domenica 27 gennaio 2013

Lui passerà per il camino e Nei suoi occhi, di Renzo Montagnoli


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       Lui passerà per il camino

                                     di Renzo Montagnoli

 

 

Fu un inverno freddo quello del 1944 e con tanta, troppa neve. Quando la guerra sembrava concludersi da un momento all’altro, il proclama di Alexander rivolto ai partigiani affinché sospendessero le ostilità raggelò tutti: gli italiani, inermi, privi di tutto, sfibrati dai bombardamenti alleati e che sopravvivevano solo nell’attesa della liberazione, nonché gli stessi coraggiosi che da un anno combattevano, con enormi sacrifici, sia in montagna che in pianura, contro i nazifascisti.

Questi ultimi, ormai consapevoli dell’esito della guerra, intensificarono invece le ostilità, con una brutalità senza precedenti di cui furono vittime sia gli uomini della resistenza che la popolazione civile. Fu intensificata, fra l’altro, la caccia agli ebrei, con esiti raccapriccianti e di uno di questi il paese serba ancor oggi, commosso, il ricordo.

Agli inizi di dicembre la città e tutta la provincia furono oggetto di una retata capillare, a cui parteciparono sia le famigerate SS che le non meno odiate Camicie Nere.

Ben pochi israeliti riuscirono a sfuggire, o perché avvisati in tempo da qualche doppiogiochista che già allora cercava di assicurarsi il futuro, oppure per pura casualità, come avvenne per Isaia Forni, un bimbo di appena sei anni.

Quando la marmaglia sfondò la porta di casa e catturò i suoi genitori, lui si trovava da una vicina, una signora anziana che voleva fargli vedere il suo gattino. La donna, nonostante il pericolo, lo tenne con sé qualche giorno fino a quando, a una parente che le fece visita, propose di portarlo con lei in campagna, in un posto ritenuto più sicuro.

Fu così, che una settimana prima del Natale, Isaia Forni arrivò in paese e, poiché le sfortune spesso si sommano, subito nel pomeriggio perse la sua accompagnatrice, mitragliata da un aereo alleato mentre in bicicletta percorreva l’argine diretta a una fattoria per vedere di poter avere un po’ di latte.

Della presenza del piccolo era già stato informato il parroco, Don Zeffirino. Appresa la tragica notizia della scomparsa della signora, se lo portò in canonica e decise di tenerlo lì, nonostante fosse un giudeo, ma come ebbe a dire una volta finita la guerra, davanti a Dio non ci sono cristiani o mussulmani, o ebrei, ma solo uomini, e nel caso specifico un bambino innocente, già duramente provato per la perdita dei suoi genitori.

Se lo coccolava con gli occhi, si divertiva a guardare il suo stupore quando lo portava in chiesa, provava una gioia immensa nel sentirsi il suo protettore e già sognava di renderlo partecipe della messa di mezzanotte, non per farne un cristiano, ma perché vedeva in lui, con tutte le sue sofferenze, l’immagine di Cristo.

Per quanto questa ospitalità fosse mantenuta il più possibile segreta, arrivò alle orecchie di qualcuno e così, l’antivigilia, una squadraccia fascista bussò con i soliti modi alla porta della canonica.

Don Zeffirino, sempre sul chi vive, li aveva visti arrivare e aveva nascosto prudentemente il bimbo nel confessionale.

- Sappiamo che c’è un piccolo ebreo e in base alle leggi sovrane della Repubblica Sociale Italiana dovete consegnarcelo.

Don Zeffirino guardò il capo manipolo con occhi stupiti e rispose: - Non c’è nessun ebreo, in questa canonica.

- C’è, ne siamo sicuri e se non è in canonica, è nascosto in chiesa. O ce lo consegnate, o andiamo a prenderlo.

- Vi assicuro che vi sbagliate e se vi azzardate a fare un altro passo, o a mettere i piedi in chiesa con queste armi spianate, dovrete passare sul mio corpo.

- Va bene, prendiamo atto delle vostre dichiarazioni e non vogliamo inimicarci anche il Padreterno. Adesso usciamo, ma chi ritornerà non avrà così tanti riguardi.

Girarono i tacchi e se andarono.

Don Zeffirino si accorse solo allora di quanto sudasse, nonostante il freddo. Era riuscito a parare il primo colpo, ma sapeva bene che il secondo, qualora al posto delle camicie nere fossero arrivati gli uomini delle SS, sarebbe stato fatale.

 

Fu così che andò a prendere il bimbo e lo portò, quasi nascondendolo sotto la tonaca, dalla Tilde, la moglie di Annibale Chiocchetti che solo più tardi sarebbe stato conosciuto con il soprannome di Guercio e che all’epoca era da qualche parte, sugli Appennini, con i partigiani.

- Tilde cara, ti chiedo un gran piacere: puoi tenere questo bambino per un po’, non tanto, finché si calmano le acque.

- Come è bello, Don Zeffirino: ha gli occhi neri, vivi, ma velati di tristezza. E’ rimasto orfano?

- Forse sì.

- In che senso?

E allora il prete raccontò tutta la storia.

- Può restare quanto vuole, come se fosse un altro mio figlio, e anzi può giocare con Giacomo, tanto dovrebbero avere più o meno la stessa età. - E dicendo così, nell’accarezzare i capelli di Isaia, rivolse uno sguardo dolce a quel figlio, avuto immediatamente prima della guerra e che così poco aveva conosciuto il suo papà.

- Mi raccomando solo una cosa: nessuno deve sapere che c’è.

- Naturalmente.

Come preavvisato dai fascisti, il giorno dopo arrivarono, su una macchina nera due loschi figuri, lugubri e laidi nell’aspetto, che si qualificarono come membri della Gestapo e che senza chiedere tanti permessi cercarono in ogni dove, nella canonica e in chiesa, e che se andarono sbattendo la porta.

I due bimbi fecero subito amicizia e poiché Giacomo aveva acquisito dalla madre una fervente religiosità, il giorno della Vigilia si mise a fare il presepe.

Isaia lo guardava e presto cominciò a incuriosirsi e chiese di partecipare a quello che credeva un gioco.

Giacomo, con la naturalezza tipica dei bimbi, gli spiegò che era quasi un rito religioso e Isaia si mostrò ulteriormente interessato.

- Chi è quel bambino che metti nella mangiatoia?

- Gesù.

- E chi è Gesù.

- Era un bambino come noi, ma poi diventò grande, tanto grande, al punto che quando parlava tutta la gente l’ascoltava e lo seguiva nel suo girovagare.

- Che diceva?

- Diceva di essere il figlio di Dio e che era venuto sulla terra per redimere gli uomini, per farli diventare tutti buoni e bravi, e inoltre diceva che siamo tutti fratelli.

- Era grande sì, quasi come il mio papà.

- Anche quasi come il mio, ma di più, perché lui è il papà di tutti.

- E’ vissuto tanto tempo fa?

- Quasi duemila anni fa.

- Tanto, e lo si ricorda sempre così, come un bambino?

- No, anche come un uomo adulto inchiodato a una croce.

- Ah, sì, quando l’uomo con il vestito lungo nero mi ha nascosto in una specie di casetta c’era un uomo grande, mezzo nudo, appeso a due assi incrociate e con una corona di spine in testa.

- Quello è Gesù.

- Ma perché ricordarlo così?

- Perché lui si è fatto giustiziare per salvarci tutti.

- Che buono che doveva essere! E chi è stato così cattivo con lui?

Giacomo rimase assorto, non sapendo che rispondere, nel timore di offendere il suo piccolo amico e poi sbottò:

- Quelli che non erano cristiani come lui.

- Dovevano essere proprio cattivi per fare una cosa simile.

- Sì, ma l’hanno fatto per ignoranza.

- Povero Gesù, trattato male come noi ebrei.

Il Natale trascorse abbastanza tranquillo e perfino Pippo, l’aereo da bombardamento che assillava le notti della gente, se ne stette un po’ alla larga.

Poi venne Santo Stefano e la Tilde e Don Zeffirino cominciarono a pensare che Isaia era finalmente al sicuro, ma l’ultimo giorno dell’anno la Gestapo ritornò e andò a colpo sicuro.

Quando bussarono pesantemente alla porta, la Tilde sentì una fitta al cuore e capì che era finita.

Aprì tremando e i due corvacci in nero entrarono senza presentarsi.

- C’è un bambino ebreo e noi lo vogliamo.

- Non ci sono bambini ebrei.

- Noi vediamo due bambini e siamo sicuri che uno è ebreo e che si chiama Isaia Forni.

- No, c’è solo mio figlio Giacomo e suo cugino Ettore, che ha perso i genitori e la casa in un bombardamento.

- Siamo stati anche troppo pazienti, ma tutto ha un limite. Ripeto: vogliamo, e subito, l’ebreo!

- Quale ebreo?

Per tutta risposta, la Tilde si prese un ceffone che la fece cadere a terra mentre i due piccoli cominciavano a piangere.

- Non lo ripeto più: quale è l’ebreo?

Non ci furono risposte.

- Va bene! Facciamo così: li porto via tutti e due.

- No, vi prego no, se avete un cuore, se anche voi avete dei figli, non fate una cosa del genere.

- L’ebreo, o li porto via entrambi.

Fu allora che, con il capo chino, Isaia si fece avanti e disse, con voce tremante: - Sono io, Isaia Forni.

Lo presero e alla domanda della Tilde su dove l’avrebbero portato, risposero sogghignando:

- Lui passerà per il camino.

Ancora non si sapeva che volesse dire, ma la Tilde pensò al peggio e guardò per l’ultima volta, con animo angosciato, quell’esserino che veniva portato via come fosse un delinquente.

Non fu difficile scoprire chi fosse stato l’ignobile delatore, anche perchè Aldo Marchetti, soprannominato Gerarchetto, lo stesso che aveva indotto con il suo comportamento Annibale Chiocchetti a darsi alla macchia, se ne vantò la sera stessa all’osteria.

 

La guerra terminò e di Isaia Forni non si ebbero più notizie, se non dopo un paio d’anni, quando la comunità israelitica lo rintracciò fra i deceduti del lager di Buchenwald. Don Zeffirino non lo dimenticò mai e fu sempre presente nelle sue messe dei morti.

Quanto a Gerarchetto, scomparso dalla scena negli ultimi giorni del conflitto, ricomparve dopo la costituente fra le file democristiane e fu uno dei primi deputati del neoparlamento, e tutto questo come se nulla fosse accaduto, come tanti altri, del resto.

 

(da Storie di paese)

 

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Nei suoi occhi

di Renzo Montagnoli

 

 

- Vieni via dalla strada.

Franco si volse a guardare la madre che gli faceva cenno di rientrare e rimase fermo sul ciglio della strada.

- Non vedi che passano i soldati che vanno al fronte, che gli autocarri rombano e quasi ti sfiorano?

No, non vedeva quello che diceva sua madre; le immagini scorrevano davanti ai suoi occhi, ma nemmeno le coglieva. Sentiva invece dentro di sé svilupparsi altre visioni: truppe a cavallo che procedevano al galoppo, elmi scintillanti nella luce del sole, spade lucenti sguainate come in una delle tante storie che il nonno gli aveva narrato, battaglie antiche, cozzi di scudi, scontri da cui sempre usciva vincitore il più buono, il più bravo.

E anche ora che soldati stranieri sfilavano davanti a lui diretti verso il vicino fronte non riusciva a scorgere altro che gli eroi di quelle storie.

Si sentì strattonare e trascinare in casa.

- Vuoi capirlo che è pericoloso stare lì fuori!?La guerra non è un gioco e tutti quei tedeschi lo sanno bene. Prova a guardarli in faccia: sembrano granitici, impassibili, ma non possono non aver paura e quando si combatte si muore anche.

- Le storie del nonno, però…

- Appunto, sono storie, favole, ma hanno sempre un fondo di verità e tutte le battaglie di cui parla ci sono state, anche se tanti anni fa.

Franco non disse niente, accostò una sedia alla finestra, vi salì per guardare, al riparo dei vetri, la fila interminabile dei soldati e riprese a fantasticare.

Sua madre si rivolse al nonno, quasi appisolato accanto al focolare – Pa’, smettila di raccontargli delle battaglie dei secoli passati. Non vedi che non riesce più a vedere la realtà, che non capisce che siamo in guerra e non in una delle tue storie.

- E’ troppo brutto questo tempo perché Franco possa accettarlo. Non è che un bambino di sei anni e i suoi occhi vedono la tragedia della guerra in modo diverso dai nostri, e forse è meglio così.

- Meglio un corno! Non voglio crescere un figlio che non è mai presente, che rifiuta la realtà, creandosi un mondo tutto suo.

- Passerà, passerà…

- E se non passa? E se poi in tutta la vita, anche quando verrà la pace, si rifiuterà di essere parte del mondo di tutti?

- Per il momento è meglio così; non voglio che viva con il timore che è sempre dentro di noi; non voglio che debba trasalire ogni volta che bussano alla porta; voglio che i suoi sonni rimangano leggeri e non come i nostri popolati da incubi.

- Va bene, hai sempre ragione tu.

- No, non è vero che ho sempre ragione, ma qualche volta il mondo deve apparire diverso da quello che è e questo è più facile per un bambino.

Già stava calando il sole e con esso il numero delle truppe che percorrevano la strada del paese.

Quando fu tutto buio e non si udì più il rumore sordo degli scarponi chiodati sul selciato, Franco si scostò dalla finestra e si mise a sedere accanto al nonno.

- Hai un’altra storia, nonno?

- Sì, ma non questa sera; è lunga e te la racconterò domani. Ora mangia e poi va di corsa a letto.

Pur a malincuore Franco obbedì e mise sotto i denti quel poco che c’era, poi si coricò.

Rimase a lungo a occhi aperti, contando i travicelli del soffitto, poi si sovvenne di una storia narrata dal nonno qualche giorno prima, di un cavaliere indomito che per il bene di tutti combatteva contro i draghi e, mentre nella sua fantasia ne assumeva le sembianze, il sonno lo colse.

Al canto del gallo si risvegliò, porse l’orecchio alla strada, ma non udì rumori: tutto era quiete nell’alba di quel giorno. Si alzò e andò in cucina: il nonno si era addormentato accanto al focolare e aveva lasciato cadere la vecchia pipa. Il fuoco era spento e faceva abbastanza freddo; allora prese sulle ginocchia Marameo, il vecchio gatto, che si mise a far le fusa. La prima luce che entrava dalla finestra sciabolava il buio della camera, accentuando le ombre, in cui si immaginò di vedere schiere di armigeri, mentre il nonno era il suo fido scudiero e il micio che si strisciava contro il suo grembo altri non era che il destriero che presto l’avrebbe portato a cavalcare alla testa dei suoi prodi.

Improvvisamente udì bussare alla porta, prima un colpo forte, poi un vero e proprio tambureggiare. D’istinto si raggomitolò e quando in un frastuono di assi spezzate l’ingresso fu sfondato rimase impietrito nel vedere due ossessi che entravano nella stanza, gridando come pazzi.

- Rauss, rauss…

Accorse sua madre e subito si prese un ceffone da uno dei due che allungò anche un calcio al nonno che faticava ad aprire gli occhi.

- Fuori, tutti fuori, andare in chiesa.

E furono spinti in strada, dove già c’era un corteo di insonnoliti paesani che procedeva, fra calci e pugni, verso la vecchia chiesa parrocchiale.

Si sentiva l’acre odore del fumo di alcune case che bruciavano e, ogni tanto, delle urla strazianti e poi degli spari.

Avvertì che qualcuno gli prendeva la mano e si volse a guardare: era il nonno, con il volto teso, che si sforzava di sorridergli.

- Che cosa succede nonno?

Il vecchio non rispose.

- Che succede, insomma?

Mentre le lacrime gli rigavano il volto prese in braccio il nipotino e a bassa voce  parlò.

- Ti racconto la storia che ti ho promesso e non aver paura, perché tutto quello che sta succedendo è parte di essa.

Tanti anni fa il nostro paese è stato invaso da un’orda di lanzichenecchi, mercenari tedeschi che non si fermavano davanti a nulla. Dove passavano l restavano solo macerie fumanti e uccidevano tutti, ma non sapevano che c’era qualcuno con cui avrebbero dovuto fare i conti. Infatti, un cavaliere delle nostre parti, Franco da Barberino aveva radunato degli armati e si apprestava allo scontro decisivo.

- Si chiamava Franco come me!

- Sì, come te ed era forte e coraggioso.

Nel frattempo erano arrivati alla chiesa e furono costretti ad entrarvi. Il tempio, di per sé piccolo, non riusciva quasi a contenere tutta la gente. Il parroco cercò di parlare con il capo dei tedeschi, ma per tutta risposta gli spararono alla testa. La soldataglia poi abbatté il portone della chiesa  e portò un autocarro davanti all’ingresso.

All’interno i più piangevano e molti pregavano perché ormai avevano capito.

Il nonno si mise davanti al nipotino, quasi come per fare scudo.

- Lo scontro avvenne proprio in paese, sulla piazza della chiesa. I lanzichenecchi erano molti di più degli armigeri di Franco, ma questi non avevano paura, perché sapevano di essere nel giusto.

Fu alzato il telone dell’autocarro e così apparve una mitragliatrice con i suoi serventi.

- La battaglia iniziò all’alba e…

La voce si troncò di colpo, mentre partivano le prime raffiche della mitragliatrice.

Il vecchio si afflosciò su se stesso, mentre il sangue schizzava ovunque fra le grida, prima di terrore, poi di dolore. I serventi, con calma, alimentavano il mezzo di morte con nuove pallottole e continuarono a sparare come se nulla fosse, come a una esercitazione. Poi, a un cenno del capo, si fermarono; nella chiesa furono gettate una mezza dozzina di granate e quindi entrarono un paio di soldati. Si aggirarono nel carnaio, rivoltando i corpi; se qualcuno ancora respirava gli sparavano.

Franco, coperto dal corpo del nonno, era ancora vivo, anzi non era nemmeno ferito.

Se ne stava zitto, tutto lordo di sangue, e non riusciva a pensare a nulla; tutto gli sembrava così irreale, e non un sogno, ma un incubo.

Quando, sollevato il corpo del nonno, il tedesco lo scorse rimase un attimo senza decidere, poi prese un altro caricatore e lo infilò nel fucile.

Franco lo guardava stupito: era questo quindi il lanzichenecco?

Sì, lo era e allora chiuse gli occhi e si vide nei panni di un grande condottiero che andava a combattere il male per il bene di tutti, in una battaglia cruenta dove anche il suo scudiero era stato massacrato.

Il campo era quello tipico di un grande combattimento ed erano più i morti che i vivi, anzi erano sopravvissuti solo lui e il capo nemico, e adesso loro si sarebbero affrontati.

Il tedesco armò il fucile, guardò un attimo quel piccino dagli occhi chiusi che, rialzatosi, gli stava davanti, ritto, quasi impavido, poi alzò la canna dell’arma verso l’alto ed esplose un colpo.

- Finito?

- Finito.

- Allora usciamo e andiamo a Sant’Anna di Stazzema.

L’autocarro ripartì rombando, fra canti sguaiati.

Il piccolo riaprì gli occhi e si guardò intorno: Franco da Barberino aveva vinto la sua battaglia.        

    

   

 

 

 

 

 

 

 

 

5 commenti:

  1. Mi complimento per questi tuoi due racconti Renzo in cui il bene e il male continuano a combattersi e dove il vincitore deve essere solo uno: il bene, quella voce che, se si vuole ascoltare, è in ogni essere umano. Confesso che mi sono commossa nella lettura....hai vinto! Grazie
    Giovanna

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  2. Mi sono commossa anch'io... Bellissimi racconti, tutti e due. E il secondo, poi, è da sempre, fra i tuoi, uno dei miei preferiti.

    Milvia

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  3. Che bei racconti! Sono meglio di qualsiasi discorso per commemorare la Giornata della Memoria.

    Agnese Addari

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  4. Bellissimi, strazianti e veri. Senza compassione non esiste né alcuna forma di religione di nessun genere né umanità né niente. Scritti benissimo e carichi di vitalità.

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  5. Sono due racconti "semplici", ( e per me la semplicità è il massimo che si possa raggiungere nell'elaborazione di un testo ) e commoventi che aiutano il lettore a "non dimenticare". Tutte le tue "Storie di paese" sono belle belle e vive.

    Ciao
    franca

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