domenica 15 novembre 2020

Racconti di Natale 2020

 



Il dono di Natale

di Grazia Deledda


I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.
Era una festa eccezionale, per loro, quell'anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.
Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.
E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.
Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.
Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d'alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.
Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.
Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un'altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.
Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.
- Ben tornato, Felle.
- Oh, Lia! - egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.
Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l'amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d'occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.
- Che ci hai, qui? - domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. - Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, - aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: - e anche noi!
Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.
In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con buccie di arance e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.
La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un'aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.
Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.
- Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po' di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? - pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.

Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca [1].
Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all'esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l'uomo che lo accompagnava. Quest'uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l'indipendenza d'Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.
E rimasero tutti scambievolmente contenti.
Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d'oro.
Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.
L'ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s'intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.
Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.
Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.
Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d'occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.

Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.
Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.
- La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini - disse a Felle: - anch'essi hanno diritto di godersi la festa.
Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.
La notte era gelida ma calma, e d'un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.
Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.
All'entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:
- La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.
Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c'erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po' triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.

Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.
- Oh, ragazzi, su, in fila.
E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.
I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.
Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell'aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.
Dentro la chiesa continuava l'illusione della primavera: l'altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l'ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.
In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d'oro illuminava loro la via.
Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.
Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.
- Gloria, gloria - cantavano i preti sull'altare: e il popolo rispondeva:
- Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
E pace in terra agli uomini di buona volontà.
Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.

All'uscita di chiesa sentì un po' freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l'odore d'arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l'uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d'arancio, perché l'anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.
Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un'asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.

Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.
In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d'avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l'arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.
Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.
Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.

Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?
Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.
Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov'era?
- Vieni avanti, e va su a vedere - gli disse l'uomo, indovinando il pensiero di lui.
Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.
E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.
- È il nostro primo fratellino - mormorò Lia. - Mio padre l'ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il "Gloria". Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.




L’angelo messaggero

di Giovanna Giordani


L’angelo messaggero iniziò il suo viaggio intorno alla Terra per raccogliere notizie da riferire al suo amato Gesù che fra poco avrebbe compiuto ben 2019 anni. La festa in cielo per questo compleanno era magnifica: gli angeli cantavano canzoni dolcissime e le anime di coloro che nella vita avevano amato Gesù si univano ai cori gioiosamente. La splendida luce delle stelle illuminava ogni cosa.

L’angelo messaggero aprì dunque le sue grandi ali e iniziò a volare scrutando attentamente il mondo. Egli vide che in certe zone brillavano infinite luci artificiali sulle case e sui palazzi, ma soprattutto nei grandi magazzini. Ne fu quasi abbagliato. Continuando il suo volo notò che in altre zone, invece, brillavano delle piccole luci che però non erano artificiali bensì delle gioconde fiammelle.

Lo annotò sul suo “diario di bordo” e, finito il giro intorno al nostro pianeta, tornò dal suo Gesù.

  • Ho visto in certi luoghi miriadi di luci splendenti come fossero impazzite – riferì l’angelo - si vede che gli uomini ci tengono al tuo compleanno! Strade, negozi, bancarelle, era tutto un luccicare festoso e ne sono stato quasi abbagliato. In certe zone però non vedevo luci abbaglianti e ho dovuto abbassarmi per vedere meglio. Mano a mano che scendevo potevo notare delle piccole fiammelle che tremolavano nel buio. In quel luogo, notai inoltre, con mia grande gioia, che c’era un’atmosfera di pace e serenità. –

  • E poi cos’altro hai visto? – Chiese Gesù.

  • Non vorrei dirtelo - rispose l’angelo - ma dato che me lo chiedi devo confessarti che ho visto anche delle enormi chiazze di luce che uccidevano gli uomini. Laggiù le chiamano armi, o bombe, credo, e la loro vista mi ha procurato tanta tristezza .

  • Anche a me questa tua notizia procura immensa tristezza e dolore - rispose Gesù. – Ti dirò anche - proseguì – che le fiammelle di cui mi hai parlato sono quelle che brillano nei cuori che vorrebbero vivere in pace assieme a tutti i loro simili e sanno il vero significato della parola ‘Amore’ . Sono loro che un giorno saranno qui fra noi a festeggiare in letizia il mio compleanno –

  • Capisco – rispose l’angelo – spero proprio di vederne tante di quelle fiammelle nel mio prossimo viaggio! –

Poi si sedette accanto a Gesù e gli consegnò il suo “diario di bordo” mentre tutto intorno era un andirivieni di angeli e anime indaffarati per i preparativi della festa. L’angelo messaggero li osservava sorridendo, poi, rivolgendosi al suo grande amico e Signore gli disse: ti vogliamo bene, buon compleanno, Gesù! -  





Nisse e Gunnar

di Danila Oppio


C’era una volta, ma non proprio così tanto tempo fa, un bimbetto molto povero che avrebbe tanto desiderato decorare l’abete di fronte a casa sua per festeggiare il Natale, che presto avrebbe bussato alle porte. Non aveva però neppure un soldino per acquistare quei bei ciondoli colorati che erano esposti nelle vetrine dei negozi della sua città.

Una sera - e il Natale si stava avvicinando a grandi passi - sentì uno scampanellìo e un fruscìo vicino alla finestra della sua cameretta.

  • Chissà chi è? - Pensò il piccino.

  • Toc toc toc.

Tre colpetti sul vetro della finestra lo fecero sobbalzare. Si avvicinò cautamente, appoggiò le manine e il nasino sui vetri gelati – fuori faceva davvero molto freddo – e vide un ometto non più alto di una spanna, con un berretto rosso in testa che indossava un giacchino grigio. Una lunga barba bianca ornava il suo mento.

  • Chi sei? - Chiese il piccino.

  • Sono Nisse, lo gnomo che esaudisce tutti i desideri, per caso tu ne hai uno in particolare? Puoi dirmi come ti chiami?

  • Mi chiamo Gunnar. Si, vorrei decorare con tanti ciondoli luminosi quell’abete là fuori, perché senza quelle decorazioni, non mi sembra neppure Natale.

  • Allora Gunnar, fammi entrare ed io ti narrerò una storia e magari, mentre te la racconto, succederà qualcosa di straordinario. Fammi entrare subito, che qui fuori tremo dal freddo!

Il bambino aprì la finestra e Nisse si intrufolò nella stanza che a dire il vero non era neanche calda perché il fuoco si era spento nel camino.

Nisse si affrettò a soffiare sulle braci e all’improvviso un bel fuocherello divampò e la stanza si riscaldò in un istante.

  • Ma tu sei proprio un mago! Esclamò Gunnar.

  • Non so chi siano i maghi, ma so come posso realizzare i sogni dei bambini buoni.

Intanto Nisse, profittando del momento in cui Gunnar era andato a scaldarsi accanto al fuoco e si era appisolato, chiamò la Regina delle Nevi, Snedronninga, che di cose belle ne sapeva fare davvero tante. Le disse sottovoce, ché il bimbo non sentisse:

  • Per favore, fai cadere tanti fiocchi di neve, e falli diventare grandissimi, come quei lampadari di cristalli di Boemia, e poi appendili sui rami di quell’abete. Ma non farti vedere né sentire.

La Regina delle Nevi non riuscì a trattenere una risata, ovviamente cristallina. Proprio a lei Nisse chiede di essere silenziosa? Ma da quando la neve che scende volteggiando lieve fa rumore? Non solo è muta, ma ammutolisce anche tutto quel che sfiora al suo passare. Non si odono i passi e neanche le ruote delle auto che circolano sulla strada innevata. Tutto è ovattato e quindi lei sa - che quel che farà - non si sentirà.

E piano piano, mentre Nisse pensa alla storia da raccontare a Gunnar, Snedronninga sparge i fiocchi di cristallo, li appende sui rami dell’abete, perché sa che quando la luna si accenderà e illuminerà il cielo notturno, i cristalli di ghiaccio brilleranno come tante argentee lucine.

Gunnar si sveglia e sbadiglia

Così Nisse comincia a raccontargli una storia lunga e senza fine, per dare tempo a Snedronninga di terminare il lavoro che le ha commissionato.



  • C’era una volta un cero di cera...

Nisse inizia così questa sua fiaba.

  • che lentamente si scioglieva.

  • Come si dice

  • quando una candela finisce?

  • Ah sì, fino a ridursi

  • a un piccolo moccolo

  • che quasi non si vedeva

  • neanche con il binocolo.

  • Ah sì, e dopo cosa accadde?

  • È successo che all’improvviso

  • è spuntato un sorriso sul tuo viso.

  • E poi? Come finisce la storia?

  • Finisce che devo accendere

  • un altro cero di cera

  • e questa è una storia vera.

  • Non posso leggere senza un lumino

  • anche se fosse proprio piccino.

E Nisse ricominciò a narrare la fiaba...

  • C’era una volta un cero di cera

  • purtroppo s’è consumata

  • un’altra volta la candela.



Ogni volta ricominciava la solita tiritera per distrarre Gunnar, fino a quando sbirciando fuori dalla finestra, vide che la Regina delle Nevi aveva finito il suo lavoro. Allora lo gnomo disse al bambino di guardare fuori dai vetri, che la notte era quasi terminata e domani sarà già Natale.



Si può solo immaginare la gioia di Gunnar, quando vide appese all’abete delle magnifiche stelle fatte di ghiaccio cristallizzato e di ogni forma che, al chiaro di luna, brillavano come lucenti fiammelle.

  • Buon Natale piccino, io devo andare.

  • Di già? Non puoi restare?

  • No, non posso, devo scappare

  • ma ci vedremo ancora il prossimo Natale.



Gunnar si stropicciiò gli occhi, si era addormentato sul tappeto accanto al fuoco del camino, che ancora scoppiettava allegro. Le prime luci del giorno accendevano le decorazioni di ghiaccio appese sull’abete, e il bimbo rimase a guardarle incantato. Davvero Nisse aveva fatto tutto questo, o se lo era solo sognato? Fosse anche così, era stato proprio un bellissimo sogno, certo però che le decorazioni di Snedronninga fossero più fantastiche di tutte quelle luminarie che illuminano a giorno le vie delle città.





Racconto di Natale

di Dino Buzzati


Tetro e ogivale è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, i1 carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.

Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata divento entrò un poverello in cenci.

"Che quantità di Dio! " esclamò sorridendo costui guardandosi intorno- "Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori.

Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale. "

"E' di sua eccellenza l'arcivescovo" rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio d'ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore."

"Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!"

"Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.

Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.

Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.

Don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.

"Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"

"Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."

"Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino."

E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.

Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.

"Ma che cosa fa, reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?"

"Guarda laggiù figliolo. Non vedi?"

Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a benedire i nostri campi."

" Senti " disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente."

"Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."

"Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì."

"Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.

Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).

Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava "per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"

Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?

Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.

"Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli "abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego."

Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.

"Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?”





Seguendo la Cometa

di Renzo Montagnoli


Più di duemila anni fa, negli ultimi giorni di dicembre, sui cieli della Palestina apparve una stella che si muoveva e sembrava indicare agli uomini una direzione. Ci fu chi gridò che si trattava di un funesto presagio, sacerdoti fecero sacrifici, re e ricchi si affidarono invano agli astrologi, ma, nel villaggio in cui in una casupola di paglia e di fango abitavano Ester e David, il decano, il vecchio a cui tutti si rivolgevano per chiedere un consiglio, all’apparire dell’astro cadde in ginocchio, alzò le braccia al cielo e disse semplicemente: “Tu sia lodato, o Dio degli ebrei e di tutta l’umanità. Il Messia è arrivato! “

E a chi gli chiedeva chi fosse questo Messia rispondeva solo che era il figlio Dio, sceso sulla terra per indicare a chi vi abitava una via d’amore e di pace. Aggiungeva, poi, che se si fosse seguita la stella era inevitabile il suo incontro con lui. Partirono in molti dal villaggio, poveri pastori, contadini che a malapena traevano dalla terra quanto necessario per non morir di fame e anche Ester e David, due trovatelli che la pietà di una donna povera, ma pia, aveva strappato alla morte sicura nel deserto in cui vagavano, di sicuro abbandonati dai rispettivi genitori perché David era cieco ed Ester zoppicava vistosamente.

Lei andò davanti, con un occhio fisso sulla cometa e il braccio destro proteso all’indietro a cui si era attaccato David, ma procedevano lentamente, per colpa di quelle disgrazie che li accompagnavano dalla nascita. Parlottavano con lei che diceva che un mondo d’amore era il suo sogno e lui che annuiva, aggiungendo che con la pace dentro ognuno di noi non ci sarebbero state più guerre. “Pensa, Ester, un mondo in cui il ricco divide con i poveri, in cui questi si aiutano l’un l’altro a percorrere la strada che li porta alla vita eterna” diceva lui e lei rispondeva:” Non ci saranno più re, non avremo più nulla da temere dai ricchi borghesi che fino ad adesso ci hanno fatto penare, ma anche loro avranno i benefici di un’esistenza senza odio, né paure, perché ognuno avrà il nrcessario, nulla di più. “ Intanto andavano, si fermavano a riposare di giorno e proseguivano di notte, fra le pietraie, le sabbie ardenti, il fischio della vipera del deserto e le ossa di qualcuno che tanto prima aveva fatto lo stesso percorso. Passarono alcuni giorni e infine la cometa si fermò, un punto fisso nel cielo, una luce calda che scendeva sulla terra. David ed Ester arrivarono infine dove l’astro proiettava i suoi raggi e lì videro una moltitudine: pastori con le loro greggi, pescatori con i loro pesci, contadini con i frutti della terra e tutti erano in fila, procedevano piano fino a una capanna, lì si fermavano, si inchinavano, lasciavano un dono, chi un agnello, chi un pesce, chi un frutto, e tornavano indietro con una strana luce negli occhi. Anche Ester e David fecero la fila, anche se non avevano nulla dare, perchè nulla possedevano, e così quando arrivarono alla capanna e videro un paffuto bambino in un giaciglio di paglia si gettarono in ginocchio, dicendo:” Messia, non abbiamo nulla, perché non possediamo nulla, ma vogliamo tanto darti un omaggio, anche se non siamo in grado. Possiamo darti solo ciò che abbiamo, noi stessi, la nostra esistenza.”. Il bambino li guardò con occhi dolci e sorrise, alzando una mano, e fu allora che tutti seppero che quello era il figlio di Dio, perchè Ester risanata, con le gambe lunghe uguali, saltava all’intorno, mentre David per la prima volta vedeva, osservava felice e stupito quel bimbo che lo aveva guarito. “Grazie, grazie, Messia, ma non possiamo contraccambiare.” E il Messia rispose: “Voi mi avete dato più di quello che ho dato a voi, mi avete offerto l’unico bene che possedete, un bene di incommensurabile valore, la vostra esistenza, e così mi avete manifestato con la massima sincerità il vostro amore.”. La gente intorno cantava, la cometa sembrava contenta, Ester e David ripresero la via di casa, consapevoli che ora conoscevano la strada, non solo per tornare, ma per andare avanti nella vita.





Un regalo di Natale molto speciale

di Piera Maria Chessa


Era ormai tardi, bisognava andare a dormire, ma Ferruccio, quella sera, non aveva proprio voglia di riposare. Col papà Diego e la mamma Sandra aveva appena guardato alla televisione il telegiornale, dove in un servizio ricordavano ciò che era avvenuto esattamente un anno prima in Trentino, luogo in cui loro vivevano, quando la tempesta Vaia, con le sue terribili piogge, aveva procurato la caduta di un numero impressionante di alberi, raccontavano anche che cosa in quell'anno appena trascorso era stato fatto, e com'era ora la situazione, soprattutto nella foresta di Paneveggio, forse la zona più colpita dell'intera regione.

Ferruccio, che aveva solo nove anni ma una maturità straordinaria per la sua età, non aveva perso una virgola dell'intero servizio, e generoso com'era non si dava pace, nutrendo già per la natura un amore sconfinato. La mamma e il papà cercavano di rasserenarlo spiegandogli che ci sarebbe voluto ancora tanto tempo ma che non bisognava disperare, in qualche modo avrebbero trovato delle soluzioni.

Lui, che leggeva già tanto e di tutto, rivolgendosi ai genitori aveva detto:" Ma sapete quanto tempo occorre perché un albero abbattuto possa essere sostituito, non cresce mica in un giorno! Quanti anni passeranno? E ora ne è trascorso uno soltanto... Io, che sono un bambino, diventerò un ragazzo, e poi un uomo come te, papà, prima che tutti i nuovi alberi diventino grandi come quelli caduti. E' una cosa terribile!"

I suoi genitori non trovarono parole per replicare, e rimasero in silenzio, Ferruccio aveva ragione. Tutti e tre, dispiaciuti, andarono a dormire.

Si era a fine ottobre, il tempo passava veloce e dicembre non tardò ad arrivare, il Natale era ormai vicino. Ferruccio non vedeva l'ora, lo aspettava con impazienza, come tutti i bambini della sua età, ma la sua testolina sempre attiva non smetteva di lavorare. Soprattutto in quegli ultimi due mesi, quante volte aveva ripensato alla tempesta Vaia e ai danni che aveva procurato!

Era figlio unico, avrebbe desiderato tanto un fratello o una sorella, ma non erano mai arrivati, in compenso lui "era venuto su bene", come dicevano gli amici dei suoi genitori, che col tempo se n'erano fatti una ragione. Erano soddisfatti della loro vita e fieri di avere un figlio così. Ne capivano le necessità e lasciavano che si circondasse di amici; per questo motivo la loro casa e il loro giardino erano sempre molto "vissuti" e colmi di voci infantili che si rincorrevano.

Verso la metà di dicembre, come tutti gli anni, Ferruccio scrisse la sua lettera di Natale. In realtà, da qualche tempo, pur avendo solo nove anni, aveva smesso di credere alle belle favole e ai bei doni che sarebbero dovuti arrivare chissà da dove sulla slitta trainata dalle renne. Era stato purtroppo un suo compagno di scuola, un po' più smaliziato degli altri, a prendersi la briga di fugare ogni dubbio.

"Guardate che a me l'ha detto il mio papà, lui è grande e non dice bugie. E mi ha anche detto che non devo mai "farmi illusioni", proprio così ha detto!"

E fu così che Ferruccio e i suoi compagni quel giorno persero un pezzetto della loro infanzia e di colpo diventarono un pochino più vecchi.

Lui non perse tuttavia la bella abitudine di scrivere la sua lettera, e i nuovi destinatari diventarono i suoi genitori.

Lo faceva di nascosto, alla sera, quando si ritrovava da solo nella sua cameretta, e scriveva, scriveva... Raccontava di sè, dell'affetto che provava per loro, di quelli che erano i suoi desideri.

Ma quella sera non concluse la lettera, in fondo aveva ancora del tempo, voleva pensarci bene, magari nei giorni successivi gli sarebbe venuta qualche buona nuova idea sui regali da chiedere.

Andò a dormire sereno, soddisfatto di ciò che aveva già scritto. Il tepore della sua camera, e soprattutto del suo letto, gli conciliarono il sonno.

"Che freddo", disse Ferruccio, "perché sento tutto questo freddo? Mamma, ho la febbre!"

Aprì gli occhi spaventato, guardandosi intorno e cercando sua madre, ma intorno a sè vide soltanto buio. Che cosa stava succedendo?

"Ho paura, mamma, dove sei?", chiese sottovoce. Ma la mamma non c'era.

Per fortuna, lentamente, incominciava ad albeggiare. Sempre più preoccupato continuò a scrutare intorno. Si trovava in un bosco da solo, disteso vicino a dei grossi sassi, e percepiva sotto di sè il freddo della terra umida. Si mise seduto e guardò meglio. Vi era tanto verde, era l'erba cresciuta in quei giorni di pioggia. Guardò verso l'alto. Quanti alberi! Li riconobbe, erano i suoi amati abeti, e poi tanto muschio intorno che ricopriva i sassi. Si alzò per sgranchirsi le gambe, si sentiva indolenzito e sempre più infreddolito, meravigliato per quel che stava vivendo. A un certo punto sentì, sugli alberi che lo circondavano, il trillo di un uccello, subito dopo lo vide accanto a sè. Aveva il piumaggio rosso e verde, e lo osservava incuriosito emettendo un verso che a Ferruccio parve molto melodioso. Forse era il suo modo consueto di salutare, così pensò. Ma non fece in tempo ad abituarsi a quella singolare compagnia che d'improvviso avvertì uno strano brusio che, a mano a mano che si avvicinava, diventava più forte. La luce dell'alba, che ora filtrava tra i rami degli abeti, gli permise di vedere meglio.

Su un sentiero ricoperto d'erba avanzavano decine e decine di minuscoli ometti luminosi, così parvero a Ferruccio, poi, quando arrivarono ormai a pochi passi da lui, capì che si trattava del colore dei loro striminziti abitini gialli. Si posizionarono intorno formando un ampio cerchio, uno di loro si fermò nel mezzo. Sempre più sbalordito, Ferruccio sentì il suo cuore che batteva forte. L'omino al centro, forse il capo, o forse il più anziano del gruppo, prese solennemente la parola. La sua voce era quasi un bisbiglio, gentile ma ugualmente ferma.

"Ciao, ragazzo, ci presentiamo subito, siamo l'esercito degli Omini gialli e viviamo in questi boschi da tanto tempo, secoli o millenni, questo non te lo so dire, posso però dirti che non abbiamo età, non festeggiamo i compleanni, come fate invece voi umani, e rimaniamo sempre uguali a noi stessi. Vedi, siamo piccoli piccoli, ma non invecchiamo mai. Abbiamo un compito ben preciso, quello di difendere questi boschi straordinari, ci opponiamo alla natura, quando diventa matrigna, ma l'aiutiamo quando ha bisogno di noi. E soprattutto quando dobbiamo difenderla dagli uomini. Siamo molto piccoli, ma anche numerosi, e uniamo le nostre forze. Proprio come fanno le formiche, così capaci di trasportare persino grossi pesi. Quando ritornerai a casa, dovrai dire ai tuoi amici, ma soprattutto agli adulti, i più pericolosi, di non fare del male alla natura, perché non rispettandola fanno male innanzitutto a se stessi. Sono grandi e grossi, mica come noi, ma privi di cervello. Ora vai, e Buon Natale! Perdonaci se ti abbiamo spaventato.".



"Ferruccio, dormi ancora? Guarda che si fa tardi, oggi non è domenica, si va a scuola. Presto però potrai dormire a lungo, pochi giorni e sarà Natale!".

"Ma come? Dove sono? Quando sono tornato?" Ferruccio non si capacitava, dunque, aveva solo sognato? Guardò la mamma con uno sguardo perso, un po' il sogno, un po' la sorpresa lo avevano completamente disorientato. Lei aspettò con pazienza che si svegliasse per bene, doveva aver dormito profondamente quella notte. Ma Ferruccio si riprese in fretta e incominciò a raccontarle il suo strano sogno. Non lo avrebbe invece raccontato ai compagni, forse lo avrebbero deriso, ma soprattutto voleva tenerlo per sè, soltanto i suoi genitori avrebbero capito e non si sarebbero presi gioco di lui.

Ora avrebbe atteso il Natale con trepidazione, aveva ancora un impegno da assolvere: la sua lettera non era conclusa; quella sera stessa, prima di andare a dormire, avrebbe chiesto ai suoi genitori i due regali per lui più belli.

In fondo non abitavano poi così lontano dalla foresta di Paneveggio, desiderava tanto vederla, dopo ciò che era successo voleva accertarsi che, sia pure lentamente, le cose stessero migliorando. Alla televisione ne avevano parlato ancora, ricordava che qualcuno aveva fatto una proposta, quella di "adottare" un albero. Avevano usato proprio quel verbo, come si fa con i bambini, si disse, lui queste cose le sapeva, un suo compagno era stato adottato.

Avrebbe chiesto informazioni ai genitori, ecco, quello sarebbe stato un regalo di Natale davvero speciale per lui, che voleva sinceramente fare qualcosa per i suoi amati alberi.





Un’aquila a Natale

di Aurelio Caliri


C’era una volta un bambino che si chiamava Federico ed era un tipo molto dormiglione. Quella mattina, inspiegabilmente, si svegliò all’alba e mentre si vestiva si chiedeva il perché di tale levataccia. Era la vigilia di Natale e sentiva come un richiamo, come se qualcosa di misterioso lo spingesse a scuotersi, ad agire. Uscì sulla terrazzina della mansarda che dava sui tetti e rimase sorpreso dallo splendore strano del sole che s’affacciava all’orizzonte e irradiava con sfumature giallastre la sua luce sulle case. Ma c’era qualcos’altro di cui non si capacitava: non avvertiva il benché minimo senso di freddo, nonostante la stagione invernale ormai inoltrata; l’aria poi sembrava immobile, come incantata e, soprattutto, c’era un silenzio quasi allarmante: nessun rumore di macchine, di treni, di persone, di animali. La vita si era fermata.

Il bambino, pur affascinato dalla novità, fu pervaso da un senso di inquietudine, ma poi, al pensiero che il padre e la madre dormivano nella camera accanto, si sentì confortato e cercò subito di analizzare la situazione e capire. Ecco, era come se qualcosa d’ignoto incombesse sulla natura, come se un evento soprannaturale stesse per manifestarsi. Si guardò intorno per valutare meglio il fenomeno e, d’un tratto, giunse al suo orecchio un frullare distinto di ali che s’avvicinava, quindi il sole per un attimo fu oscurato da un uccello enorme che planò dinanzi a lui e tranquillamente si posò sul tetto, a un paio di metri di distanza.

Era un’aquila maestosa, le sue penne brillavano al sole e i suoi grandi occhi, che non avevano nulla della ferocia dei rapaci, guardavano fissi il bambino. Questi rimase immobile dalla meraviglia, come ipnotizzato, ma sulla paura istintiva ebbe la meglio la curiosità, il desiderio di conoscere quella nuova realtà. Lo sguardo dell’animale aveva un che di umano, sembrava volesse comunicare un messaggio,

volesse parlare, e infatti inaspettatamente l’aquila parlò. Disse:

Vuoi venire con me? Vuoi trascorrere in un modo speciale questa vigilia? Vedrai, sarà bellissimo: sarà il mio regalo di Natale!”.

Il bambino deglutì, l’emozione gli impediva di articolare le parole, ma riuscì infine a dominarsi e rispose:

Ma dove mi porti? Vengono con me anche i miei genitori?”.

No, mi dispiace”, replicò l’aquila, “ma non ti preoccupare: vedrai che ti raggiungeranno nel posto in cui andiamo!”.

Il bambino era indeciso sul da farsi: l’uccello misterioso, l’avventura inaspettata esercitavano su di lui un’attrattiva fortissima e nello stesso tempo aveva timore di lasciare la sua casa. Chiese:

Ma è sicuro che i miei genitori mi raggiungeranno? E poi, in che modo vengo con te?”.

L’animale si accostò zampettando sulle tegole fino al margine del muretto che delimitava il tetto e gli disse:

“ Sali e tieniti stretto. Per il resto ti assicuro che non avrai alcun problema”.

Il bambino accantonò ogni perplessità e, issatosi agilmente sul parapetto, con un balzo si mise a cavalcioni del pennuto e fece appena in tempo ad aggrapparsi al suo collo vigoroso perché subito si librò in volo distendendo le ali immense e muovendole ritmicamente.

Che spettacolo la terra vista dall’alto che scorreva a perdita d’occhio! Il bambino era stordito dall’aria e dalla luce che lo investivano con impeto, ma non provava alcuna apprensione, anzi si sentiva sicuro. L’aquila col suo sguardo dolce e quasi umano, con i suoi modi gentili, gli aveva comunicato quella sicurezza, insieme a un grande senso di libertà che lo colmava di gioia.

L’uccello atterrò dolcemente vicino a una casa che si trovava sul limitare di un bosco e parlò ancora:

Scendi ed entra: ti stanno aspettando!”.

Ma chi mi aspetta?”, chiese il bambino, “e tu, non vieni con me?”

No, non posso, vado dai miei aquilotti su in montagna: anche per noi è Natale! Ma verrò dopo. Tu intanto vai …vedrai …”.

Dette queste parole si alzò in volo e in breve scomparve al di là degli immensi alberi secolari.

Il bambino s’avviò titubante verso l’ingresso socchiuso e saliti diversi scalini e attraversata una specie di anticamera si trovò in una vasta cucina fuligginosa e semibuia dove c’era un grande fermento. Il forno era stato appena acceso perché la fiamma era ancora alta e dei ramoscelli secchi scoppiettavano allegramente. Una signora sui quarant’anni vi accudiva con un rastrello di ferro e quando lui si avvicinò lei si voltò e lo salutò:

Ciao! Ti stavamo aspettando. Tra poco ti farò una bella focaccia!”.

Aveva un sorriso tenero, struggente, ed era così affettuosa che si sentì riscaldare dentro. Intanto, guardandosi intorno, trasalì dalla sorpresa: in un angolo stavano seduti i suoi nonni, Turi e Nina, i genitori di Maria, sua madre, che lo guardavano sorridendo. Si avvicinò e li abbracciò. Chiese:

Ma voi che fate qua?”

Siamo venuti per vederti: è Natale, no?”.

Che strano! Erano tanti anni che non li incontrava e, mentre cercava di capire come mai si trovassero là, gli si avvicinò un bambino della sua età e al vederlo si sentì ancora pervadere dalla meraviglia. Gli somigliava moltissimo, era come avere davanti un altro se stesso: stessi lineamenti, stessi occhi, stessa statura. Era suo fratello? fratello gemello? Ma l’unico suo fratello, Mirko, era già grande, biondo, con gli occhi azzurri. Nemmeno allora ebbe il tempo di riflettere perché il bambino, dopo aver dato un bacio alla madre Bettina, che badava al forno, lo prese per un braccio e affettuosamente gli disse:

Vieni, ti faccio vedere qualcosa!”.

Lo portò nella parte opposta della cucina e in una gabbia vide i propri scoiattolini che saltavano da una estremità all’altra senza un attimo di sosta, come impazziti dal piacere di rivederlo. Ma che succedeva? Come mai si trovavano in quella cucina? Come se non bastasse, vicino c’era un’altra gabbia più grande e dentro vide Ciccia, la sua coniglietta bianca, soffice, bellissima. Ebbe un tuffo al cuore. Aprì la gabbia, la prese, la baciò, se la strinse forte al petto. Ma cosa significava tutto ciò? Non vedeva Ciccia da molto tempo: che ci faceva in qual posto?

L’abbaiare di un cane lo distolse ancora una volta dalla sua riflessione.

Viola, zitta!”, le intimò il bambino che sembrava suo fratello gemello.

Ma allora era Viola, la cagnetta di suo padre, quando questi era piccolo, che uscita da sotto il forno gli si era avvicinata e gli faceva festa abbaiando e scodinzolando. Come poteva essere possibile?

Non ci capiva più niente. Era un miracolo di Natale? Forse! Ma qualunque cosa fosse, non gli importava, sapeva solo che traboccava di felicità, come forse mai era successo. Un solo pensiero appannava quel momento: i suoi genitori quando sarebbero arrivati? e l’aquila? Sentiva la sua mancanza e avrebbe voluto rivederla.

Trascorse un tempo indefinito tra giochi e scherzi insieme all’altro bambino ed ecco che la signora dal sorriso tenero e struggente sfornò il pane e le focacce. C’era in quella cucina d’altri tempi un profumo invitante, inebriante, anch’esso d’altri tempi. Arrivarono intanto i fratelli e le sorelle del suo piccolo compagno, preceduti da strepiti e risate, ed entrò anche un uomo corpulento, affabile, Vito, che doveva essere il padrone di casa, il marito della Signora. In piedi, attorno a un grande tavolo

sgangherato, mangiarono con gusto, quindi, accostate le sedie, tutti insieme giocarono prima a carte, poi a tombola. Il bambino pensava che mai aveva trascorso momenti così appaganti, ma che tutto sarebbe stato perfetto se ci fossero stati anche i suoi genitori.

Improvvisamente, non sapeva come, si era fatta sera e suonarono le campane che annunciavano la messa di mezzanotte. Non si trovavano sul limitare di un bosco? Lo chiese al compagno, il quale, invece di rispondere, prendendolo per mano gli disse:

Andiamo!”.

Uscirono. Il bosco era scomparso, c’era invece davanti alla casa un piazzetta e la chiesa antica che la sovrastava, la Matrice, che lui conosceva.

Entrarono. C’era molta gente. La messa era cominciata e tutti cantavano “Adeste fideles”. Che canto fantastico, sublime! Si sedettero su una panca e proprio in quel momento scoccò la mezzanotte e, caduto un drappo rosso sull’altare maggiore, apparve il Bambinello di cera, disteso su di un giaciglio di paglia, sorridente e benedicente, mentre l’organo intonava con forza “Tu scendi dalle stelle” e accompagnava il canto dei fedeli.

Si udì un frullare di ali. Era l’aquila? Avrebbe voluto ringraziarla. No, era una colomba che attraversava la navata centrale. Il bambino si girò verso il compagno come per partecipargli l’ennesima sorpresa, ma era scomparso. Al suo posto invece si era come materializzato suo padre che sedeva accanto a sua madre, ed entrambi

gli sorridevano, complici. Pensò: ma allora il compagno che gli somigliava tanto e suo padre, Aurelio, erano la stessa persona, in due momenti diversi della vita?. Mentre rifletteva su questo mistero ed era invaso dalla felicità per aver ritrovato i genitori, le campane cominciarono a suonare in segno di giubilo, a lungo, insistenti. Tanto insistenti che il bambino si svegliò.

Attraverso l’imposta socchiusa della finestra della sua cameretta su in mansarda la luce filtrava luminosa, mentre le campane della Cattedrale suonavano a distesa.

Che bello: era Natale!