gli sarebbe stato impossibile.
Prima dell’intervista aveva pensato che avrebbe fatto un piacere a una persona non conosciuta e che quindi la sua partecipazione sarebbe stata asettica, ma presto si accorse che in questo modo ripercorreva tutta la sua vita, riprovando anche le emozioni che sempre si univano ai suoi versi e questo lo stimolava a essere del tutto sincero, quasi che le sue parole fossero quelle di una confessione.
Ogni domanda era una ricerca del suo passato, ogni risposta era svelarsi a sé e agli altri. 
Fra l’altro, gli era stato chiesto, quale fosse la sua poesia più bella.
Aveva riflettuto un paio di minuti, forse anche di più, perché in fin dei conti tutta la sua notevole produzione lo soddisfaceva, ma al tempo stesso lo riportava a quei limiti alla cui consapevolezza era giunto un po’ avanti negli anni, e poi aveva risposto che sarebbe stata l’ultima e nel dirlo si era sovvenuto di quell’Anima vagula blandula che il grande imperatore Adriano aveva creato nell’ultimo giorno di vita.
Si era immaginato Adriano disteso sul letto, ormai certo dell’imminente fine, intento a dettare al suo scriba quei versi di malinconico e dolce commiato, l’ultimo messaggio all’umanità e a se stesso, una struggente parentesi di astratta realtà nella cruda realtà di un corpo che s’apprestava a terminare il suo percorso in terra.
Sì, doveva essere bello scrivere un’ultima poesia, un commiato definitivo da sé e dagli altri, ma per quanto l’idea fosse accattivante mancava del presupposto essenziale: la solitudine assoluta, quella che non aveva mai provato e che era mancata anche ad Adriano in quel frangente.
Là c’era lo scriba, lui con voce affannata doveva dettare, magari intorno s’affannavano i medici. No, quella non poteva essere l’ultima, la perfezione assoluta, la conclusione in apoteosi di un artista.
La solitudine è indispensabile per giungere agli estremi confini che sono in noi, perché è solo nell’assenza di rumori, di stimoli indiretti, di certezze che ci accompagnano mentre si esperisce il tentativo e che ritroveremo anche dopo, che il dialogo con l’io può trascendere il normale discorrere, gli influssi di esperienza, le radicate teorie dei grandi pensatori.
E ora che la salute era un lontano ricordo e che, nonostante l’affannarsi dei medici intorno a lui, era giunto all’ultima pagina del libro del destino, non aveva né idee, né desiderio di scrivere o dettare un’ultima poesia.
Il dolore fisico ormai era passato e il commiato aveva tutta l’aria d’essere prossimo; già non vedeva nulla intorno a sé, come non udiva il minimo rumore, e nemmeno più avvertiva la mano di sua figlia sulla sua, anzi neppure pensava di avere una mano.
Provava una strana sensazione, come se la mente forzasse le mura che la racchiudevano per fuggire chissà dove e di lì a poco nel buio più assoluto avvertì chiaro che la diga del pensiero s’incrinava, prima una crepa, poi due e infine in uno squarcio sconfinato versi confusi, volti sfocati, memorie che uscivano impetuose, precipitavano come un torrente magmatico in una forra senza fondo, fra lampi di luce che nulla riuscivano a sottrarre al buio intenso che tutto avvolgeva. E come la sua mente anche lui si sentiva cadere in un volo che sembrava non aver fine, ma giù in fondo si cominciava a scorgere una luce, anzi più d’una, una serie di bagliori gialli, verdi, blu, rossi, uno spettacolo pirotecnico che l’attraeva e l’intimoriva. 
Da quanto era in caduta? Da poco o da tanto, da sempre era quel che gli pareva. D’una cosa sola era certo, che il confine l’aveva superato.
I bagliori si riunirono a formare la corolla di un fiore sconosciuto e come un ape se ne sentiva attratto, desiderava raggiungerlo con tutte le poche forze che gli restavano. Ecco, ormai era vicino, già riusciva a distinguere l’interno del calice quando questo si aprì in un cielo azzurro sconfinato, in un mare di onde invitanti, in un flusso continuo di suoni che gli parvero lontani vagiti. Ombre, striature di nubi che evocavano immagini già conosciute, un sole immenso senza calore, rivoli di pioggia che cadevano saltellando fra speroni di roccia che scendevano da quel cielo, e una musica lontana, una strana armonia di voci confuse, molte conosciute nel corso della vita, un concerto di strumenti a fiato e a corde, note limpide come ora lo era anche la sua anima,  una visione di pace in un mondo in cui s’apprestava ad entrare.
E quel che vedeva era poesia, la sua ultima poesia, l’addio al mondo dei versi, scritta solo per lui, unica, immensamente bella, che nessuno avrebbe mai letto, ma lui ora finalmente sapeva cosa c’era oltre il confine.
Un imprevedibile sorriso animò i suoi occhi prima che si chiudessero per sempre. 




Il maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia, di Matteo Collura



Il maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia – Matteo Collura – TEA – Pagg. 390 – ISBN 9788878187658 - € 9,00

Nanà

La narrazione della vita di Leonardo Sciascia ad opera di Matteo Collura è un fedele ritratto del maestro di Regalpetra, è insieme affettuoso ricordo e prezioso lavoro. Scrivere di questo autore non è facile, farlo rispettandolo, ancora meno. La sceltadiCollura è quella vincente, di Sciascia parla attraverso le sue opere e tutti i suoi scritti unendo ad essi testimonianze di prima mano. Il risultato è allora una godibilissima biografia che offre il ritratto dell’ uomo e con esso e in esso  quello del letterato.
In Sciascia è preponderante la dimensione umana, la velleità del letterato non gli appartiene né gli appartengono i narcisismi che ne potrebbero derivare. Matteo Collura ci restituisce Nanà, presentandolo da morto per poi immergerci a ritroso, come in una sorta di redenzione, nel suo viaggio della vita.
20 novembre 1989 - 8 gennaio 1921
Scendiamo fino a Racalmuto ed entriamo nella Sicilia della polvere e delle zolfare. Percorriamo un’esistenza dall’era fascista allo sfascio totale degli anni ’80,  passando per una repubblica dilaniata e depredata ma ancora madre di uomini generosi il cui destino atroce fu, in coda a tanti prima, segnato negli anni ’90.

Il lavoro è onesto, dice infatti Collura: “Sciascia non è un uomo da santificare. È un uomo, uno scrittore col quale bisognerà sempre fare i conti quando si affonderanno i passaggi  più oscuri e inquietanti di trent’anni di vita italiana”.
Il libro pare vivere di un’interna dicotomia, giunto alla narrazione di Sciascia scrittore famoso, Collura decide di raccontare il resto dell’esistenza dell’autore focalizzando l’attenzione sulle “inquietudini”, sulle “tragedie”, sui “drammi esterni”. Lo scrittore diventa personaggio e mentre prosegue nella sua generosa produzione, intesse fitte relazioni che parrebbero ingabbiarlo in un entourage di sinistra ma che in realtà gli offriranno l’ennesima occasione per superare schieramenti e categorie a vantaggio di una spiccata onestà intellettuale. Salteranno grandi amicizie: Calvino e Guttuso, le perdite più sentite.
La politica attiva, la più difficile delle carte da giocare, complica il suo percorso verso la verità, lui che definiva la “complicazione” “la forma moderna della stupidità” e che vedeva in essa  la “malafede”.
La storia dell’Italia, quella più triste, costella il resto della sua esistenza: Moro, dalla Chiesa, Tobagi, la nascita del pool antimafia. Tutto gli si rivolta contro: i suoi scritti, le sue presunte veggenze, i suoi candidi ammonimenti. La biografia però regala in parallelo l’universo culturale che lo circonda o meglio di cui si circonda: incontriamo Fellini, Borges, andiamo in Spagna e a Parigi – viaggiamo lenti, in treno - , difendiamo Tortora e ci chiariamo con Borsellino.
Andiamo pure incontro alla morte, a testa alta consapevoli che non ci appartiene più ma preoccupati per il futuro di chi rimane. Abbiamo nel frattempo gustato una presentazione di tutti i suoi scritti, ritrovandoci o chiarendoci le idee su quelli già letti e pregustando il piacere che deriverà dalla conoscenza dei tanti, per fortuna, che ancora ignoriamo. Saremo sicuri che l’opera di Collura ci affiancherà come una insostituibile guida al momento giusto.
Sciascia è onestà e coraggio, verità e sconvenienza, umano sentire e lucida analisi. Per questo lo ammiro, per questo lo leggo.

Siti


Un sicario alla corte dei Gonzaga, di Tiziana Silvestrin



Un sicario alla corte dei Gonzaga

di Tiziana Silvestrin

Scrittura & Scritture Edizioni

Narrativa romanzo giallo
Pagg. 320
ISBN 9788889682722

Prezzo € 14,50




Un trittico riuscito



E così, dopo aver letto I leoni d’Europa e Le righe nere della vendetta, mi sono dedicato all’ultimo dei tre romanzi fino ad ora pubblicati, Un sicario alla corte dei Gonzaga, stesso protagonista il capitano di giustizia Biagio Dell’Orso, medesima epoca (il XVI secolo) e identica ambientazione nella Mantova ducale di quello che fu probabilmente il più famoso della dinastia, Vincenzo. L’intreccio giallo non fa una piega, con un misterioso sicario che attenta più volte alla vita del duca, sempre scampato miracolosamente, ma in vece sua sono perite altre persone. L’indagine si presenta particolarmente difficile, perché mancano sia l’identità dell’assassino, sia quella del mandante e di conseguenza Biagio Dell’Orso annaspa nel buio, anche perché il sicario, se fallisce nel suo incarico, non lascia altre tracce, se non il veleno a cui è ricorso e, in un’occasione, la prima, quando perde, nello scassinare una porta, uno zaffiro che, insieme ad altre pietre grezze, tempestava l’elsa di un pugnale utilizzato nell’occasione come un grimaldello.  Se la caccia allo sconosciuto assassino si presenta di estrema difficoltà, ancor più arduo è determinare il mandante, perché, come tutti i signori dell’epoca, il duca Vincenzo ha più di un nemico. Che siano i Turchi contro i quali si appresta a battersi in Ungheria a difesa della Cristianità, e soprattutto dell’Impero? Che si tratti di Ferruccio Farnese, la cui sorella è rinchiusa in un convento a Parma dopo l’annullamento del matrimonio con Vincenzo, per l’impossibilità di lei di poter congiungersi con il marito e quindi di procreare? Che c’entrino i Medici e soprattutto Bianca Capello, cortigiana veneziana, poi amante di Cosimo e infine diventata sua moglie, sul conto della quale i Gonzaga avevano non poco spettegolato? Insomma, di possibili interessati alla morte del Duca ce ne sono diversi, ognuno dei quali per ragioni le più disparate. Come venirne a capo? Non intendo svelare altro, perché la trama avvincente e incalzante di questo giallo storico, che vede di volta in volta la sua ambientazione a Mantova, a Parma, a Venezia, a Praga e a Vienna è una di quelle che invitano a scorrere velocemente le pagine, ansiosi di arrivare alla soluzione, che puntuale troviamo alla fine, logica in tutti i suoi aspetti.  Certo c’è il rischio che, a lasciarsi prendere dalla smania di sapere chi siano il colpevole e il mandante, non ci si soffermi sullo stile fluido dell’autrice, sulle descrizioni essenziali e in funzione dello scopo, su aspetti che possono apparire secondari, ma che contribuiscono non poco alla gradevolezza dell’opera. Mi riferisco ai colloqui, mai banali, fra il consigliere ducale Marcello Donati e Biagio dell’Orso, alla storia d’amore fra quest’ultimo e la bella veneziana Rosa, che ci si augura di vedere finalmente sotto lo stesso tetto non saltuariamente, all’atmosfera della piccola città cinta dai laghi che quasi miracolosamente si svela ai nostri occhi negli scorci più suggestivi, nella variopinta folla che ogni giorno vi vive.
Tiziana Silvestrin è veramente brava e sono certo che meriterebbe un consenso assai superiore a quello attuale, peraltro non marginale. Mi chiedo se stia procedendo a scriverne un quarto; è un sospetto e una speranza, visto che il libro si chiude con una frase che Donati dice a Dell’Orso: “C’è qualcosa che devi vedere, qualcosa …dispaventoso.”. Insomma, per quanto ovvio, anche il lettore brama vedere cosa ci sia di così spaventoso, una frase che se non è una certezza di un seguito, lascia però ben sperare.  Al riguardo, e la notizia è recentissima, Tiziana Silvestrin mi ha confermato che fra non molto uscirà un quarto romanzo, con il bravo capitano di giustizia impegnato in un’altra difficile indagine.
Nell’attesa, la lettura di Un sicario alla corte dei Gonzaga è più che consigliata, anzi è vivamente raccomandata.

Tiziana Silvestrin ha scritto i seguenti romanzi, tutti pubblicati da Scrittura & Scritture Edizioni: I leoni d’Europa (2009), Le righe nere della vendetta (2011), Un sicario alla corte dei Gonzaga (2014).



Intervista di Renzo Montagnoli alla narratrice TizianaSilvestrin, autore dei romanzi I leoni d’Europa, Le righe nere della vendetta e Un sicario alla corte dei Gonzaga, tutti editi da Scrittura & Scritture



Tiziana Silvestrin è una narratrice mantovana che ha scritto tre riusciti romanzi ambientati nel XVI secolo a Mantova quando vi regnavano nel periodo del loro maggior splendore i Gonzaga e imperniati sulla figura del capitano di giustizia Biagio dell’Orso; si tratta di gialli storici in cui, nell’ambito di vicende realmente accadute, vengono inseriti anche dei personaggi di fantasia. La commistione fra realtà e inventiva é perfettamente in equilibrio e ciò non poco contribuisce alla qualità delle opere. 

D: Quale è la genesi di questo trittico? In pratica Le chiedo come è venuta l’idea di scrivere questi tre originali gialli storici.

R: Quello che mi colpisce è il mistero che avvolge un avvenimento oppure un dipinto ed anche il fatto clamoroso spiegato in maniera poco convincente. Ad esempio nelle Righe nere della vendetta sono stata colpita dalla pianta raffigurata nel ritratto di Giulio Romano, un edificio a base circolare che nessuno storico è mai riuscito a identificare. Nelle mie ricerche ho scoperto che a quell’epoca di edifici a pianta circolare a Mantova ce n’erano due, di cui uno era la Rotonda di San Lorenzo, che ha però una struttura diversa, e l’altro una chiesa costruita su un antico tempio romano che si trovava nel lazzaretto di San Lorenzo: un nascondiglio perfetto.  Nei Leoni d’Europa a colpirmi è stata la figura dell’Ammirabile Critonio e la sua strana scomparsa. Questo bellissimo giovane era il figlio del Lord Advocate di Maria Stuarda, aveva parentele influenti e non riuscendo a capire cosa ci facesse alla corte di Guglielmo Gonzaga, che certo non brillava per generosità, ho studiato la sua vita e ho scoperto le tracce di un complotto internazionale che coinvolgeva le corti di Mantova, Venezia, Milano, Parigi, la Spagna e Londra, oltre ovviamente al Vaticano. E nell’ultimo, Un Sicario alla corte dei Gonzaga, non mi convinceva il processo a carico del Pantara, un ladro di bestiame accusato di essere un emissario del duca Ranuccio Farnese, proprio nel periodo della guerra fredda tra lui e Vincenzo I. Ho quindi immaginato che dovesse esserci una spia ben addestrata, come sarà sicuramente avvenuto, con il compito di uccidere il duca di Mantova. 

D: Capisco che esistono arcani misteri, elementi che possono colpire e far nascere quel processo di elaborazione inconscio che è proprio della fantasia. Nei suoi romanzi c’è però qualche cosa di più, c’è un profondo desiderio di ricerca della verità, e questo mi viene anche confermato dalla sua risposta. Dov’é, cosa significa quell’edificio a pianta circolare, che cosa ci faceva esattamente a Mantova il Critonio, è mai possibile che Ferruccio Farnese, spietato, ma anche scaltro si avvalesse di un sicario di infimo ordine? Sono tutte domande che si pone lo storico, il quale, a posteriori, cerca la verità. Sono libri, i suoi, che possiamo definire romanzi storici, ma che hanno anche caratteristiche di saggio storico. E così, anziché la ricerca dell’autore in prima persona, la missione viene demandata a un personaggio di fantasia, a un investigatore che ha tutte le caratteristiche per destare simpatia e interesse. Come è nato Biagio dell’Orso?

R: In effetti dietro ogni romanzo c'è un grande lavoro di documentazione e di ricerca, anche d'archivio; molto spesso le lettere rivelano più di quello che dicono, sui fatti storici. Inoltre curo sempre molto l'ambientazione, ho visitato tutti  i luoghi in cui si svolgono le vicende di cui narro e quando non esistono più mi documento attraverso i quadri, le stampe o le piante degli edifici. Il convento dei domenicani dove si trovava il tribunale dell'Inquisizione a Mantova non esiste più, nemmeno la chiesa che è stata distrutta agli inizi del secolo scorso, solo il campanile è stato risparmiato; ma ne ho trovato la pianta in un libro dell'ottocento e servendomi di quella ho descritto il  percorso seguito di notte dal figlio del boia per entrare e uscire.
Biagio dell'Orso era il capitano di giustizia al tempo di Guglielmo Gonzaga, un nome su alcune lettere conservate all'archivio storico, la persona comunque che aveva indagato sul "caso dell'ammirabile Critonio" e l'ho fatto diventare il protagonista dei miei romanzi. Il capitano di giustizia nel ducato di Mantova, così come in quelli di Milano o di Ferrara non era un'autorità indipendente, ma era un funzionario costretto suo malgrado a obbedire agli ordini del duca. Ne è uscito un personaggio tormentato che non si adatta ai rituali della corte e non si limita a eseguire gli ordini, ma segue il suo istinto e cerca la verità in tutte le sue indagini. Biagio è sopratutto un personaggio che prova una profonda compassione, adesso diremmo empatia, per tutti gli sfortunati, per coloro che non possono ribellarsi alle ingiustizie che subiscono. Nonostante il suo carattere, o forse proprio per quello, gode delle stima e dell'amicizia di molti, a cominciare dai consiglieri ducali che fanno di tutto per evitargli gli strali del duca quando prende a calci qualche nobile prepotente.

D: Quindi Biagio dell’Orso non è un personaggio inventato, è esistito veramente; frutto della creatività è la sua personalità di uomo insofferente alle ingiustizie e naturalmente propenso a prendere le difese dei deboli, degli sfortunati, insomma di chi non ha potere. Per certi aspetti assomiglia un po’ al famoso commissario Maigret, con la differenza che quest’ultimo non fa mai uso della forza. È d’accordo con questo paragone? Questa è una domanda, ma colgo l’occasione per porne un’altra: quanto c’è di lei in Biagio dell’Orso?

RGrazie per il paragone più che lusinghiero; direi che per certi aspetti lo ricorda; anche Biagio nelle sue indagini riesce a cogliere i particolari che servono a collegarlo al colpevole, a capire i motivi che hanno portato al delitto e come lui non è molto socievole. Nell'epoca in cui è vissuto per far rispettar l'ordine l'uso della forza era praticamente inevitabile, le guardie avevano spesso di fronte banditi di strada e tagliagole, gente che non aveva nulla da perdere e che doveva evitare la prigione a ogni costo, viste la condizione delle carceri di allora e le punizioni inflitte, di solito corporali, inoltre  negli scontri venivano usate soprattutto spade e pugnali, le pistole erano ancora molto imprecise e sparavano uno o due colpi al massimo, per cui si passava subito alle armi bianche. Anche le città erano molto di diverse da come sono ora, di notte le porte venivano chiuse, nessuno poteva entrare o uscire e data la presenza dei banditi che infestavano le strade era assolutamente impensabile uscire dalle mura senza avere una scorta armata. Per le persone comuni era anche molto difficile ottenere giustizia, se non si incontrava qualcuno come Biagio dell’Orso.
Quello che più mi accomuna al mio personaggio è l’insofferenza per i soprusi, le prevaricazioni e dato che sono un’ambientalista la lista delle cose che non sopporto si allunga con i reati contro gli animali e l’ambiente. Parafrasando un famoso film direi che “Questo non è un paese per idealisti”.

D: Purtroppo le ingiustizie sono di questo mondo, poi ci può essere il paese in cui sono più frequenti, ma direi che nessun stato ne è immune. Fino ad adesso abbiamo parlato di Biagio dell’Orso, protagonista principale dei tre romanzi, ma poi ci sono altri personaggi sempre presenti: mi riferisco al Donati, consigliere del duca, e allo speziale, di cui ora non mi ricordo il nome, e senza dimenticare il bargello. Questi tre individui sono resi molto bene nello loro caratteristiche, al punto che mi viene il sospetto che siano realmente esistiti. È così, oppure si tratta di un pregevole lavoro di cesello della fantasia?

R: Sono esistiti tutti e tre, ma solo di uno ho potuto reperire la biografia.
Di  Gio Morisco è rimasta qualche relazione sulle risse che si  è ritrovato a sedare, di Hyppolito Geniforti si conosce il suo coinvolgimento nel "caso dell'Ammirabile Critonio" e grazie, a un testamento,  il  contenuto della sua spezieria, compresa una stampa con l'insegna della sua bottega dove le foglie e i frutti della castagna d'acqua che fanno da cornice a una piccola Sirena. 
Del prima medico di corte e poi consigliere ducale Marcello Donati ho avuto la fortuna di poter leggere la sua biografia con tanto di ritratto e da questa, oltre che da altri episodi in cui è stato coinvolto alla corte ducale, sono riuscita a dedurne  il carattere.  Il Donati aveva una straordinaria passione per la medicina e deve aver sofferto molto quando il duca Guglielmo gli ha chiesto di diventare suo consigliere; non si è opposto alla decisione del Gonzaga perché era un uomo estremamente tremebondo, ma credo di essere riuscita a farne un personaggio simpatico nonostante la sua vigliaccheria.

D: Direi che tutti e tre sono delle caratterizzazioni che riescono a renderli simpatici. Marcello Donati è certamente un pavido, ma non mi sentirei di definirlo vigliacco, perché non ha mai tradito Biagio dell’Orso, di cui è sincero amico. E la bella ostessa veneziana, la fidanzata che il capitano di giustizia vede solo quando ne ha l’occasione, è esistita pure lei? E già che ci sono, il simpatico vescovo del Monferrato non è di fantasia?

R:  Rosa è uno dei pochi personaggi di fantasia, anche se sarebbe potuta esistere e forse è veramente esistita una donna così, rimasta vedova a causa della peste e costretta a portare avanti da sola l'attività del marito. Le vicende della peste le ho tratte da un manoscritto inedito conservato nella biblioteca di Verona di un notaio, Rocco de Benedetti, che racconta cosa succedeva a Venezia durante la peste del 1576, lo stato d'animo delle persone, l'impegno dei medici, la vita nei due lazzaretti. Lo Zibramontiinvece è realmente esistito e dato che  ha avuto il cattivo gusto di morire nel 1589 ho  dovuto, con molto dispiacere, separarmene a metà di un romanzo. Adoravo le sue battute, riusciva a sdrammatizzare anche le situazioni più tese e riusciva a tenere testa anche al duca Guglielmo, cosa non facile assicurano i contemporanei.

D: Direi che il genere è il giallo, ma più che altro si tratta di romanzi storici particolari in cui gran parte dei personaggi e delle vicende sono realmente esistiti e accadute. Viste le ricerche effettuate e nonostante la taccagneria del duca Guglielmo la Mantova dell’epoca può essere considerata un’isola felice, o comunque dove si stava meglio, rispetto ai territori delle Signorie attigue? Se non vado errato c’erano perfino un ospedale e un ospizio.

R: Ospedali o comunque posti in cui potevano trovare rifugio derelitti di ogni tipo si trovavano in tutte le città, a volte erano palazzetti riadattati, come nel caso dell'ospedale del lazzaretto di Mantova, a volte erano invece edifici costruiti appositamente come ad esempio l'Ospedale degli Innocenti  edificato dal Brunelleschi dove venivano accolti gli orfani. Anche a Mantova c'era un orfanotrofio "Al misericordia" posto sotto la diretta protezione dei Gonzaga; in quell'edificio ora si trova l'Università, e c'era anche un rifugio per le "donne perdute"che decidevano di cambiare vita dedicato ovviamente a Maria Maddalena. Se fosse un'isola felice non so dirlo, essendo un piccolo ducato i rapporti tra i Gonzaga  ed i sudditi erano più stretti rispetto ad altre corti e questo li induceva ad intervenire prontamente in loro aiuto. Ricordo le lamentele di Francesco II che dalla sua prigione di Venezia si lamentava del fatto che la moglie, Isabella d'Este, si preoccupasse più del benessere dei mantovani che delle sua liberazione; del resto lui l'aveva tradita con una contadina, come darle torto? Anche Vincenzo era generoso, quando si ebbe una inondazione del Po, fece tutto quanto era in suo potere per aiutare chi era stato danneggiato.  

D: Sì, probabilmente le ridotte dimensioni del ducato facevano sì che la vita fosse meno incerta, soprattutto in occasione di carestie e di altre calamità naturali.
È un trittico che mi è piaciuto molto e credo di poter dire che gli altri che leggeranno questi tre romanzi finiranno con l’appassionarsi, come me, a questi personaggi che destano un’immediata simpatia. Il ritmo costante, non veloce, ma comunque non lento, l’intreccio ben congegnato, l’atmosfera dell’epoca in cui ci si immerge, le descrizioni dei luoghi che sembrano materializzarsi davanti agli occhi sono tutti elementi positivi che, perfettamente fusi, portano a un rasserenante appagamento. Purtroppo, giunto al termine di Un sicario alla corte dei Gonzaga, mi è sorto un timore: che fosse l’ultimo. Ma, a pensarci bene, c’è una speranza che non lo sia e sta nell’ultima frase di Marcello Donati a Biagio dell’Orso: “   C’è qualcosa che devi vedere, qualcosa …di spaventoso.”.
Mi pare logico che una simile conclusione lasci spazio a un seguito e di questo gradirei avere conferma.

R: Certo, c'è un quarto romanzo  in cui i lettori ritroveranno tutti i personaggi dei libri precedenti, compreso l'illusionista Colorni e la sua giovane figlia che dopo averne combinate di tutti i colori vengono costretti ad aiutare Biagio dell'Orso per evitare di essere arrestati. Anche per Colornimi sono ispirata a un ebreo mantovano che è realmente esistito. Il titolo che gli ho dato è L'oscura ombra della magia, ma sui titoli io e le editrici bisticciamo sempre. Non so cosa anticipare di questo nuovo romanzo perché  è un susseguirsi di colpi di scena e non vorrei rovinare la sorpresa, posso solo raccontare che il capitano di giustizia e il povero Marcello Donati si ritroveranno a dover sventare  una congiura dell'oscuro ordine cavalleresco del Cigno Nero. 

D: A proposito di nomi di personaggi che risultano effettivamente esistiti, la stessa cosa può dirsi per attività commerciali? Per esempio la “locanda del cane che abbaia alla luna", un nome così poetico, é di sua invenzione ?

R: La "locanda del Cane che abbaia alla luna"  era aperta sino a  metà degli anni sessanta, ero a una trasmissione televisiva per presentare "Le righe nere della vendetta" quanto ci telefonò in diretta proprio la proprietaria che la gestiva. Tutte le locande e le osterie che  cito nei miei romanzi come Il pavone, dove va spesso Biagio dell'Orso, la Croce Bianca, i Tre scaliniesistono dal quattrocento se non da prima ancora, come possono testimoniare in qualche caso gli affreschi che ancora decorano le loro pareti. A casa ho un ingrandimento di  una pianta di Mantova disegnata all'inizio del XVII secolo, la stendo sul  tavolo della cucina e quando devo  scrivere verifico il percorso che i miei personaggi avrebbero potuto fare all'epoca tra le antiche contrade ed edifici che non esistono più, come purtroppo la spezieria alla Syrena distrutta ad una bomba durante la seconda guerra mondiale.



Grazie per la piacevole intervista e allora non ci resta che attendere l’uscita del quarto romanzo e, per ingannare il tempo e non solo, il mio consiglio, questa volta rivolto a chi legge, è di prendere in mano i precedenti tre per immergersi in un’atmosfera unica e in una lettura particolarmente avvincente.