Pronto soccorso dell’italiano
di Lorenzo Montanari
Didattica
Collana Orso blu
Pagg. 160
ISBN 978-88-350-2683-9
Prezzo € 9,00
C’era una volta l’italiano
Da diversi anni assistiamo a un
graduale svilimento, se non addirittura a un imbarbarimento, della nostra
lingua.
Gerghi, frasari, idiomi locali
nazionalizzati, linguaggi del tutto atipici come il politichese regnano ormai sovrani e, quel che è peggio, si
trasferiscono dal parlato allo scritto, rendendo di fatto spesso
incomprensibili concetti che invece avrebbero bisogno di un’esposizione con uno
strumento univoco tale da essere accessibile nel settentrione come nel meridione
dell’Italia.
Anglicismi scimmiottati, neologismi
spesso inutili rendono la nostra lingua un’accozzaglia di parole e di suoni
propri di un mosaico le cui pietruzze sembrano messe lì a caso.
In questo contesto, di per sé
dirompente, si inseriscono anche i frequenti errori di chi, per corsi di studi,
dovrebbe essere in grado di ben esprimersi in italiano. Non si tratta di certo
di quel 20% di analfabetizzati, che danno la misura del basso livello della
nostra istruzione, bensì di tanti laureati, nonché scrittori, che procedono
imperterriti confondendo il congiuntivo con il condizionale, sbagliando gli
accenti e ignorando sistematicamente la punteggiatura.
Probabilmente il fenomeno è dovuto a un
cattivo insegnamento, come emerge anche nell’intervista che ho fatto a Lorenzo
Montanari, docente di materie letterarie, autore e/o coautore di testi
didattici, fra i quali questo Pronto
soccorso dell’italiano che non è e non vuol essere un Bignami della nostra lingua, ma che permette di chiarire più di un
dubbio, quel dubbio che dovrebbe esistere anche negli italianisti, perché è
evidente che tutto non si può sapere perfettamente, tanto che imbattersi in
qualche lacuna è sempre possibile.
Si tratta di un volumetto di facile e
rapida consultazione, giusto appunto per fugare dubbi o risolvere le piccole
problematiche che si incontrano soprattutto nello scrivere in italiano, giacché
la lingua parlata sovente nasconde queste carenze e il vero dilemma sorge
quando si tratta poi di mettere nero su bianco ciò che si intende dire.
La finalità del volume del resto è ben
evidenziata nell’introduzione dello stesso autore, che si rivolge al lettore
senza enfasi o saccenza, ma con la consapevolezza che qualche cosa occorre pur
fare per frenare il degrado della nostra lingua.
E così è nato questo Pronto soccorso che non ha la pretesa di
insegnare l’italiano, a cui altre sedi istituzionali dovrebbero essere
incaricate, ma di chiarire, di aiutare chi già è in possesso di una discreta
conoscenza, ma che comprende che a volte possono sorgere dubbi, per i quali è
necessaria una risposta certa e rapida.
Il libro è diviso in tre capitoli
tematici (Ortografia, La punteggiatura, Il congiuntivo e il condizionale, questi sconosciuti!) e porta due
appendici, veramente utili: Le pagine del
pronto soccorso, con l’indice ortografico delle parole più frequenti e
sbagliate e con le tabelle dei verbi al congiuntivo, e l’Appendice 2 con le
soluzioni degli esercizi Mettiti subito
alla prova.
Non mi dilungo troppo nella spiegazione
dei contenuti dei capitoli e al riguardo basta sapere che in Ortografia si parla, fra l’altro, degli
accenti e degli apostrofi, in La
punteggiatura si chiariscono gli usi della virgola, del punto e virgola,
ecc., e che in quello relativo al congiuntivo e al condizionale si fa piena
luce sul loro utilizzo, nonché sulla correlazione non infrequente fra un tempo
e l’altro.
Il tutto è posta in forma gradevole,
per nulla greve, al punto che spesso si finisce con il cercare, oltre a ciò che
serve, anche qualche cosa d’altro, quasi fosse un gioco sfogliare queste pagine
e mettersi alla prova.
E si impara, s’impara molto.
Jucunde
docet, dicevano i
latini, e lo stesso ho detto io quando ne ho ultimato la lettura.
Lorenzo Montanari (Castelfranco Emilia 09/04/1973),
laureato in Lettere ad indirizzo Filologico presso l’Università di Bologna, è
docente di Lettere di ruolo nella Scuola Secondaria e dottore di ricerca in
Filologia, dove ha anche ricoperto incarichi sia come professore a contratto
(per le cattedre di Grammatica Latina e Didattica del Latino) sia come
formatore SSIS. Ha, inoltre, tenuto incontri di aggiornamento nelle scuole. È
autore di edizioni di classici latini (ha curato tutte le opere di Cesare
presso l’editore Barbera e un’antologia di Quintiliano presso Cappelli) e di
testi scolastici tra i quali la collana «Nero su Bianco», dedicata alle abilità
di scrittura nel biennio della Secondaria di Secondo Grado. Per l’editore «La
Scuola», nella collana di Varia «Orso Blu», ha pubblicato, nel 2011, «Pronto
soccorso dell’Italiano. Ortografia, punteggiatura, congiuntivo».
Elenco delle pubblicazioni
·
A. Giordano Rampioni, L. Giancarli, L. Montanari, S.P.Q.R. –
Alla scoperta delle parole e della quotidianità di Roma antica, Cappelli
Editore, Bologna 2006. [ISBN: 9788837925062]
·
Giulio
Cesare, La guerra gallica, introduzione di G. Cipriani e G. M. Masselli,
nuova traduzione e note di L. Montanari, Barbera Editore, Siena 2006.
·
L.
Montanari, Poesie
d’amore, Laboratorio di Poesia e di Scrittura Creativa, scheda
documentata della tesi di specializzazione in: C. Bertacchini – M. R. Fontana
(a cura di), L’insegnante di qualità, vol. 2, CLUEB, Bologna 2006, pp.
197-208. [ISBN: 9788849124668]
·
L.
Giancarli, L. Montanari, Quintiliano – La scuola a Roma e il modello
di oratore-cittadino, Antologia da: Institutio Oratoria, Cappelli
Editore, Bologna 2007. [ISBN: 9788837911171]
·
autore
delle pagine di vita quotidiana e cultura romana nelle riviste Audelescens e Iuvenis (Eli Editore) per l’anno scolastico 2007-2008.
·
Giulio
Cesare, La guerra civile, introduzione di G. Cipriani e G. M. Masselli
(con un saggio di Federica Introna), nuova traduzione e note di L. Montanari,
Barbera Editore, Siena 2008.
·
L. Montanari, Esercizi
di ortografia, punteggiatura e logica della frase, Cappelli Editore,
Bologna 2008. [ISBN: 9788837911355]
·
L.
Reggiani - L. Montanari, Analisi sintattica con esercizi di
potenziamento lessicale, Cappelli Editore, Bologna 2008. [ISBN:
9788837911362]
·
P.
Bollini - A. Ghiretti - A. Grillini - L.
Montanari - B. Nanni - L. Reggiani - N. Paggetti, Esercizi di scrittura funzionale. Dal riassunto al saggio breve,
Cappelli Editore, Bologna 2008. [ISBN: 9788837911379]
·
autore
delle sezioni dedicate a Sallustio e a Tacito nell’antologia scolastica: Anna
Giordano Rampioni, Canone in versi e in
prosa, Cappelli Editore, Bologna 2008. [ISBN: 9788837911386]
·
articolo:
L. Montanari, Un’occasione (forse) perduta. Una proposta per la
Secondaria di primo grado, in Anna Giordano Rampioni, Manuale per
l’insegnamento del latino, Pàtron Editore, Bologna 2010. [ISBN:
9788855530873]
·
L.
Montanari, Ortopunzione,
Cappelli Editore / La Scuola, Brescia 2011. [ISBN: 9788837912093]
·
L.
Montanari, Pronto
soccorso dell’italiano, La Scuola, Brescia 2011. [ISBN: 9788835026839]
·
Giulio
Cesare, La guerra gallica, traduzione e note di L. Montanari,
Rusconi, Rimini 2011. [ISBN: 9788818027488]
·
Giulio
Cesare, La guerra civile, traduzione e note di L. Montanari,
Rusconi, Rimini 2011. [ISBN: 9788818027938]
·
L.
Azzoni, B. Nanni, L. Montanari, G. Carbone, Ratio. Un metodo per il
latino (volumi 1 e 2), Laterza, Roma-Bari 2012. [ISBN: 9788842110170 e
9788842110385]
Intervista a Lorenzo Montanari, autore del libro “Pronto soccorso dell’italiano” edito da
La Scuola.
È strana la vita e a volte riserva sorprese del
tutto inattese. Premetto che di Lorenzo Montanari
non ho mai letto nulla, e altrettanto posso dire che il suo nome mi era del
tutto sconosciuto fino a un paio di anni fa.
Poi, un giorno mi è venuta voglia di leggere due
opere di Giulio Cesare, La guerra gallica
e La guerra civile, pubblicate dall’editore Barbera
cone le traduzioni di Lorenzo Montanari ,
traduzioni che, senza svilire i testi originari, sono improntate a un
adeguamento del linguaggio all’uso corrente, e quindi risultano convincenti, ma
soprattutto avvincenti.
Questa è stata l’occasione per conoscere un tecnico
indispensabile nella filiera delle edizioni, qual’è appunto il traduttore,
figura spesso trascurata, ma determinante per confermare il successo di un
lavoro scritto in altra lingua.
Ora, Montanari si ripropone, ma direttamente, come
autore di un testo che vorrebbe venire incontro a tutte le difficoltà che
caratterizzano l’uso della nostra lingua. Non si tratta di un Bignami, ma di un
testo scorrevole che affronta tante problematiche, fornendone le soluzioni. Forse
non indispensabile per chi ritiene di conoscere bene l’italiano, è pur tuttavia
necessario per fugare qualche dubbio, per consolidare le eventuali certezze.
Ne parlerò, senz’altro, visto che mi ha convinto
nell’impostazione e nella realizzazione, ma mi sembra più che mai giusto dare
la parola in proposito all’autore, con una di quelle interviste che ogni tanto
ritengo opportuno effettuare.
Si può comprendere la necessità di questo manuale,
ma la situazione è davvero così grave, cioè gli italiani non sanno parlare e,
soprattutto, non sanno scrivere nella loro lingua?
Il titolo del
mio libro, scelto dal mio editore (da latinista, io avevo optato, in un primo
momento, per un più semplice «Vademecum dell’italiano»), è una sorta di
provocazione: c’è bisogno di un «pronto soccorso» per la nostra lingua? Credo
che sia evidente a tutti, addetti ai lavori e non, che l’italiano, negli ultimi
40 anni, è stato reso straordinariamente fluido (come mai prima, nella sua
storia) da più fattori: numerose ondate di immigrazioni, i più coloriti e vari
slang giovanili (appresi anche dalla televisione), l’influsso massiccio della
lingua inglese, la sintesi estrema del linguaggio del web e delle comunicazioni
mediatiche in generale. I tratti più marcati del parlato, poi, hanno invaso la
lingua di ogni situazione comunicativa, semplificando (per alcuni «impoverendo»
e «imbarbarendo») l’italiano, appiattendolo e rendendolo molto poco formale.
Secondo il mio punto di vista, ma anche secondo quello di colleghi ben più
autorevoli di me, occorre mettere ordine in questa Babele comunicativa in cui
tutto sembra essere concesso. Bisogna ritrovare la rotta e fornire punti di
riferimento chiari: esistono delle regole che non devono essere vissute come
«catene», ma come occasioni per rendere la nostra comunicazione più corretta,
chiara ed efficace. Occorre far capire ai giovani che non si può comunicare
come si desidera, non tenendo conto né dell’interlocutore né della situazione,
o, ancor peggio, pensando che commettere errori sia un peccato veniale a cui
nessuno deve fare caso. Il modo in cui noi comunichiamo, infatti, parla di noi:
quanto meno corretti siamo nel rivolgerci agli altri, tanto meno positiva è
l’impressione che noi diamo ai nostri interlocutori, e tanto meno chiaro è il
messaggio che noi passiamo. Il rispetto per la nostra lingua e per l’atto
comunicativo è uno dei fondamenti dei rapporti interpersonali. Comunicare ha
anche una dimensione sociale che troppo spesso non viene sufficientemente messa
in evidenza. Se non si batterà la strada della correttezza e della chiarezza
della comunicazione, si correranno due rischi potenzialmente molto gravi per la
nostra lingua italiana: il disordine comunicativo e la progressiva perdita di
autorevolezza e prestigio dell’italiano.
Ho letto di recente che c’è un piccolo, ma
pericoloso incremento degli analfabeti, ma quello che preoccupa di più è la
percentuale degli analfabetizzati, un 20% di gente che, pur avendo a suo tempo
imparato a leggere e a scrivere, ora non è più in grado di fare né l’uno né
l’altro, per non aver esercitato per lungo tempo la loro mente. In buona
sostanza hanno disimparato e ora, più che mai, sono alla mercé dei messaggi dei
media, quasi sempre fuorvianti e sovente pregni di strafalcioni. La situazione,
quindi, è veramente preoccupante. Secondo lei, quali sono i motivi di questa
disaffezione per la nostra lingua, in particolare, e per la cultura in genere?
Il dato che lei
riporta e ricorda è mostruosamente spaventoso. Non esagero a definire
«ridicola» e «incredibile» questa situazione, per la quale proprio in questo
momento di massimo sviluppo tecnologico ed informatico globale, vi siano
persone incapaci (o non più capaci, i cosiddetti «analfabeti di ritorno») di
accedere in modo nutritivo e competente alla loro lingua madre. Credo che
grandi e severe responsabilità abbia la scuola, incapace, soprattutto dagli
anni Settanta del Novecento, di rendere meno sterile lo studio della lingua: le
ore di «Grammatica» sono risultate sempre sgradite agli alunni perché non si è
capito che una fredda e mnemonica descrizione della lingua non ha alcuna
ricaduta sulle competenze che servono realmente nella vita di tutti i giorni:
leggere in modo non ingenuo e scrivere in modo controllato ed efficace. Credo
che in questa prospettiva debba essere letta anche la provocazione che lei
lanciava nella sua domanda, mettendo in evidenza come molti di noi sono vittima
dei messaggi subliminali, spesso scorretti formalmente, con cui veniamo
bombardati dai mass media: una persona impreparata sotto il piano delle
competenze linguistiche è un lettore ingenuo e facilmente raggirabile dalla
pubblicità. Non si può che essere d’accordo con lei, Renzo. La scuola deve
rinnovarsi e ridare lustro alla riflessione sulla lingua, che dovrà sempre di
più insegnare ai giovani, ad esempio, la correttezza e la chiarezza
nell’esposizione orale e scritta. Queste non sono solo qualità, ma «valori» che
trascendono lo scorrere del tempo e delle mode comunicative. Anche nella vita
di tutti i giorni. Un sms scritto in modo chiaro e corretto è più gradito
rispetto a uno buttato giù in modo brachilogico (ossia così sintetico e
contratto da diventare quasi indecifrabile), sciatto, eccessivamente informale
o, semmai, irrispettoso di chi lo riceve. Nonostante siamo in un’epoca di comunicazioni
massmediatiche e informatizzate, io credo che non dobbiamo ancora fidarci
troppo della tecnologia: nel primo capitolo del libro, ad esempio, faccio
alcuni riferimenti ironici al fatto che i cosiddetti «correttori automatici»,
piuttosto ironicamente, non siano capaci di correggere automaticamente i nostri
errori, perché il cervello dell’uomo è ancora più intelligente di qualsiasi
macchina, in fatto di competenze linguistiche.
Un paio di anni fa ho letto un libro interessante,
al punto che ho ritenuto opportuno recensirlo: Breviario d’italiano, di Lucio D’Arcangelo, autore che poi ho avuto
occasione d’intervistare, in quanto membro del direttivo della rivista
culturale Il filo d’Arianna. Dalla
lettura di questo libro e dal colloquio con l’autore ho ritratto chiara la
sensazione che prima di tutti sia proprio il Ministero della Pubblica
Istruzione a non interessarsi affinchè venga introdotto un insegnamento
completo e avvincente della nostra lingua. Conoscerla non è solo indispensabile
per esprimersi correttamente, ma anche per comprendere il contenuto di testi di
genere vario, ma di rilievo didattico, e che contribuiscono alla crescita
culturale dell’individuo. Poiché più si sa, più aumenta lo spirito critico, mi
è sorto il dubbio che questa trascuratezza nei programmi d’insegnamento
dell’italiano, non imputabile tanto agli insegnanti, quanto all’istituzione
preposta, sia voluta, al fine di creare un popolo di pecore belanti, succubi,
per non dire prone, ai voleri di chi detiene il potere. Il mio augurio è che io
corra con la fantasia, ma a onor del vero, così come la meritocrazia si è
dileguata e il mondo sembra destinato all’impero dei mediocri, potrebbe anche
darsi che non sia poi così lontano dalla verità. Le tante e contrastanti
riforme scolastiche, la riduzione dei fondi per l’insegnamento sembrerebbero
avvalorare la mia ipotesi.
Al riguardo, lei che ne pensa?
L’intreccio che
lega la cultura, l’accesso alla quale è garantito e tutelato dalla nostra
nobile Costituzione, alle ragioni dell’economia è spesso sporcato da logiche
del risparmio sulle quali non mi permetto di esprimere giudizi, ma che, da
cittadino, sento molto lontane da me. Io credo che non ci sia un piano
«dall’alto» per diseducare i nostri giovani. O, per lo meno, non ci sia nulla
di consapevole in questa serie di riforme di tagli che caratterizzano
tristemente la storia della nostra scuola (e, per quanto riguarda
l’insegnamento della lingua italiana, più evidentemente dal decreto 59 del
2004, passato alla storia con l’etichetta «Riforma Moratti», che, di fatto, ha
portato ad un dimagrimento vertiginoso delle ore dedicate all’insegnamento
dell’Italiano). Conoscere la nostra lingua è fondamentale e nulla mi potrà mai
allontanare dalla convinzione che è compito della cuola garantire un adeguato
livello di controllo e di uso dell’italiano, essendo la lingua il primo
strumento di comunicazione e di accesso ai saperi. Non dimentichiamo, poi, che,
come ci hanno ricordato le «Indicazioni per il Curricolo», emanate dal Ministro
Fioroni nel settembre del 2007. lo sviluppo di competenze linguistiche ampie e
sicure costituisce una condizione indispensabile per la crescita della persona.
La lingua scritta, in particolare, rappresenta un mezzo importante per
l’organizzazione del pensiero e per la riflessione. La
sfida, come può vedere, Renzo, sta tutta qui: nel rendere l’apprendimento della
lingua una competenza, non solamente una conoscenza fredda e asettica. Non
basta che i nostri giovani "sappiano" la grammatica, ma occorre che
questa diventi una parte di loro: "conoscere" non è sufficiente;
bisogna impadronirsi delle regole e farle diventare una parte naturale di noi,
trasformarle in "competenza". Questa è la sfida del futuro. Chi, tra
i colleghi, la raccoglierà e saprà trasformare l'insegnamento della grammatica
in un'occasione educativa per i giovani, pur nella povertà di risorse e di
occasioni messa in luce nella sua domanda, sarà il protagonista di una vera
rivoluzione culturale, didattica, educativa e pedagogica.
Forse io vedo complotti là dove non ci sono, ma
resta un dubbio, atroce, che quest’andazzo non sia frutto del caso, tanto più
che fino a ora si sta parlando di grammatica, ma non dobbiamo dimenticare
l’analisi logica, la coerenza nell’esposizione, tutte proprietà che, a detta di
alcuni miei amici che insegnano all’università, sono assai carenti nei loro
studenti, non in tutti, ma in una parte crescente.
Vengo ora al suo libro, che è ben impostato su tre
capitoli, in cui vengono trattati gli errori più frequenti (Capitolo I –
Ortografia; Capitolo II – La punteggiatura; Capitolo III – Il congiuntivo e il
condizionale, questi sconosciuti!).
A me è rimasto in mente soprattutto il capitolo
III, perché non è la prima volta che mi imbatto in libri, in genere romanzi, in
cui sono presenti deficit di apprendimento nell’uso del congiuntivo e del
condizionale, mentre magari c’è ben poco da rilevare per l’ortografia e la
punteggiatura.
Come mai è così facile sbagliare ricorrendo al
condizionale e al congiuntivo, con errori frequenti anche fra laureandi e
laureati?
Premetto che lo sbaglio più frequente è in periodi
in cui c’è correlazione fra i due, anche se non mancano delle perle nella
coniugazione dei verbi appunto al congiuntivo e al condizionale.
La frequenza di queste tipologie di errori, che
riscontrano anche quegli amici che insegnano all’università, mi fa supporre che
l’uso di questi due tempi, soprattutto se correlati, non sia stato oggetto a
suo tempo, nella scuola dell’obbligo e in quella superiore, ad attenta
spiegazione da parte degli insegnanti, alcuni dei quali forse addirittura
impreparati, almeno nella specificità del caso.
Come è possibile quindi che persone con un livello
di istruzione elevato incorrano in questi errori?
In «Pronto
Soccorso dell’Italiano» non nascondo la difficoltà che gli Italiani incontrano
nell’usare questi due modi del verbo. Allo stesso tempo, però, ne mostro il
grandissimo potenziale per l’arricchimento della nostra comunicazione. Forse
questo manca a scuola: far vedere agli studenti come «funziona» una lingua e perché
è bene dire in un modo invece che in un altro. Se si riduce la grammatica a una
serie noiosa di regole, per forza un giovane avrà voglia di trovare forme
comunicative più simili a lui, più vivaci, più espressive, anche sgrammaticate,
purchè siano lontane da quella «pizza» tediosissima che è stata la grammatica a
scuola! E continuerà a pensarla così anche da adulto, perché nessuno gli ha
mostrato la bellezza della lingua e del suo funzionamento. Io non mi stupisco
del fatto che anche negli strati più alti della società ci siano persone che
non sanno né coniugare né usare in modo competente questi due modi del verbo
(congiuntivo e condizionale): se un insegnante, anche in buona fede, seguendo
una metodologia cossiddetta «tradizionale», non dico non «educa», ma nemmeno
non «avvia» un giovane a vedere la lingua da un punto di vista funzionale, ecco
che il vecchio studente si trova così tagliato fuori da uno dei viaggi più
emozionanti che possa intraprendere: quello all’interno della propria lingua,
quindi delle sue possibilità espressive. Riempire pagine di quaderni coniugando
verbi al congiuntivo potrebbe avere un senso solo se a questa fase mnemonica e
un po’ operaia, da avvilente catena di montaggio, ne segue una in cui l’alunno
è invitato a vedere in quali contesti un verbo al congiuntivo deve essere usato
e per quali motivi. Solo così apprenderà volentieri, perché vede un senso, un
fine, uno scopo alla fatica dell’apprendere.
Vi è da dire che in effetti non pochi insegnanti si
limitano a insegnare le regole, senza rendere partecipi gli studenti della
bellezza, non solo formale, che poi risulta applicando correttamente le stesse.
A esser sincero ho l’impressione che una larga parte di noi non solo non ami la
propria lingua, ma la disprezzi. Infatti ,
il ricorso agli anglicismi, a neologismi spesso infelici denota un desiderio di
accedere a un presunto Olimpo che esiste solo nella pochezza mentale di non
pochi individui. Si ricorda Alberto Sordi quando in una pellicola imitava gli
americani? Ecco, è la stessa situazione pari pari. E purtroppo non è solo un
problema di congiuntivi e di condizionali, ma le lacune sono molteplici, come
nel caso della punteggiatura, sconosciuta, oppure mal conosciuta. E’ forse il
difetto di cui mi meraviglio di meno, perché in fin dei conti per gente usa più
a parlare che scrivere non emerge il problema della virgola “prima” o “dopo”, o
del punto esclamativo. Peraltro, senza far nomi, ci sono scrittori, anche
blasonati, che dimostrano poca dimestichezza con la punteggiatura, il che fa
supporre che anche in questo caso alla base ci sia una carenza d’insegnamento.
E’ così?
Di nuovo, credo
che lei abbia fatto centro. A scuola, negli ultimi 40 anni, la punteggiatura e
l’ortografia sono state, a torto, considerate saperi «minimi», poco importanti.
Questo per una lunga serie di fattori, prima di tutto la ricerca, da parte di
un certo modo di fare didattica, di potenziare l’espressione della creatività
dell’alunno senza ricorrere ad alcun vincolo normativo. Quasi come se la
sostanza di un testo potesse prescindere dalla forma in cui viene espressa e
come se le regole grammaticali costituissero un potenziale blocco per
l’espressione libera dello studente. Questo atteggiamento eccessivamente
liberistico si è trasformato, in breve, nella mancanza di rispetto per le
regole che normano il nostro modo di esprimerci allo scritto. Recentemente,
però, qualcosa si è mosso e da un paio di anni la conoscenza di questi valori
fondanti della forma dei testi scritti è addirittura indicata come obiettivo nei
bienni del Liceo Classico. Questo significa che si sente l’esigenza di tornare
a insegnare ciò che per troppo tempo è stato abbandonato o è stato oggetto di
scarsissimo interesse. La punteggiatura, nello specifico, essendo la
trasposizione grafica della logica che impalca i nostri pensieri, è un elemento
imprescindibile della leggibilità del nostro modo di ragionare. Se è vero che
in alcuni casi essa può essere libera (penso, ad esempio, alla preferenza di
una virgola al posto di un punto e virgola, casi di cui parlo nel testo), non
siamo autorizzati a ritenere che la collocazione dei segni di interpunzione sia
frutto di scelte personali e capricciose di chi scrive, dal momento che le
regole per poter usare questi segni esistono e hanno lo scopo di trasformare il
nostro pensiero, spesso magmatico e istrionico, in un testo leggibile e
fruibile da tutti.
Del resto c’è un autore, di cui non ricordo il
nome, che usa scrivere i suoi romanzi senza ricorrere alla punteggiatura. Con
un esempio simile mi pare ovvio che i giovani studenti si sentano gratificati
nella loro scarsa volontà di apprendimento. Stupisce, fra l’altro, che romanzi
editi da primarie case presentino notevoli carenze grammaticali, soprattutto
nel ricorso alla punteggiatura, segno evidente che gli “editor” non se ne
curano proprio, o per ignoranza, oppure perché ritengono che scrivere in un
italiano corretto sia del tutto superfluo.
Mi dispiace, poi, dover parlare di ortografia, a
cui lei ha dedicato il primo capitolo del suo libro. Gli errori in questo campo
dovrebbero essere propri solo di chi ha esperienze scolastiche limitate e
invece sono piuttosto frequenti anche in chi, per gli
studi effettuati, sarebbe insospettabile. Sovente, sui giornali (e i
giornalisti sono tutti laureati) capita di trovare un “sufficiente” senza la
“i”, per non parlare degli apostrofi sempre più sconosciuti e degli accenti che
ormai latitano.
In tutta sincerità cerco di comprendere, senza
tuttavia riuscirvi, questa continua trascuratezza per la propria lingua, che è a
tutti gli effetti un biglietto da visita, come un abito ben stirato o una
capigliatura ordinata. L’impressione generale è che a noi italiani, sempre più
disuniti che uniti, la lingua madre dia fastidio, tanto da volgarizzarla, da
storpiarla, insomma quasi da rifiutarla.
Secondo lei, qual è il motivo di questo
comportamento?
Penso di aver
risposto già in precedenza. Il problema è nel modo sconfortante in cui la
riflessione sulla lingua è presentata a scuola. Ciò che mi colpisce, però, del
suo ragionamento è l’aver parlato della forma come di un «biglietto da visita».
Io non posso che essere d’accordo con lei e chiedere ai nostri lettori di
pensare che la forma in cui noi scriviamo ha una fondamentale dimensione
sociale - ne parlo nel primo capitolo – dal momento che essa è una delle forme
di espressione con la quale tutti noi entriamo in relazione con gli altri. Può
sembrare poco credibile, ma la scrittura riesce a trasmettere informazioni su
chi scrive, perché è stato dimostrato che l’immagine di uno scritto si riflette
sull’immagine dello scrivente, condizionandola. Se un testo si presenta
formalmente disordinato e scorretto, il lettore trarrà l’impressione che chi
scrive sia disordinato e scorretto. Occorre, pertanto, curare il più possibile
la veste in cui ci esprimiamo allo scritto, non solo affinchè la comunicazione
sia salvaguardata, ma anche per non dare di noi immagini fuorvianti e
superficiali.
In effetti il problema è nell’istituzione preposta,
anche se la famiglia ha qualche responsabilità, non dando il buon esempio, cioè
non cercando essa stessa di valorizzare l’uso corretto della lingua.
Lei è autore di testi didattici, indubbiamente
utili, per non definirli, soprattutto per “Pronto
soccorso dell’italiano”, indispensabili. Non ha mai pensato di scrivere
qualche cosa di diverso, cioè di cimentarsi con la narrativa?
Francamente
penso che la narrativa sia un genere per il quale occorra avere un talento
speciale, capace di controllare non solo l’intreccio e il setting, ma anche i
personaggi, con i loro caratteri particolari e le loro evoluzioni. Non mi sono
mai cimentato, quindi, con un tipo di scrittura così difficile, perché penso di
non essere capace. Io nasco, prima di tutto come traduttore (e confrontandomi
con la prosa di Giulio Cesare ho capito che cosa significa essere dei grandi
narratori), poi, un po’ per caso, sono arrivato alla compilazione di testi
scolastici e questo mi ha dato l’occasione, per me imperdibile, di «parlare» ad
un pubblico vastissimo, quello, ossia, che affolla le aule delle nostre scuole.
Credo che tra queste due polarità, la traduzione e la scrittura per la scuola,
si collocheranno anche i miei prossimi impegni editoriali. Anche «Pronto
Soccorso», quindi, col suo taglio divulgativo per il grande
pubblico, è destinato a rimanere, credo, un’esperienza professionale isolata,
per quanto deliziosissima e fondamentale per la mia crescita.
Si può sempre provare, magari partendo da qualche
cosa di più breve, come nel caso del racconto. Il breve accenno all’attività di
traduttore (dal latino) mi fa venire in mente un’altra domanda, proprio
relativa all’accostamento di una lingua bellissima, ma ormai morta, a questo
nostro italiano un po’ malaticcio, visto che è così tanto bistrattato. Mi è
sorto un sospetto e cioè che ci sia stato un peggioramento nella conoscenza
della lingua italiana da quando proprio il latino non ha più fatto parte delle
materie di insegnamento nella scuola media inferiore. Spauracchio di molti,
aveva tuttavia il merito di insegnare a ragionare secondo un percorso ben
preciso: l’analisi logica, la particolare costruzione della frase, la forzata
abitudine a procedere non a tentoni, ma secondo regole ben precise erano
indubbiamente mezzi assai efficaci per poi orientarsi in ogni disciplina, una
materia che era lezione di vita in quanto predisponeva la mente a
razionalizzare sia il pensiero che la forma dello stesso, un esercizio che
lasciava una traccia indelebile costituendo una sorta di pre esperienza come
una matrice che incide sulla materia grezza.
Al riguardo, qual è la sua opinione?
Il tema sul
quale lei mi chiede di riflettere ha scatenato per decenni le opinioni più
diverse. L’insegnamento della lingua latina nella vecchia scuola media (ora
«Secondaria di primo grado») fu ridimensionato nel 1962 e definitivamente
soppresso nel 1977. Negli anni Ottanta si è potuto assistere a tendenze
opposte: in un noto articolo del 1983 finalizzato ad un’analisi della
situazione generale in cui versava lo stato della didattica del latino,
soprattutto a livello superiore ed universitario, Alfonso Traina affermò che,
nella sostanza, non c’erano più “i presupposti per il reinserimento del latino
nell’insegnamento medio”, in particolar modo a causa dell’accentuata mancanza
di basi culturali solide tanto negli alunni quanto negli insegnanti; dall’altra
parte, invece, ci fu chi propose l’avvio dell’insegnamento del Latino
addirittura nella Scuola Elementare (la proposta, al di là delle implicazioni
politiche dalle quali muoveva, non ottenne alcun risultato).
Tra gli anni
Ottanta e i Novanta, qualche insegnante, in totale autonomia, iniziava lo
studio del latino in Seconda Media (o in Terza), affiancando lo studio della
morfologia latina allo studio
dell’analisi logica in Italiano, spesso solo con i suoi studenti della fascia
alta (detta, secondo una nomenclatura burocratica molto nota nella Scuola
Media, anche “del potenziamento” o “dell’eccellenza”). Non era la regola, ma
un’eccezione. Qualche scuola, inoltre, attivava anche corsi di latino
facoltativi della durata di venti-trenta ore, al pomeriggio. Tali momenti
formativi, però, erano legati all’iniziativa di singoli insegnanti o singoli
istituti e non avevano alcun carattere istituzionale.
Prima della
situazione scolastica attuale, ossia quella dei “Curricoli” (avviata il primo
settembre 2007), la cosiddetta
Riforma Moratti chiedeva alle scuole di offrire alle famiglie
la possibilità di affiancare alle ore curricolari (quelle dedicate allo studio
dell’Italiano sono solamente cinque o sei), alcune ore facoltative ed opzionali
(fino a sei ore in più) alle quali ogni singola famiglia poteva decidere di
iscrivere il proprio figlio. Attualmente, invece, non si dedica alcuna ora allo studio del
latino.
Se lei mi chiede
se «sento la mancanza» dell’insegnamento del latino nella scuola media, le
rispondo che non penso che una didattica di questa lingua eccessivamente
imperniata sul freddo apprendimento grammaticale possa operare delle
modificazioni significative nell’orizzonte linguistico dei nostri giovani e
sempre più impreparati studenti. Penso, invece, che lo studio della cultura
latina, affiancato da semplici riferimenti linguistici, possa essere molto
educativo perché insegnerebbe ai giovani da dove vengono, quali sono le radici
della nostra cultura e le basi della nostra lingua. Ci abbiamo provato sette
anni fa, con SPQR, un manuale che mostrava come fosse possibile e nutritivo
questo approccio al Latino. Ma la scuola, si sa, lo abbiamo ripetuto, è un
ambiente troppo refrattario ai cambiamenti e alle innovazioni, quindi, di
quell’esperienza sono rimaste solo le convizioni scientifiche e didattiche.
Sconsolante, non trovo altro termine per definire
una situazione che impoverisce culturalmente e cultura significa anche capacità
di ragionare, di mettere in dubbio, di discutere, in poche parole una maturità
che consente di coltivare la libertà. La mia ultima domanda è forse quella con
la risposta più difficile: cosa dovrebbe fare la scuola per la salvezza della
lingua italiana? In che modo i pazienti del “pronto soccorso dell’italiano”
potrebbero guarire?
La scuola
dovrebbe avere il compito di trovare strade nuove per attirare i giovani verso
uno studio consapevole e gioioso della loro lingua. La didattica tradizionale
basata, come scrive il mio collega e amico B. Trentin, sulla «sacra triade:
lezione-verifica-voto» non ha più alcuna efficacia e risulta molto
mortificante. Nell’ottica dello sviluppo di reali competenze linguistiche, e
non conoscenze sterili e vuote, chi si occupa di didattica dell’italiano
dovrebbe interrogarsi su ciò che è realmente fondamentale conoscere della
nostra lingua ed operare una distillazione, ossia un’operazione di scelta di
argomenti valutati come impredscindibili per l’educazione linguistica delle
nuove generazioni; di lì, poi, occorrerebbe chiedersi se esiste il modo di
coniugare la riflessione sulla lingua con la necessità di insegnare a
comunicare in modo chiaro, corretto ed efficace. In particolare, sogno una
scuola in cui la grammatica sia al servizio dell’imparare a scrivere, e non,
come accade ancora, al servizio di se stessa, in forme di apprendimento senza
alcuna logica (riempire pagine di quaderni con coniugazioni di verbi al
congiuntivo non ha moltissimo senso se poi l’alunno non sa quando usare questo
nobilissimo modo verbale). So di essermi ripetuto spesso, in questa intervista,
ma tengo molto a far capire ai nostri lettori che la scuola ha un ruolo
decisivo nella formazione linguistica dei giovani; è, quindi, l’istituzione che
più deve occuparsi di questo tema assai delicato, interrogandosi se è stato realmente
qualcosa o si è preferito rimanere ancorati, per pigrizia, comodità, assenza di
prospettive, a modelli di insegnamento datati e inefficaci.
In attesa che
questo cambio di rotta ci sia e sia recepito dal corpo docenti, i pazienti del
«Pronto Soccorso dell’Italiano» possono immergersi nella lettura del testo,
cercando tra le pagine quelle regole e quei trucchi che possano permettere loro
di comunicare in modo più corretto. Mi piacerebbe vivere in un mondo in cui non
ci fosse bisogno del mio libro; alla luce dei fatti, però, riceverei una
grandissima soddisfazione sapendo che quello che, con grande umiltà, presento a
lei e ai lettori, può essere come una sorta di boa di salvataggio per la
scrittura e la comunicazione orale; in questi anni così superficiali e gretti,
sapere di avere dato una mano anche a un solo lettore sarebbe la prova che ho
fatto bene ad accettare la sfida che il mio editore mi ha lanciato un paio di
anni fa, proponendomi di scrivere questo testo.
Purtroppo siamo giunti alla fine di questa
interessante e piacevole intervista; è quindi il momento del commiato, con
l’augurio di rito - ma in questo caso particolarmente sincero - di successo del
suo libro. Spero che questo suo testo fornisca un contributo significativo al
miglioramento del nostro modo di esprimerci, sia oralmente che per iscritto.
In italiano hanno composto i loro versi Dante,
Petrarca, Leopardi, la nostra lingua è stato il mezzo con cui sono stati
scritti romanzi di assoluto valore mondiale.
Noi siamo italiani e dobbiamo esprimerci in
italiano, un italiano corretto, per il rispetto che dobbiamo al nostro paese e
a noi stessi. L’altra lingua che anima gli spettacoli televisivi e la nostra
politica è una pessima copia di quella autentica, a uso e consumo di mediocri
personaggi senza cultura e amore per il sapere.
Non lasciamoci trascinare nel baratro di un’Italia
che ha perso non solo la dignità, ma che è anche diventata un paese in cui si
parla e si scrive in un idioma più adatto a una tribù di selvaggi che a una
nazione civile.
Recensione e intervista a cura di Renzo
Montagnoli
Non dubito delle qualità di questo libro e della sua particolare utilità; circa il ricorso allo stesso penso possa essere fatto da chi già sa esprimersi correttamente in italiano e non dai tanti scrittori sapientoni che credono di essere perfetti e poi commettono degli errori incredibili.
RispondiEliminaAgnese Addari