sabato 23 gennaio 2016

Piazza San Pietro, di Renzo Montagnoli



Piazza San Pietro
di Renzo Montagnoli


Quando, in un ormai quasi lontano passato, andavo a Roma per motivi di lavoro e, a volte, vi restavo per tre-quattro giorni, avevo l’abitudine, dopo cena, di fare due passi per la città, onde poter vedere almeno l’esterno di quegli edifici monumentali che, data l’ora, non potevo visitare. Erano delle camminate non certo brevi e quasi sempre la mia meta era la Basilica di San Pietro e la sua omonima piazza. Già imboccando via della Conciliazione lo sguardo volgeva verso l’alto per ammirare, nell’oscurità incipiente, le forme maestose del cupolone, ma il meglio era quando arrivavo nella piazza, che studiavo quasi nei minimi particolari e che ogni volta mi sembrava un gigantesco abbraccio. Lo scorso anno, dopo un periodo lungo di assenza, sono ritornato a Roma per motivi unicamente turistici e se il giorno dell’arrivo ho potuto finalmente visitare la basilica, l’indomani mattina (era domenica) mi sono recato a piazza San Pietro, giusto in tempo per presenziare all’Angeluas di Papa Francesco. Sarà stata l’emozione di trovarmi, pur semplice puntino in una moltitudine di fedeli, davanti a un pontefice il cui linguaggio semplice, ma denso di significati raggiunge direttamente il cuore, sarà stato forse anche l’effetto del trovarmi di fronte al tempio della cristianità, sta di fatto che mi ha colto un’emozione che quasi mi impediva di ammirare quella piazza alla luce naturale del sole. Tuttavia, prima di lasciarla, l’ho fotografata mentalmente, cercando di cogliere quei significati che sono racchiusi in essa, oltre all’indiscutibile pregio architettonico. È cos’ che ho pensato che quel colonnato architravato è effettivamente simile a due braccia protese per raccogliere in sé gli uomini, un simbolo della religione che vede una chiesa che, pur nel messaggio evangelico, scende sulla terra a proteggere l’umanità, come una madre stringe a sè i suoi figli per dimostrare sì il suo affetto, ma anche per affermare che, ove ve ne fosse bisogno, lì ci si può rifugiare. È vero che in passato la chiesa romana non è stata un luminoso esempio di bontà e di carità, ma nei tempi che cambiano sembra ora aver ritrovato quella sua naturale attitudine a difendere gli uomini dalle ingiustizie perpetrate da altri uomini.
Dopo questo lungo preambolo con cui ho inteso spiegare cosa rappresenti per me questa piazza mi pare sia giunta l’ora per parlarne in termini storici e architettonici.
La piazza e la sua basilica sono edificate in una assai piccola valle sita fra due colli (Vaticano e Gianicolo) su un terreno in cui in epoca romana c’erano il Circo di Nerone, la via Cornelia e un piccolo cimitero dove fu sepolto l’apostolo Pietro, dopo essere esserestato martirizzato nel vicino Circo. Per tale motivo nel quarto secolo fu eretta la basilica costantiniana, con antistante una piazza, entrambe ben diverse dalle attuali. Nei secoli ci furono diversi interventi, ma quello più importante e risolutivo prese forma, almeno come studio e progetto, nel XV secolo per volontà del papa Giulio II. I lavori per l’edificazione della nuova basilica furono assai lunghi e non interessarono la piazza, della cui sistemazione cominciarono a occuparsi solo nel XVII secolo, anche perché se la grande chiesa era una meraviglia riscontrabile da tutti, lo spazio antistante sembrava avulso dallo stile architettonico a cui era improntata la basilica, sminuendone peraltro il valore, proprio come una pessima cravatta su un abito di pregio.
Non si trattò però di una pratica semplice e rapida, anche perché c’erano delle obiettive difficoltà finanziarie, che vennero superate con l’idea della Fabbrica di San Pietro di affittare o vendere gli immobili di pregio che si affacciavano sulla piazza stessa. Dopo progetti e controprogetti nel 1657 venne approvato quello del Bernini che prevedeva colonnati architravati a formare dei porticati, requisito quest’ultimo che rispondeva anche all’esigenza della tradizionale processione del Corpus Domini.
Il progetto di Bernini è veramente geniale perché prevede, dinnanzi alla facciata della basilica, un ampio spazio trapezoidale, la cosiddetta piazza retta; ne risulta una visione prospettica di San Pietro che impreziosisce l’edificio, dandogli respiro, e nello stesso tempo, grazie ai colonnati, che ne sembrano appendici e formano un perfetto ovale, offre appunto al visitatore quella sensazione di grande abbraccio che ho provato anch’io.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti e credo che l’architetto non avrebbe potuto fare di meglio, perché piazza e Basilica sembrano un tutt’uno, una perfetta integrazione senza che un’opera sminuisca l’altra.
Una piccola nota: nella piazza sorge, come quasi alle sue origini, un obelisco, come altri se ne trovano a Roma. Questo, che è chiamato Vaticano, svetta verso il cielo per un’altezza di 25,5 metri; è di origine egiziana, ma è privo di geroglifici. Prima della sua attuale collocazione, faceva bella vista nei pressi del Circo di Nerone e, dato che come abbiamo appurato, la basilica e la piazza sorgono dove un tempo esisteva anche questo anfiteatro, non poteva trovare migliore collocazione.

Fonti:
- Wikipedia ( www.wikipedia.org);
- Piazza San Pietro (www.piazzasanpietro.org), in cui è stata reperita anche la fotografia a corredo dell’articolo


Lo strano matrimonio di Maddalena Sanna, di massimolegnani

Lo strano matrimonio di Maddalena Sanna
di massimolegnani

-         No!
Non era ancora iniziato il Novecento, la gente vivacchiava al crepuscolo di un secolo lento a morire e nulla di nuovo sembrava potesse più accadere prima che finisse il ‘99, quando la voce cristallina di Maddalena con un solo e secco monosillabo fece crollare le certezze, assieme alla navata centrale del duomo di Nuoro. Dopo quel no, in un silenzio sepolcrale si sfilò dal polso il braccialetto di rubini e topazi e lo restituì a Bartolomeo, impietrito al suo fianco. Poi si voltò verso il padre che pochi minuti prima l’aveva accompagnata con fierezza all’altare e al suo braccio ora riluttante ripercorse a testa alta e passo maestoso il tappeto rosso cosparso di macerie fumanti e parenti moribondi.
Il rifiuto, officiato come un rito pubblico anziché nella penombra del proprio salotto, suscitò scalpore e, in assenza di spiegazioni ufficiali, diede adito a mille supposizioni, di volta in volta spacciate per certezze strappate alle confidenze di una serva al mercato o alla riluttanza della madre. Così Maddalena era stata folgorata da una crisi mistica e presto si sarebbe ritirata in convento (in convento in effetti avrebbe voluto rinchiuderla il padre furibondo). No, la ragazza si era ribellata a un matrimonio combinato dai genitori (al contrario, i genitori non erano mai stati entusiasti di Bartolomeo, giovane avvocato di assai vaghe speranze). Vi sbagliate, Maddalena mentre il fidanzato era militare a Udine, si era perdutamente innamorata di un altro e con questo, appena chetate le acque, si sarebbe sposata (in realtà gli eventi successivi, la giovane non si sposò con altri, smentirono questa ipotesi). Insomma ognuno si sentiva in diritto di dire la propria castroneria. Pochi indovinarono (almeno in piazza mentre al chiuso delle case già si sussurrava la verità) come si erano svolti i fatti.
Messa sull’avviso da una lettera anonima, il tuo promesso ti tradisce con Onorina Murgia, Maddalena, spirito fiero e carattere focoso, non ne aveva fatto cenno col fidanzato, ma aveva affrontato direttamente la rivale. Pare sia stato un incontro epico, denso di urla, minacce e qualche via di fatto. La mia bisnonna ottenuta (estorta?) la confessione di Onorina, strinse con questa un patto: le avrebbe lasciato per intero il suo uomo purchè non lo avvertisse della sua intenzione di rifiutarlo sull’altare. E così avvenne. Non aggiunse una parola, né quel giorno né poi, oltre quel fatidico NO. Ma chi doveva capire capì e non osò reazioni.
Già, ma se la mia bisnonna rifiutò Bartolomeo e non sposò altri, come posso io esistere e star qui a raccontare la sua storia? Semplice! Una decina d’anni più tardi, Bartolomeo, rimasto vedovo, non so se di Onorina o di una terza donna, tornò a bussare alla porta di Maddalena.
Dicono che lei avesse passato gli anni seduta in salotto come in riva al fiume cinese, sicura che prima o poi sarebbe arrivato quel momento. Alla domanda di Bartolomeo, inginocchiato ai suoi piedi, rispose semplicemente , come se il loro fidanzamento non si fosse mai interrotto.




Il declino della Cristianità, di Ferdinando Camon


Il declino della Cristianità
di Ferdinando Camon



Quotidiani locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 2 dicembre 2015





Le parole del vescovo di Padova o io non le capisco mentre le leggo o lui non le capiva mentre le pronunciava. Infatti ci è tornato sopra, cercando di dar loro un senso diverso da quello che avevano. Ma ormai le aveva dette. Intervistato sui casi di cronaca in cui, per non disturbare gli islamici, si nasconde o si camuffa il Natale, aveva risposto così: «Io farei tanti passi indietro pur di mantenerci nella pace, nell’amicizia e nella fraternità». Che vuol dire? Non cita il Natale, ma è del Natale che si sta parlando. Il Natale ricorda che Cristo è nato ed è venuto sulla Terra, fare un passo indietro cosa significa? Che non è nato e non è venuto? Certo che con questa posizione non si turbano gli islamici, ma si turbano i cristiani: è una posizione cristiana, questa? Le polemiche sul Natale dimostrano una cosa: non è in ballo il Natale, festeggiarlo o no, cantare canzoni natalizie o no, e neanche la tradizione, se mantenerla tutta o lasciarne perdere una parte. Queste polemiche dimostrano che è in atto il declino della Cristianità, stiamo perdendo la nostra identità, non sappiamo più chi siamo. Il Natale non è una festa qualsiasi. È l’inizio di una religione e di una civiltà, la civiltà nella quale viviamo. Si teme che, ricordando questa nascita, offendiamo la suscettibilità degli immigrati di altra religione? E si arriva al punto che, in una città, si fa il presepe ma senza il Bambino? Procedendo con questo principio, arriveremo a dire che non siamo nell’anno 2015, e conteremo gli anni da un altro inizio. È assurdo. Dire: «Siamo nel 2015» significa che 2015 anni fa è avvenuto qualcosa che ha riaperto la storia, facendola ricominciare. I musulmani ci dicono: «Siamo perfettamente d’accordo con voi, infatti noi rispettiamo il vostro Gesù, non vogliamo ignorarlo, è un grande profeta». Grazie, ma questo non ci rende fratelli. Perché per i popoli cristiani d’Europa e d’Occidente quello che è nato 2015 anni fa non è un profeta, come Maometto, ma è il figlio di Dio. La cultura e la storia dell’Occidente hanno girato su questo concetto, pro e contro. Non è un principio filosofico o culturale, è un evento. Il Cristianesimo è fondato su questo evento, e credere vuol dire credere in quell’evento. Per restare in Italia, quell’evento, e la fede che ne deriva, e la religione che ne è nata, ha riempito la letteratura che si studia nella scuole, da Dante Alighieri fino a Mario Luzi. Un ragazzo venuto da un’altra civiltà, e che ora studi qui, nelle superiori, non può capire nulla della nostra letteratura se non sa cos’è quell’evento, cosa significa, cosa ricorda. Molti anni fa ha fatto notizia (me ne sono occupato anch’io) un gruppetto di ragazzi e ragazze giapponesi, in gita turistica in Italia, che a Venezia avevano noleggiato una guida locale, che gli spiegasse tutto quel che vedevano, in inglese. La guida gli spiegava piazze, chiese, dipinti, croci. A un certo punto una ragazza giapponese fa: «Scusi, ma che cos’è questa cosa che voi chiamate “croce”? L’abbiamo vista anche a Firenze, che cos’è?». Stava succedendo questo: arrivava in Italia una porzioncina di umanità che non sapeva cos’è la croce. Poteva capire qualcosa, della nostra civiltà? Nulla. Però quelli eran giovani turisti ricchi, in viaggio di piacere, che poi tornavano a casa, a vivere secondo la loro civiltà. Nessun problema. Ma i ragazzi islamici in casa nostra, iscritti nelle nostre scuole, son qui per restare, per vivere qui, lavorare qui, sposarsi e farsi una famiglia. È giusto, e gli serve, che capiscano cos’è questo paese, che storia ha, che civiltà s’è costruito. Non tutti amano questa civiltà, neanche fra quelli che la sfruttano e ne godono i privilegi. I padri costituenti d’Europa, quando han negato le radici cristiane, han mostrato una colossale ignoranza. Quando l’Onu chiama il Papa a parlare dei problemi dell’umanità, e lo ascolta e lo applaude, fa una cosa saggia. La città di Sassari, che impedisce all’arcivescovo di dire quattro parole nelle scuole sotto Natale, commette una sciocchezza. La civiltà occidentale è fatta di tante componenti, e il Cristianesimo non è la minore. Nascondere questa componente significa amputare la civiltà. Se gratti coloro, presidi, sindaci, sindacalisti, che non vogliono il presepe, non vogliono i canti natalizi, scopri che non sono amici dei bambini islamici, ma sono semplicemente nemici del Cristianesimo. Non è il caso del vescovo di Padova, spero, ma però non doveva finire tra loro, neanche per incautela.





Immigrazione: calcolo politico o incapacità?, di Lorenzo Russo


Immigrazione: calcolo politico o incapacità?
di Lorenzo Russo

Urrà, c'è qualcuno che ha trovato la formula per migliorare questo mondo!
Il senso profondo della fratellanza supera ogni tentennamento sulla probabilità di migliorarlo e apre già le porte a chiunque voglia venire.
Lavoro, quello che permetterebbe di assumerlo, ce n'è abbastanza, anzi in esubero, tanto i già disoccupati non contano nulla e i già poveri possono continuare a vivere come finora hanno fatto.
Il tutto ha di promessa ingenua, di gara a dimostrare di essere una persona di buon cuore, di quelle persone che non tengono conto della riuscita.
La realtà verrà fuori dopo, quando sarà giunto il momento della resa dei conti, perchè non si saprà come coprire i costi dell'accoglienza e del mantenimento senza aumentare le tasse e quando il confronto con i residenti non corrisponderà alle aspettative poste. .
Tanta incapacità può risiedere solo nella mente di una classe politica priva del coraggio di dire di no o che segue un progetto tenuto in riserva, come anche nelle menti dei sognatori.
La chiesa è tra di loro, anche perchè con questa politica si è arricchita sempre di più.
Che differenza con le altre istituzioni che, al contrario, devono infine fare i conti numerici sull'operato e presentarlo ai cittadini già tartassati oltre misura!
Lo scontro tra la realtà acerba e intransigente e le richieste d'amore verso l'Umanità intera esiste da quando c'è l'uomo.
Chi, io compreso, non vorrebbe un mondo unito nel senso della fratellanza? Ma come sia possibile realizzarlo finora non c'è riuscito nessuno.
La comunità umana vive in uno stato perpetuo di bisogno d'amore che poi s'infrange al confronto sul come realizzarlo, simile a una ferita che sempre si riapre nonostante i continui tentativi di guarirla.
L'uomo buono soffre e piange in  al cospetto di tante tragedie, ma non può fare altro che chiudersi, diventare acerbo, assente e affermare che infine non ha creato lui il mondo.
Di fatto, me lo deve chiarire chi crede che sia possibile creare lavoro per tutti, quando la disoccupazione aumenta costantemente, quando siamo già alla bella cifra di sette miliardi e più di abitanti e nessuno capisce che è tempo di stabilizzarla se non già diminuirla.
È meglio allora abituarsi al fatto che il mondo non è migliorabile e che quindi bisogna accontentarsi del poco di bene che si riesce a fare.
Affari, affari è lo slogan che domina anche oggi la vita terrena e gli affaristi sono poco propensi a migliorarlo, in quanto rimarrebbero senza mansioni e profitti.
Come era migliore il mondo quando si viveva del necessario, quando l'uomo viveva in piccoli gruppi e la convivenza era una necessità per sopravvivere!
Erano i tempi nei quali l'accoglienza era riconosciuta come fattore naturale e quindi dovuto.
Chi accoglieva veniva considerato migliore.
Di fatto, la povertà unisce mentre il benessere divide, per il timore di perderlo e con esso anche l'accettazione e il riconoscimento dei valori personali nella società, che assumono così un valore particolare, superbo.
Sotto questo aspetto l'accoglienza va, pur con dei limiti, tutelata.
Troppo pretenzioso è diventato l'uomo della società materialmente più sviluppata, secondo il motto che più si è ottenuto più si vuole ancora, ma per lo meno non di meno, sulla scia dei ricchi che sempre più si arricchiscono.
La pretenziosità ha strapazzato il sistema sociale, fino a renderlo non più finanziabile, e qui l'accoglienza dei nuovi arrivati potrebbe offrire alla classe politica una buona opportunità di rivedere verso il basso le prestazioni sociali, da tempo in discussione ma sempre rimandata per timore di rivolte popolari.
Già questo crea timori e antipatia, fino a sfociare in rabbia e violenza in chi potrebbe essere tra i primi a perdere lo stato sociale raggiunto, da rendere difficile se non impossibile la fusione delle culture.
Considerando l'intensità del flusso dei migranti verso la EU, mi chiedo se dietro la decisione di assumere chiunque voglia venire non si nasconda il calcolo di snazionalizzare i popoli dell'Unione e facilitare così la costituzione del progettato da anni stato federale.
La tendenziale avversità dei popoli europei contro la EU mi fa pensare a questa mossa strategica.
Di certo non solo verrà richiesto da ogni cittadino coraggio, pazienza e lungimiranza sui vantaggi dell'immigrazione, che le classi del potere fanno credere di poter realizzare nel prossimo futuro, bensì saranno necessari nuovi e ingenti finanziamenti pubblici e privati per sostenere un ulteriore e massiccio sviluppo dell'economia.
Inevitabilmente sorge un processo di cambiamento che richiede dal cittadino più di quanto sia solitamente pronto ad accettare, questo perchè ognuno ha qualcosa da imparare dall'altro.
Ritengo che sarà necessario evitare abusi di richieste da parte dei migranti, di quelle prestazioni sociali di cui nemmeno i cittadini usufruiscono, considerata l'elevata percentuale di povertà e di disoccupazione esistente.
Ai migranti consiglio d'essere umili, diligenti e ordinati, per non incrementare l'ostilità iniziale.
Questo almeno all'inizio del loro soggiorno.
Ho sempre sostenuto che le mutazioni storiche umane sono il riflesso di quelle che accadono nell'Universo.
Di fatto niente è stabile, immutabile. Ogni mutazione crea energie nuove e indispensabili per rigenerare le vecchie, logorate nella loro essenza.
È giusto quindi ritenere che le mutazioni in corso siano parte integrante del processo universale, evolutivo o no, per mantenere in vita gli elementi del processo stesso.
Inevitabilmente l'Europa cambierà nei prossimi decenni, per cui mi auguro che le forze progressiste abbiano il meglio su quelle tradizionali e conservatrici.
Sta ora alla classe politica creare condizioni di vita idonee a superare la difficile prova di convivenza, come al cittadino europeo di comprendere il senso del nuovo.
Nessuno può progredire senza impegno serio e costruttivo, senza apertura al nuovo, senza il coraggio di affrontare i rischi che ne derivano, perchè solo così è possibile cogliere i frutti migliori della vita.
Il fallimento dell'accoglienza creerebbe conflitti sociali gravissimi che potrebbero condurre al caos.
Di certo è necessario porre un limite ai flussi, adeguandolo al grado di accettazione, di possibilità si localizzazione e integrazione.
Il troppo ha sempre bloccato le migliori intenzioni svolte verso il bene.
Problemi senza fine, quindi, che richiedono sforzi non solo economici, bensì educativi e istruttivi, affinchè tutti ne traggano un profitto.
Questo l'ha capito anche mamma Angela, la quale all'inizio, aprendo le frontiere, non voleva dare l'impressione di ricadere nelle colpe del passato del suo paese, ma giorni dopo ha incominciato a correggersi davanti alla impressionante e infinita marea di migranti.
Le colpe del passato sembrano essersi rivolte verso il polo opposto con la stessa intensità e ripercussione sociale ed economica che mi fanno ricordare le leggi della fisica e mi convincono che tutto cambia per rimanere come prima.
Ma una cosa è certa: è necessario creare lavoro, se non si vuole il fallimento dell'Europa e della politica di sostenimento globale.
E qui devono essere gli studiosi e promotori dell'economia a sviluppare un sistema che si adegui a un mondo che cambia sempre più velocemente.
Al posto dell'attuale sistema, dell'incremento del consumo per mantenerlo in vita, si dovrebbe aver cura della ripartizione dei beni di prima necessità senza creare eccessi e vizi di consumo.
Ripeto ancora una volta: lavoro che tenga occupate le popolazioni e una condotta di vita idonea a sostenere la coesistenza tra i popoli e la salvaguardia dell'ambiente.
Lavoro collegiale, quindi, e non più per un profitto individuale senza limite, come è tuttora.
I benestanti non hanno nulla o poco da perdere, mentre il popolo rischia di venire ancor più tartassato dalle tasse e conseguentemente di impoverire e sentirsi abbandonato come fu nel passato. Questo perchè è chiaro che i costi verranno spslmati su di esso.
Sarebbe un guaio per la democrazia e si rischierebbe un ritorno della dittatura.



Erano del color del grano. di Renzo Montagnoli


Erano del color del grano
di Renzo Montagnoli


Se ci ripenso ancora non capisco
come una vita possa essere sprecata.
Era la Elda di certo la più bella
con quei capelli sciolti color del grano.
Tanti in paese le ronzavano intorno
come le api che svolazzano sul miele
e il miele era quel corpo flessuoso
quell’incedere lento e silenzioso
quasi una ballerina che danzava sulle punte
e gli occhi celestini brillavano di luce
ricamavano sottintesi intorno al bel nasino
che appena s’affacciava su due labbra voluttuose.
Era di certo la più bella e lo sapeva
ma ai tanti che avanti si facevano
scuoteva il capo e si negava.
Passata l’età più bella
nell portamento ancora altero
si notava però qualcosa che cambiava
e come una rosa colta alla mattina
che il giorno dopo già sfiorisce
nel tempo che implacabile correva
l’Elda s’appassiva sempre più
e già nessuno la cercava,
guardata solo dalle vecchie del villaggio
che a mezza voce dicevano
che chi troppo vuole nulla stringe.
Oggi in tre gatti l’abbiamo accompagnata
all’ultima dimora e lungo il viale
fiancheggiato dai cipressi
mi son chiesto se in quella vita di rifiuti
almeno l’ombra di una carezza fosse
scivolata sul suo viso
se almeno maschie dita
si fossero intrufolate fra quei capelli
un tempo del color del grano
e in ultimo del grigio  della cenere
che era rimasta da una vita bruciata.

Da Il mio paese



I Borgia, di Roberto Gervaso



I Borgia
di Roberto Gervaso
Club Italiano dei Lettori Rizzoli
Storia
Pagg. 387
ISBN  978-6600193403
Prezzo € 5,50


Affari di famiglia



Rodrigo, Cesare e Lucrezia Borgia sono nomi che evocano un passato fatto di sfrenata lussuria, di intrighi, di ferocia e di veleni.  Infatti i loro contemporanei ci hanno sempre fornito questo ritratto, li hanno sempre presentati come la malvagità al massimo livello, non esseri umani quindi, bensì mostri da esecrare in eterno. L’unanimità dei giudizi, fatta qualche rara e sporadica eccezione, sembrerebbe dimostrare che il quadro fornito possa rispondere a verità, ma sorge più di un dubbio, soprattutto ove si consideri che gli altri potenti rinascimentali non erano certo degli stinchi di santo. E allora perché così tanta acredine, perché un odio così radicato? È probabile che sia stata la reazione per lo scampato pericolo delle signorie che regnavano su un’Italia spartita in tanti staterelli e che fece gola a Rodrigo Borgia, allorché era pontefice con il nome di Alessandro VI, al fine di dare agli eredi possedimenti e relativa sovranità trasmissibili di padre in figlio. Certo, il Papa era un monarca assoluto, che governava su ben due regni: lo stato delle anime e quello pontificio. Però il suo potere derivava da un elezione e non poteva essere trasmesso; di conseguenza, l’unico modo per assurgere agli onori di un casato era solo quello di impossessarsi delle terre altrui, su cui dominare. E se ne ebbero timore piccole signorie come i Gonzaga a Mantova e gli Este a Ferrara, quasi altrettanta paura la provarono gli Sforza a Milano, i Patrizi della Serenissima a Venezia e i notabili di Firenze..
Scrivere quindi dei Borgia, riportare la loro storia non è un lavoro facile, fra tante fonti preconcette e necessita di procedere con la massima razionalità ed è ciò che ha fatto Roberto Gervaso con I Borgia. Prima di tutto ha voluto rappresentare com’era il panorama italiano, delineando in modo rapido, ma esauriente quali erano le famiglie dominanti all’epoca, e con criteri più approfonditi la situazione a Roma, capitale dello stato pontificio. Le notizie costituiscono quasi un’indispensabile premessa, perché altrimenti non sarebbe possibile comprendere il contesto in cui Rodrigo Borgia, prima vicecancelliere sotto ben cinque papi e poi pontefice lui stesso con il nome di AlessandroVI, ebbe a operare. Né meno importante è la parte riservata ai suoi predecessori, nepotisti, avidi e lussuriosi. L’ascesa di Rodrigo, i suoi primi passi  come sovrano assoluto, procedono congiuntamente con le vicende dei figli, di cui i più celebri furono senza ombra di dubbio Cesare, detto il Valentino, e Lucrezia.
Gervaso, nel caso di avvenimenti più importanti, non tralascia peraltro di citare l’opinione di loro contemporanei, esprimendo pure la sua secondo un criterio improntato esclusivamente al raziocinio. Ed è qui che si apprezza la valenza dello storico, capace di raccontare i fatti e di accogliere, di più o di meno, le versioni che altri diedero, senza mai affermare nulla, ma cercando solo l’unica spiegazione possibile. Lo stile è indubbiamente fluente, mai greve, spesso venato da una salutare ironia che talvolta trascende a una moderata comicità, come nel caso della descrizione dell’aspetto del re di Francia Carlo VIII, che mi ha strappato più di un sorriso. Inoltre è consapevole che dal suo modo di procedere potrebbe essere scambiato per un difensore dei Borgia, il che non è vero, e allora il suo tono, soprattutto quando si tratta di darne un giudizio, si fa più distaccato e si accentuano invece i pareri che a suo tempo diedero ii contemporanei. Non manca tuttavia del senso di pietà, come quando descrive la morte di Alessandro VI, per malaria, la mancanza di rispetto per le sue spoglie da parte dei camerieri personali, oppure la fine ardimentosa di Cesare, caduto in un’imboscata in Spagna e crivellato da colpi di lancia. Si sbilancia solo per Lucrezia, una figura vittima della ragion di stato, dolce, mite, ubbidiente, non certo l’avvelenatrice come viene ingiustamente ricordata; se a Roma con il padre e il fratello forse aveva condotto una vita al limite della decenza, a Ferrara, diventata sposa di Alfonso d’Este, si era ampiamente riscattata, tanto che morì quasi in odore di santità.
Che giudizio pertanto si può dare di Rodrigo e Cesare Borgia?  Il primo era la mente, il secondo il braccio, pur non essendo certo stupido. Sognarono e quasi riuscirono a concretizzare l’impossibile; il primo certamente non è stato un esempio del buon cristiano, quale dovrebbe essere un papa, ma rese alla Chiesa un grande servigio, rendendola più forte e con confini dello stato più stabili; pessimo papa, potremmo dire, ma di certo Rodrigo fu un grande statista e riguardo ai metodi utilizzati erano quelli all’epoca in voga in ogni signoria. Cesare era diabolico, capace di tessere inganni intricati, ma fu anche un grande condottiero e un buon amministratore dei territori conquistati; vendicativo, non andava tanto per il sottile, ma in un’epoca in cui scannarsi pareva essere il passatempo preferito, lui di certo non era quel mostro che la storia descrive. Entrambi erano, né più né meno, uomini del loro tempo, entrambi sognarono di fondare un regno ed entrambi fallirono, più per sfortuna che per incapacità. Quel che è certo è che se avessero vinto, la loro memoria sarebbe ben diversa, perchè, come si sa, la storia è scritta sempre dal vincitore.
I Borgia è un libro bellissimo, che si legge con la stessa passione  e attrazione di un thriller avvincente, ma qui non c’è finzione, c’è solo la descrizione di quanto accaduto in uno scorcio del Rinascimento.

Roberto Gervaso è nato a Roma il 9 luglio 1937.
Ha studiato in Italia e negli Stati Uniti e si è laureato in Lettere moderne, con una tesi su Tommaso Campanella. Collabora a quotidiani e periodici, alla radio e alla televisione, e da decenni si dedica alla divulgazione storica. Con Indro Montanelli, per Rizzoli, ha firmato sei volumi della "Storia d'Italia": L'Italia dei secoli bui, 1965- LItalia dei comuni, 1966 - L'Italia dei secoli d'oro, 1967 - L'Italia della Controriforma, 1968 - L'Italia del Seicento, 1969 - L'Italia del Settecento, 1970. Ha pubblicato: sette biografie, Cagliostro (Rizzoli, 1972), Casanova (Rizzoli, 1974), I Borgia (Rizzoli, 1976), Nerone (Rusconi, 1978), Claretta(Rizzoli, 1982), La Monaca di Monza (Bompiani, 1984) e La BellaRosina (Bompiani, 1991); un grande giallo storico, Scandalo a corte (Bompiani, 1987); una storia della Massoneria, I fratelli maledetti (Bompiani, 1996); due raccolte di grandi storie d'amore, Appassionate (Mondadori, 2000) e Amanti(Mondadori, 2002); sei raccolte d'interviste, Il dito nell'occhio(Rusconi, 1977), La pulce nell'orecchio (Rusconi, 1979), La mosca al naso (Rizzoli, 1980), Dente per dente (Rizzoli, 1983),Sotto a chi tocca (Bompiani, 1994) e Salute! (Mondadori, 2001); una raccolta d'interviste immaginarie, A tu per tu con il passato (Bompiani, 1994); tre volumi di ritratti contemporanei,Spiedi e spiedini (Rizzoli, 1981), I Sinistri (Mondadori, 1997) e I Destri (Mondadori, 1998); un pamphlet politico sull'Italia di oggi, Peste e corna (Newton Compton, 1996); tre raccolte di aforismi, Il grillo parlante (Bompiani, 1983), La volpe e l'uva(Bompiani, 1989) e Aforismi (Newton Compton, 1994); un volume di confessioni, Di me tutto. Lettera a mia madre(Rizzoli, 1985); uno di galateo erotico, Se vuoi che t'ami...(Bompiani, 1986); uno sui sentimenti, Voglia di cuore(Bompiani 1993). I suoi ultimi titoli sono: Italiani pecore anarchiche (Mondadori, 2003), Qualcosa non va (Mondadori, 2004), Ve li racconto io (Mondadori, 2006) e Io la penso così(Mondadori, 2009).
Ha vinto numerosi premi, fra cui due Bancarella, con L'Italia dei comuni (1967) e Cagliostro (1973). I suoi libri sono tradotti negli Stati Uniti, in Canada, in America Latina, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone, Bulgaria, Polonia, Romania.

Renzo Montagnoli

Il disertore, di Giuseppe Dessì



Il disertore – Giuseppe Dessì – Ilisso – Pagg. 136– ISBN  978-88-6202-111-- € 4,90 (e-book)


Tra le opere che trattano della Grande Guerra è molto utile segnalare al lettore attento  questo scritto di  Giuseppe Dessì, autore sardo nato a Cagliari nel 1909,  un’adolescenza trascorsa  però alle pendici del monte Linas,  precisamente a Villacidro,  paese che con la Fondazione omonima  ne mantiene vivo il ricordo, lo studio delle opere e l’organizzazione di un premio letterario giunto alla sua XXX edizione.
Questo romanzo breve venne pubblicato da Feltrinelli nel 1961 e successivamente anche da Mondadori, oggi è fuori catalogo , chi è interessato alla lettura del cartaceo può ricercare il volume fra i tipi di Ilisso, casa editrice nuorese.
Al centro dello scritto è la piccola comunità di Cuadu (Villacidro) agli inizi degli anni venti  quando il ricordo della guerra è ancora così vivo da generare non solo l’iniziativa di erigere un monumento ai caduti del paese, ma anche una serie di moti dell’animo e dell’intelletto che sfociano nel mare magnum dell’istituzione di nuovi partiti politici (Psd’az.) , del dissenso nutrito da rivendicazioni di carattere sociale ( il bienno rosso con protagonisti i minatori del Sulcis già trucidati in una sanguinaria repressione  nel 1904 nei moti di Buggerru) e del prevalere della violenza e dei privilegi attraverso l’istituzione dei Fasci di combattimento e l’avvento del fascismo stesso.
La storia nazionale è alimentata da quella regionale, non viceversa. Qui a noi interessa evidenziare il piccolo fenomeno sociale , mirabilmente rappresentato da Dessì, che concorre a innescare le stesse dinamiche che in ambito nazionale portarono al periodo oscuro successivo.
Mariangela Eca è una madre chiusa nel suo dolore privato: ha perso i suoi due figli in guerra e la retorica del ricordo e della celebrazione mal si sposano col suo sentimento più vicino alle parole “inutile strage”, impronunciabili.  Vive vicino alla casa del viceparroco Don Pietro Coi e ne è la sua domestica da una ventina d’anni, lo vorrebbe fare a titolo gratuito per sdebitarsi col prete ai suoi occhi capace a suo tempo  di curargli il figlioletto col potere della preghiera,  e non accetta retribuzione che però regolarmente il sacerdote le  versa in un libretto di risparmio. Saranno questi soldi, ormai ingente somma , a muovere l’azione di questa mater dolorosa la quale deciderà  di devolverli  per la costruzione del monumento funebre, innescando però all’interno della comunità delle dinamiche latenti che porteranno al conflitto aperto tra le varie parti sociali. Progressivamente, attraverso l’uso sapiente della tecnica della focalizzazione, verranno alternati i punti di vista della donna e del sacerdote che lentamente contribuiranno,  anche tramite ampie analessi,  a scoprire quale vero rapporto leghi i due.
 La scrittura asciutta, tersa e limpida arriva più volte al cuore ed è capace di emozionare delicatamente. Poche righe, niente fronzoli e un  realismo pungente animano le pagine migliori sulla scia di un debito artistico evidente e riconducibile al Lussu  di “Un anno sull’altipiano” e di “Marcia su Roma”, debito non solo letterario ma umano e di pensiero considerato che il messaggio che lascia questo scritto è profondamente pacifista. Il disertore  e il fenomeno della diserzione sono l’altro importante punto di frattura,    contribuisce ad alimentare  il secondo piano della narrazione attraverso l’accostamento all’humus culturale della latitanza da bandito,suscita la riflessione sul potere e sul delicato equilibrio su cui si fonda la legge in tempo di guerra e in tempo di pace.

Siti


Orizzonti di gloria, di Humphrey Cobb



Orizzonti di gloria
di Humphrey Cobb
Castelvecchi Editore
Narrativa romanzo storico
Pagg. 231
ISBN  9788868261986
Prezzo € 16,50


Il delirio del potere


Vi ricordate l’omonimo film, uscito nel 1957, diretto da Stanley Kubrick e magistralmente interpretato da Kirk Douglas? La pellicola è una libera trasposizione di questo libro scritto da Humphrey Cobb, narratore anglosassone che ha svolto per lo più l’attività di sceneggiatore, ma che con questo romanzo ha realizzato non solo la sua opera migliore, ma anche uno dei grandi capolavori della letteratura mondiale, non dissimile, per livello di eccellenza, a opere come Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Erich MariaRemarque, e Un anno sull’altipiano, di Emilio Lussu. Sarebbe facile, di primo acchito, paragonare Orizzonti di gloria a questi due grandi romanzi ed etichettarlo come una prosa pacifista, come un’accusa spietata all’insensatezza e alla bestialità della guerra: sì,Cobb denuncia quanto di inumano ci sia in un conflitto, ma va anche ben oltre, come cercherò di seguito di spiegare meglio. La vicenda narrata è tutto sommato semplice r anche piuttosto lineare. È in corso la prima guerra mondiale, il fronte è quello occidentale e a un reggimento francese, duramente provato da furiosi combattimenti e che si avvia alle retrovie per un più che meritato periodo di riposo, viene imposto dalgeneraleAbsolant, comandante la divisione, un uomo ambizioso, gretto, senza cuore e che sogna la Legion d’onore, di tornare indietro e di assaltare una posizione tedesca, il formicaio, pressoché imprendibile. Si prospettano perdite immani, l’esito infausto è quasi scontato, ma se il colpo riesce la carriera è assicurata e l’onorificenza tanto agognata verrebbe senz’altro conferita.  Nonostante le rimostranze del colonnello Dax, comandante del reggimento, che cerca di dimostrare l’insensatezza di una simile decisione, l’attacco s’ha da fare. Dax è un militare, un uomo che ha però un po’ di umanità, si batte contro questa decisione assurda, ma tutto è inutile e così, come prevedibile, l’assalto al formicaio fallisce, anzi gli uomini non riescono nemmeno a uscire dalle trincee, dilaniati dalle bombe dell’artiglieria tedesca e falciati dalle raffiche di mitragliatrice. Da notare che, come anche nel film, il nemico non si vede mai e si manifesta solo con l’impersonalità delle bombe e dei proiettili, insomma quasi una metafora di un nemico che è soprattutto in noi. Il generale Absolant vede così svanire i suoi sogni di gloria e già che buono non è si incattivisce ulteriormente e anche per giustificare l’assurdità del suo ordine di conquistare una posizione imprendibile fa ricadere la colpa sui poveri soldati, accusandoli di codardia di fronte al nemico. Vorrebbe procedere alla decimazione, ma il comandante d’armata è dell’idea che sia eccessivo, e quindi decide che siano quattro militari (poi diventati tre per la ferma decisione di un comandante di compagnia di non consegnare un uomo da sacrificare) ad essere presi a caso per sottoporli a un giudizio, già precostituito, di una corte marziale sommaria, cioè senza possibilità di appello e di grazia. Le pagine di questo processo farsa e i preparativi, nonché le fasi della fucilazione, sono senz’altro il meglio del romanzo e provocano nel lettore diverse emozioni, che vanno dalla indignazione a una intensa commozione.
Ci si chiede però il perché un comportamento simile, perché il generale dell’armata accolga, se pur in parte, il desiderio di vendetta del comandante Absolant. Che senso può avere fucilare degli individui per un reato che non hanno commesso? La conclusione è che nel mondo la giustizia non esiste mai, mentre l’ingiustizia é la norma, ma che soprattutto quegli uomini non vengono fucilati per un delitto che non hanno commesso, ma come esempio agli altri, che d’ora in poi sapranno che non esistono alternative: o morire per la vittoria, oppure morire davanti a un plotone di esecuzione. Chi potrebbe salvarli, cioè il comandante d’armata, non lo fa, perché non solo è convinto che l’esecuzione costituisca il miglior monito, ma anche per quella perversa prevaricazione che consente a uomini indegni anche del loro grado di dimostrare il loro potere assoluto, per l’inconsapevole appagamento che costoro possono ritrarre nel decidere il destino di esseri umani e che con ogni probabilità ripaga ampiamente gli insuccessi derivanti unicamente da una perniciosa miopia.
È inutile che aggiunga che Orizzonti di gloria merita ampiamente di essere letto.   


Humphrey Cobb  (1899 – 1944), sceneggiatore e romanziere, nato a Siena da genitori anglosassoni. Dopo aver prestato servizio nell’esercito canadese per tre anni durante la Prima Guerra Mondiale, rientra negli Stati Uniti per lavorare dapprima nel mercato azionario, poi nella marina mercantile, nell’editoria, in pubblicità, e infine per l’Office ofWar Information – antesignano della Cia – redigendo materiale di propaganda. Cobb è inoltre autore di None But the Brave(1938) e della sceneggiatura del film San Quintino (1937) con Humphrey Bogart.

Renzo Montagnoli