sabato 15 dicembre 2012

I racconti di questo Natale





Come per il Natale 2011 di seguito potete trovare una serie di racconti in tema:

 

Il mio Natale

di

Pietro Zerella

 

Non eravamo ricchi, né benestanti, né poveri, ma campavamo.

Mio padre artigiano e mia madre casalinga, contadina e a volte sarta.

Erano gli anni che di soldi ne circolavano pochi, in particolare nei paesi.

Il lavoro di mio padre spesso era retribuito con fagioli, patate e altri prodotti agricoli, spesso si ritornava al baratto.

Con l’avvicinarsi delle feste natalizie, la sera gli zampognari, per un soldino, suonavano davanti alle case. Io li ascoltavo incantato e alla fine li seguivo con lo sguardo fino alla prossima abitazione. Andavo a dormire cullato dal suono delle cornamuse che immaginavo sentire per tutta la notte fino al rintocco della campana che annunciava la novena e contemporaneamente avvertivo la mano di mia madre sulle spalle che cercava di svegliarmi per portarmi con lei in chiesa per la novena.

Non era ancora giorno. Le strade erano buie e fangose.

Con i pantaloncini corti, ero appena un ragazzino, infreddolito e mezzo addormentato, costretto a sentire le preghiere. Poi in fretta a casa perché mia madre doveva preparare la colazione alla famiglia.

Finalmente la vigilia di Natale, il cenone.

Dalla mattina in casa c’era un fermento indescrivibile fra mia madre e mia sorella, di molti anni più grande di me, a pulire il cavolfiore, i broccoli, a preparare il baccalà e tutte le belle cose che la sera si servivano a cena.

Il momento magico per me era quando ci sedevamo a tavola, però prima ci facevamo gli auguri: a nostro padre, poi alla mamma e al fratello maggiore e così via; io il più piccolo correvo ad abbracciare le gambe dei più grandi per farmi notare e baciare. Era un rito così bello da protrarsi negli anni. Finalmente a tavola, però. prima di mettere la forchetta nel piatto, c’era la preghiera da dire, e poi il piatto forte della serata, vermicelli con aglio, olio, acciuga e peperoncino, pronti per essere gustati.

Poi si mangiava il baccalà, cucinato in diversi modi con tanti contorni di ortaggi di tutte le specie e infine un torroncino del Papa.

Dopo il capodanno c’era la Befana.

La notte non dormivo per attendere che la vecchietta con il sacco sulle spalle venisse a riempire la mia calza sistemata, ben in vista, ai piedi del letto. L’attesa era così lunga che alla fine mi addormentavo senza averla vista.

La mattina al risveglio trovavo la calza piena di tante belle cose, fichi e prugne secche, qualche biscotto,la solita arancia e l’immancabile pezzo di carbone perché evidentemente durante l’anno era stato cattivo ed ero stato punito.

Finalmente quasi giovanotto, ma ancora con i pantaloncini corti, le novene mattutine diventarono molto piacevoli. Mi svegliavo e da solo andavo in chiesa.

Mia madre non si capacitava della mia improvvisa conversione senza mugugni.

La verità, che poi mamma scoprirà, era che mi ero innamorato di una ragazzina con le trecce lunghe e gli occhietti vispi, che poi sarebbe diventata mia moglie.

Gli anni inesorabilmente passarono, il lavoro lontano, il matrimonio, i figli e poi i nipoti. Che belli i nipoti!

Tutto passò così in fretta, o meglio dopo decine di anni.

Oggi Natale, non più novene la mattina presto, non più cornamuse la sera ma cori di giovani con la fisarmonica che cantano. “Tu scendi dalle stelle…”.

La vigila, gli auguri in famiglia, abbracci e questa volta sono i nipotini che mi abbracciano le gambe per ricevere il bacio. E’ un rito così bello che spero di trasmetterlo ai miei discendenti.

A tavola ci attende il solito cenone, ma ora, a base di pesce e con tanto di antipasto di mare. Una cena lunga che non si finisce mai di mangiare mentre i nipotini fremono dall’impazienza di aprire i regali sotto l’albero di Natale.

Un regalo per tutti, tanti sorrisi, tante sorprese, tanti abbracci, mia figlia che strimpella sul pianoforte “O Tannebaum…” io e mia moglie seduti sulla poltrona osserviamo felici e ci guardiamo, lei ha un fazzoletto di seta sulle spalle ed io un paio di pantofole ai piedi, regalo del nostro Natale.

Senza parlare, guardandoci negli occhi lucidi dalla commozione, ci accorgiamo che il tempo è volato così in fretta, ma non dal cuore che è ancora giovane, come dice una nota canzone. Nel tentativo di sollevarci dalla poltrona ci accorgiamo però che il tempo non è più nostro ma dei nostri figli, dell’ultimo della nidiata: Pietro Junior.

 

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Il mondo ne è pieno


di


Morena Fanti e Marco Freccero


 


Se ne stava seduto al buio del suo ufficio da un paio d’ore, a fare nulla. Sullo schermo del computer compariva a intervalli di cinque minuti il salvaschermo, e lui ogni volta schiacciava un tasto.

Sulla scrivania allora riapparivano decine di cartelle, mentre dallo schermo si rovesciava sul suo volto, sulle mani, una luce pallida. Ma né il suo volto, né le sue mani, neppure la sua persona storta e in un perenne stato di tensione, erano qualcosa di gradevole.

Era solo.

Sospirò, si passò una mano sui pochi capelli, osservò il Rolex che segnava le sei di sera.
La sua casa editrice aveva bisogno del salto di qualità. Tutti i critici la snobbavano perché pubblicava a pagamento. Gli utenti lo attaccavano: “Un vero editore doveva rischiare il proprio denaro, non chiederlo agli autori”.

Poveri illusi!

Colpì con un pugno la scrivania: ci voleva un’idea! No, gli serviva un autore nuovo, meglio ancora se bravo e di talento, quello vero. Ma in mezzo al ciarpame che pubblicava, nessuno lo avrebbe notato: ogni mese lanciava sul mercato cinquanta nuovi autori.

Poi gli venne l’idea.

Si ricordò di quel tipo, Candido Degli Innocenti, che aveva spedito un romanzo davvero buono; uno dei pochi a usare la posta tradizionale, invece dell’email. Aveva svolto qualche ricerca sul suo conto, perché quel nome non gli suonava nuovo. Poi l’illuminazione: era un ex professore di italiano del liceo, in pensione da almeno vent’anni. Soprattutto, era il suo ex professore di italiano. Un uomo solo, dimesso, per nulla fotogenico, un tipo col pallino della bella scrittura, della narrativa come leva per rendere migliore la società.

Lui aveva fatto tesoro dei suoi insegnamenti: la narrativa aveva davvero reso migliore la società, la sua “a responsabilità limitata”.

Leggere era considerata un’attività stupida, e quei pochi che lo facevano mai e poi mai avrebbero perso tempo con un autore che non era più un ragazzo. Inoltre, lui sapeva anche che non bastava un buon romanzo per ricavarne il caso editoriale dell’anno.

Sfogliò ancora il dattiloscritto. Rilesse l’incipit, le prime tre pagine: “Convincente, davvero convincente”, borbottò. Riusciva ancora a fiutare un affare, e quello, poteva essere un best-seller.

Ma non con il suo autore. Non con quell’uomo.

Sospirò, appoggiò la schiena alla poltrona.

Giovani e maledetti, ecco come dovevano essere gli scrittori. Adatti alla televisione. Occorreva perciò liberarsi dell’ex professore e passare il romanzo a qualche giovane di belle speranze, dallo sguardo torbido e il passato misterioso.

Di gente così il mondo era pieno, e trovare chi fosse disposto a impersonare il ruolo dello scrittore, non era difficile. Sarebbe stato autore di una sola opera, si capisce. Ma questo era un problema che avrebbe affrontato a tempo debito.

Adesso era necessario scippare al professore il dattiloscritto. La faccenda era delicata. Occorreva presentargli la faccenda nel modo giusto, in un modo tale che lui accettasse.

Si sfregò il volto, sbuffò. Schioccò le dita: aveva bisogno del lavoro dell’ufficio legale “Mesta & Fosco”, uno dei migliori della città. Di certo sarebbero stati in grado di redigere un contratto legale perfetto, quindi incomprensibile anche a un ex professore di italiano. I loro servizi erano costosi, ma ogni tanto, bisognava pur spendere qualcosa.

Questo gli ricordò che doveva fermare l’emorragia di denaro dalle casse dell’azienda, cioè dalle sue. “La prima fonte di guadagno è evitare le spese”, era il suo motto, la sua filosofia di vita.

Diede un’occhiata al foglio di calcolo, e accese una lampada a risparmio energetico, anche se l’ecologia era l’ultimo dei suoi pensieri.

La voce “diritti agli autori” era ancora troppo esosa: a qualcuno aveva promesso un cinque per cento sulle vendite, decurtata l’iva ovvio, e la spesa per i diritti era di seicentocinquanta euro virgola trentacinque.

Per fortuna erano ben pochi i libri che superavano la soglia di 100 euro di ricavi, e i pagamenti avvenivano raramente. Passò alla voce “spese per pubblicità”: trentacinque euro di spese postali per inviare copie gratuite a qualche giornalista per una recensione. Senza contare il valore dei volumi: questo l’avrebbe recuperato dalla dichiarazione delle copie mandate al macero.
Alzò la testa per guardare l’orologio: era ormai ora di cena e decise di avviarsi a casa.
Quando chiuse la porta, quattro mandate e un catenaccio, guardò la luce che si rifletteva sulla targa d’ottone: non ci vide la bellezza del sole che tramontava alle sue spalle ma una macchia scura che copriva in parte la lettera “L” del suo cognome. Luccio diventava uccio e sembrava un nome di cui farsi beffe. La mattina dopo avrebbe chiesto alla donna delle pulizie, una filippina, di usare più olio di gomito. La sua casa editrice, la Gustavo Luccio editore, doveva brillare nel cielo dell’editoria.

“Non hanno il senso del dovere. Del lavoro”.

Da un paio di giorni la donna parlava di “ferie”, della busta paga che riportava una cifra, mentre a lei ne veniva corrisposta un’altra inferiore. E crollò il capo, si avviò al BMW, sbloccò la chiusura centralizzata. Quando allacciò le cinture di sicurezza, aveva deciso di licenziarla.

“Il mondo è zeppo di filippine”. E ghignò.

«Mio caro, caro professore. Si sieda la prego». Gustavo attese che Candido si accomodasse e iniziò a parlare: «Il suo romanzo non è male. Ha qualche pecca ma l’idea di fondo è buona. Bisognerebbe rivederlo, limarlo, editarlo ma forse potrebbe uscirne un testo discreto. Certo, tutto ciò comporterebbe molto lavoro, e molte spese per la mia casa editrice…»

Il vecchio professore ascoltava in silenzio. Sistemò gli occhiali dalla montatura in oro sul naso, sospirò. Lasciò passare alcuni minuti prima di parlare: «Se comporta tanto lavoro forse è meglio lasciar per…»

«No, no, tutt’altro!». Esclamò. Aprì una cartellina, estrasse alcuni fogli pinzati in un angolo, e li tenne in mano, mentre parlava:

«Io mi ricordo bene di lei. Non so se lei riesca a ricordarsi di me, sono passati così tanti anni. E con tanti studenti da seguire, alla fine rimangono in mente solo i migliori».

«Tutt’altro. Ho buona memoria anche per i peggiori. Di lei ricordo con dolore l’indifferenza, una certa ottusità».

Gustavo impallidì, fece un sorriso forzato. Infine si strinse nelle spalle:

«Sa, la gioventù rende sciocchi. Poi si matura, si migliora».

«Non è detto». Dalla tasca del cappotto l’ex professore prese un fazzoletto di tela, si tolse gli occhiali e iniziò a pulirne le lenti. Gustavo strizzò gli occhi, disse:

«Qui c’è il contratto. È raro che si proponga subito qualcosa del genere a chi esordisce. Di solito, ci sono una serie di incontri che servono per conoscere lo scrittore, e cercare di capire se davvero la scrittura è importante per lui. Se vuole creare qualcosa che resti o si accontenta di pubblicare». Glielo porse.

Il professore inforcò gli occhiali e iniziò a leggere, senza fretta. Gustavo aveva in mano una magnifica stilografica Aurora, già la porgeva, ma Candido arrivato in fondo alla prima pagina disse: «Bah!», e ricominciò a leggere.

Gustavo respirò a fondo.

Gettò un’occhiata alla penna e infine la poggiò sul piano.

Pensò: “ Sono stato un idiota a pensare di poterlo fregare con un contratto. Questo spulcia tutto!”.

Candido crollò il capo, e attaccò a leggere il secondo foglio del contratto. Poi il terzo e ultimo.
Gustavo gettò un’occhiata all’orologio; era da venti minuti che il suo ex professore lo stava passando al setaccio. Rimise la penna stilografica nella tasca interna della giacca di velluto. Si diede dell’idiota, ma la cosa che più lo faceva infuriare era che lo studio legale doveva essere pagato comunque.
Candido posò il contratto sulla scrivania. Si alzò in piedi. Lo osservò per qualche istante, disperso oltre la larga scrivania di mogano, poi girò sui tacchi e si diresse verso la porta.

«Ma, professore», mormorò Gustavo, «non dice nulla? C’è qualcosa che non va? Possiamo parlarne...».
Il professore calò la mano sulla maniglia, l’abbassò, la tirò a sé, infine si voltò:

«Lei è peggiorato, dal liceo. Prima era solo un ottuso e sciocco ragazzo. Adesso è diventato un ottuso, avido e meschino uomo. Buona sera. E buon Natale».

Allo scatto della porta che si chiudeva, Gustavo sobbalzò. Si passò la lingua sulle labbra e soffiò.

Diede un colpo alla tastiera del computer, e dal calendario si rese conto che era il 24 dicembre.
«Natale! La festa degli scemi!». Un suono lo avvisò dell’arrivo di alcune email. Diede un’occhiata veloce, per scoprirne una della banca, che lo avvisava dell’accredito sul suo conto corrente di oltre 22.000 euro. Una decina di autori esordienti aveva abboccato, e versato la cifra pattuita.

Sorrise, gettò un’occhiata al contratto abbandonato sulla scrivania. Lo prese, lo passò al distruggi-documenti.
«Per fortuna che gli scemi non vanno mai in ferie». Disse, e pensò che dopotutto, restare una casa editrice senza un vero autore, non era poi così male.

 

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Il Natale di Martin

di Leone Tolstoj

 

 

In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime.

Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi.
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: - Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. - Entra· disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera- rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva.

Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa. - Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po', vide una donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori.

La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo.

-         Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi.

-         Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio: - Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.

 

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Il regalo di Natale

di

Salvatore Armando Santoro

 

Pioveva e non avevo voglia di viaggiare sotto la pioggia, però quel giorno dovevo per forza andare a Pistoia perché avevo un appuntamento dal dentista.

Avevo fatto pochi chilometri e stavo percorrendo la statale che costeggia il corso del fiume Reno, che sorge a Prunetta, pochi chilometri dalla località dove abito quando sono in Toscana.

Ad un tratto mi accorgo che un cane viaggia al centro della carreggiata, sbandando un po' a destra ed un po' a manca.

Istintivamente mi fermo ai bordi della strada ed il cane mi si avvicina subito e cerca di salire in macchina.

- "E' un cane abbandonato, esclama mia moglie arrabbiata. Prendono gli animali e poi li abbandonano".

Ma quel cane, anzi quella cagna (visto che è una femmina) inzuppata fradicia d'acqua aveva il collare con sopra inciso il numero telefonico ed il nome del proprietario.

-"E' una cagna da caccia, dico a mia moglie. Forse correndo dietro un cinghiale s'è smarrita!"

Compongo col telefonino il numero trovato sul collare, ma dall'altra parte del telefono nessuno risponde.

La mia Ketty (una bastardina di piccola taglia) mi osserva impensierita quando la nuova ospite sale in macchina.

Forse anche lei s'è accorta del puzzo accidentato che quella bestia emana.

Percorro un mezzo chilometro e mi fermo alla prima borgata che trovo. Un signore mi presta la guida del telefono e ... sono fortunato! Il proprietario abita a Maresca, sulla montagna pistoiese, un paio di chilometri da casa mia. Risalgo con il cane in macchina (nel frattempo l'avevo fatto scendere per non far morire asfissiata mio moglie) e ritorno verso casa alla ricerca del proprietario.

Ma tutto mi va storto! Recentemente hanno cambiato i numeri civici ed in paese nessuno conosce il nominativo da me fornito.

Vado per tentativi: cerco di ricostruire a caso la vecchia numerazione per avvicinarmi il più possibile al mio uomo.

Il puzzo in macchina è insopportabile e cammino con i vetri abbassati (siamo vicini a Natale e fuori fa abbastanza freddo).

Finalmente, dopo un'ora di ricerche affannose, arrivo alla meta. Ma al citofono non risponde nessuno.

Il cane, però, scodinzola contento. Ha riconosciuto il posto dove abita. Lo faccio scendere e s'avvia verso casa bevendo avidamente in una scodella d'acqua sporca che trova in un angolo.

Un vicino s'affaccia all'uscio e spiego la situazione.

- "I padroni li ho visti andar via. Venga mettiamo il cane nel suo recinto. Mi dia anche il numero del suo telefono così lo darò ai miei vicini appena ritorneranno".

Contento della mia buona azione, do una ripulita alla macchina e m'avvio verso casa. Ormai l'appuntamento con il dentista è saltato.

Un paio d'ore dopo Ketty mi fa cenno di voler uscire di casa.

- "Dov'è il guinzaglio?", chiedo a mia moglie.

- "L'avrai lasciato in macchina".

Cerco in macchina, ma non lo trovo. Mi ricordo che il guinzaglio l'avevo adoperato per agganciare il collare del cane smarrito e poi l'avevo lasciato sul tetto dell'auto quando avevo fatto scendere l'ospite inatteso.

- "Cristodina", impreco, "mi sarà caduto quando sono ripartito".

A questo punto decido di telefonare al proprietario del cane smarrito. Forse sarà caduto proprio davanti casa sua e penso che sarà contento di ricambiarmi il favore. Sempre che nel frattempo sia rientrato in casa.

- "Le stavo appunto telefonando, mi risponde al telefono. Siamo rientrati da circa un'ora, ma solo adesso il mio vicino di casa mi ha portato il suo numero telefonico. Per tutto il giorno siamo andati alla ricerca del cane. Sa, io sono un cacciatore e stamattina verso le dieci la cagna è andata dietro ad un cinghiale e non l'ho più vista ritornare. Non ho neppure pranzato per la disperazione".

- "Ma dove l'ha trovata?, mi chiede".

- "L'ho trovata nel Reno (è un modo per indicare la strada statale che si snoda lungo il fiume Reno) vicino al laghetto sportivo verso le quindici e un quarto".

- "Ma noi c'eravamo passati una diecina di minuti prima! esclama. "Pensi quanta strada ha fatto. L'avevo perso stamani alle 10 nella zona di Montemagno" (circa sei-sette km distante in linea d'aria).

"Sul Reno ci eravamo fermati proprio nei pressi del laghetto della pesca sportiva ed avevamo chiamato e fischiato a lungo. Ma , poi, scoraggiati, ce ne siamo andati via e siamo ritornati a cercare nella zona di Montemagno prima che calasse la sera. Appena noi siamo ripartiti, subito dopo siete arrivati voi. Probabilmente ci aveva sentito ma non aveva fatto in tempo ad arrivare. Quando siamo ritornati a casa eravamo avviliti perché pensavamo che il cane ormai era perso. Mia moglie era entrata in casa ed io mi stavo pulendo le scarpe. Ho sentito un lieve mugolio arrivare dal recinto del cane".

- "Oh, chi è mai? - ho pensato tra me".

"Sono andato a vedere per curiosità e chi ti trovo affacciata alla ringhiera? Il cane. Gli sfilo il collare ed entro in casa".

-"Sai chi c'è nel recinto? - dico a mia moglie".

-"Chi c'è?"

- "C'è il cane?"

- "Il cane? Tu per la troppa fatica dai i numeri!"

- "Guarda il suo collare, se non ci credi!"

"Corre fuori anche lei e per poco non gli viene un colpo".

- "Ma chi l'avrà portata?, si chiede. Ed intanto gli passa una scodella di zuppa che la cagna divora avidamente".

"Si telefona a destra ed a manca a tutti i nostri amici cacciatori, ma nessuno sa darci una spiegazione".

"A sciogliere il mistero arriva il nostro vicino di casa con il Suo numero telefonico e Le stavamo per telefonare per ringraziarLa del grandissimo favore che ci ha fatto. Ma è arrivata prima la Sua telefonata".

- "Siamo stati fortunati a trovare della gente che ama gli animali, altrimenti la cagna poteva essere rimasta sotto una macchina e addirittura combinare anche qualche incidente".

- "Adesso vado a vedere se trovo il collare del suo cane".

Intanto che lui esce a cercare, provo a fare un giro in auto caso mai fosse andato a finire in qualche cunetta lungo la strada e poco dopo arrivo anch'io a cercare attorno a casa. Nulla!

-"Non importa! esclamo, tanto era ormai da cambiare. E' l'occasione per comprarne uno nuovo".

Mi fa entrare in casa e non sa cosa offrirmi da bere (ma io sono astemio) o da darmi in segno di riconoscenza. Poi arriva con due uova fresche.

- "Non ne ho altre, esclama, sono delle mie galline ma in questo periodo ne fanno poche. Le prenda sono uova naturali. Appena ricominceranno a produrle gliele darò delle altre".

Gradisco perchè insiste tanto e rifiutare mi sembrerebbe fargli un torto.

Poi sono sempre due uova fresche e con i tempi che corrono, e con quello che siamo costretti a mangiare oggi, sono anche cose ormai rare da trovare.

Ci salutiamo con l'impegno di ritrovarci.

Passo a trovare la cagna che se ne sta tranquilla nel suo recinto. Mi riconosce e mi scodinzola tranquilla. Forse, alla sua maniera, mi sta ringraziando anche lei.

 

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La piccola fiammiferaia

di Hans Christian Andersen

 

Era la fine dell'anno faceva molto freddo. Una povera bambina
camminava a piedi nudi per le strade della città.
La mamma le aveva dato un paio di pantofole, ma erano troppo grandi e la povera piccola le aveva perdute attraversando la strada.
Un monello si era precipitato e aveva rubato una delle pantofole perdute.
Egli voleva farne una culla per la bambola della sorella.
La piccola portava nel suo vecchio grembiule una gran quantità di fiammiferi che doveva vendere. Sfortunatamente c'era in giro poca gente: infatti quasi tutti erano a casa impegnati nei preparativi della festa e la poverina non aveva guadagnato neanche un soldo.
Tremante di freddo e spossata, la bambina si sedette nella neve: non osava tornare a casa, poiché sapeva che il padre l'avrebbe picchiata vedendola tornare con tutti i fiammiferi e senza la più piccola moneta.
Le mani della bambina erano quasi gelate.
Un pochino di calore avrebbe fatto loro bene!
La piccola prese un fiammifero e lo sfregò contro il muro.
Una fiammella si aceese e nella dolce luce alla bambina parve
di essere seduta davanti a una grande stufa!
Le mani e i piedi cominciavano a riscaldarsi, ma la fiamma durò poco e la stufa scomparve.
La piccola sfregò il secondo fiammifero e, attraverso il muro di una casa, vide una tavola riccamente preparata. In un piatto fumava un'oca arrosto....
All'improvviso, il piatto con l'oca si mise a volare sopra la tavola
e la bambina stupefatta, pensò che l'attendeva un delizioso pranzetto.
Anche questa volta, il fiammifero si spense enon restò che il muro bianco e freddo.
La povera piccola accese un terzo fiammifero e all'istante si trovò seduta sotto un magnifico albero di Natale. Mille candeline brillavano e immagini variopinte danzavano attorno all'abete. Quando la piccola alzò le mani il fiammifero si spense.
Tutte le candele cominciarono a salire in alto verso il cielo e
la piccola fiammiferaia si accorse che non erano che stelle.
Una di loro tracciò una scia luminosa nel cielo: era una stella cadente.
La bambina pensò alla nonna che le parlava delle stelle.
La nonna era tanto buona! Peccato che non fosse più al mondo.
Quando la bambina sfregò un altro fiammifero sul muro,
apparve una grande luce. In quel momento la piccola vide la nonna tanto dolce e gentile che le sorrideva. -Nonna, - escalmò la bambina - portami con te! Quando il fiammifero si spegnerà, so che non sarai più là.
Anche tu sparirai come la stufa, l'oca arrosto e l'albero di Natale!
E per far restare l'immagine della nonna, sfregò uno dopo l'altro i fiammiferi.
Mai come in quel momento la nonna era stata così bella.
La vecchina prese la nipotina in braccio e tutte e due, trasportate da una grande luce, volarono in alto, così in alto dove non c'era fame, freddo né paura.

Erano con Dio.

                            

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L'angelo in estasi

di

Domenica Luise

 

Era un unico blocco di resina, si girava la chiavetta e il carillon suonava le note di Tu scendi dalle stelle. La maestra raccontò di Maria, Giuseppe e come Gesù fosse nato in una grotta perché non avevano trovato posto all'albergo. Disse che lì dentro scesero gli angeli e cantavano.

Noemi non poteva staccare gli occhi da uno di quegli angeli che stava nel gruppo poggiato sulla cattedra: era vestito di azzurro, aveva l'aspetto di un ragazzino, le ali aperte e il viso rovesciato all'indietro, allora Noemi chiese perché facesse quella faccia, la maestra rispose che era in estasi e tutti i bambini vollero sapere cosa fosse l'estasi né fu facile spiegarlo nell'entusiasmo generale.

Poi la maestra dette ad ognuno dei bambini un biglietto, che costava tre euro, e disse che lei regalava il presepio per sorteggiarlo, l'indomani avrebbero riunito i soldi e comprato i panettoni da portare, tutti insieme, al vicino orfanatrofio dove tante bambine, se nessuno le invitava, avrebbero passato il Natale senza mamma e papà.

Così avrebbero giocato e mangiato tutti insieme.

A Noemi piacque tanto l'idea del gioco, dei panettoni da mangiare insieme, ma soprattutto l'attirava l'angelo in estasi. Anche la Madonna era carina, San Giuseppe era vecchio e le piaceva meno, e poi aveva barba e baffi, che lei non sopportava perché il nonno la pungeva ogni volta che la baciava.

Alzò la mano: <Posso comprare tre biglietti invece di uno?> chiese essendo proprietaria di dieci euro. Sperava di vincere.

Le sarebbe sempre rimasto un euro per qualche masticante alla fragola.

<Certo> rispose contenta la maestra, <il Signore vede il tuo cuoricino generoso>.

Noemi restò perplessa perché invece si sentiva abbastanza egoista e, quando l'indomani vinse davvero ed ebbe il suo tesoro fra le mani, si mise a saltare di gioia.

Letteralmente.

Adesso bisognava nasconderlo perché la sua mamma, totalmente atea, faceva sparire immediatamente qualsiasi oggetto religioso appena qualcuno azzardava il pensierino da Lourdes oppure da padre Pio. In casa sua c'erano stanze, spazio, quadri e ricchezze, ma non s'era visto mai un crocifisso nemmeno piccolo oppure un'immaginetta. Il papà lasciava fare volentieri e preferiva anche lui tenersi lontano dalle superstizioni. Si sa, erano soltanto speculazioni sulla paura della morte che tutti gli esseri umani coscienti provano. Egli preferiva affrontare la verità.

Non aveva, del resto, nemmeno il tempo di pensarci col suo lavoro di dirigente dei dirigenti, come scherzosamente si autodefiniva.

La fabbrica di tessuti in pura lana era sua e sapeva che l'occhio del padrone ingrassa il cavallo. Voleva essere informato di tutto, specialmente delle minime lamentele.

Così non gli restava tempo, quando sarebbe andato in pensione avrebbe ripreso i pennelli in mano, visto che da giovane aveva tentato di fare il pittore, ma poi la fame era troppa e si era trovato un impiego.

"Da galoppino a padrone" pensava sempre anche se non lo diceva.

"Lo nasconderò nella pancia di Babì" decise Noemi. Babì era l'orsacchiotta rosa fucsia con la quale dormiva abbracciata, aveva una cerniera sulla schiena dalla quale si poteva estrarre l'imbottitura per lavarla. Coi suoi pugnetti Noemi fece un piccolo fosso e infilò lì dentro, al sicuro e nel morbido, il suo presepio.

Nessuno l'avrebbe mai trovato. Si addormentò sorridendo quasi con la stessa espressione dell'angelo. Era il ventiquattro dicembre.

L'indomani mattina sotto l'abete mostruoso e carico di palline e luminarie c'erano grandi pacchi multicolori, poi arrivarono gli zii con altri pacchi ancora più grandi e più colorati e i nonni ed anche una bisnonna col cammeo sulla gola e pizzi bianchi che venivano fuori dal cardigan blu.

Noemi fu sballottata, baciata, punta dalla barba e dai baffi del nonno Espedito, venne alzata per aria dal cugino Ippolito, che a lei sembrava un po' cretino perché rideva sempre e la maestra diceva che il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi. Dopo di che l'abbandonarono a giocare con le Barbie principesse in abito sontuoso e diadema di plastica insieme con le cuginette più piccole di lei, e quelle due incominciarono:

<La mia Barbie vuole un fidanzato>.

<Anche la mia cerca marito>.

Allora dobbiamo comprare l'abito da sposa e le fedi.

Noemi sbadigliava e pensava all'angelo nella pancia di Babì, <Mamma> fece, oggi ci sono tre bambine dell'orfanatrofio che sono senza mamma e papà, ho sentito la maestra dire che non le ha invitate nessuno perché sono brutte, posso farle venire a mangiare con noi?>.

Anche il papà si interessò subito e poco dopo tre bambine intirizzite, con i cappotti un po' corti e gli occhi spalancati, entrarono nell'elegante salone. Vennero accolte come ospiti d'onore, messe a loro agio e in breve finirono nella stanza di Noemi, dove si sentì ridere e chiacchierare fino all'ora di pranzo, quando si presentarono con gli occhi accesi ed erano tutte bellissime.

<Ho diviso con loro i miei giocattoli e anche i vestiti> disse Noemi orgogliosa.

<Hai fatto bene> rispose la mamma.

<Brava la mia bambina> disse il papà.

Nella pancia dell'orsacchiotta fucsia sembrava che l'angelo sorridesse più in estasi che mai.

 

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Natale bambino

di

Annunziata Bertolone

 

Venne il Natale. La mia piccola Valeria era rimasta incantata di fronte alle vermiglie stelle che adornavano un angolo del salone della mia casa cittadina. Quell’anno me n’avevano regalate parecchie e il loro colore contribuiva a creare l’ambiente caldo e accogliente della festa più spettacolare dell’anno

Avevano delle bellissime brattee rosse e le loro opulente infiorescenze sembravano racchiudere un non so che di strano e misterioso.

La bambina che aveva tre anni, appena arrivava a casa mia si precipitava, quasi senza salutarmi, nel grande salone arredato di verde, si avvicinava alle vistose piante, inizialmente quasi con timore, poi incominciava a toccare pian piano le morbide foglie, le sollevava ad una ad una, guardandole attentamente come a volerne svelare il segreto e inevitabilmente ne staccava qualcuna con il rischio d’imbrattarsi con il latice che è notoriamente molto velenoso.

Ogni volta che veniva a trovarmi, non sapevo come fare per portarla via da lì, approfittava velocemente d’ogni mia più piccola distrazione per avvicinarsi alle stelle e ripetere la sua attenta esplorazione.

Un pomeriggio in cui era più che mai decisa a non allontanarsi dal salone, rimasi accanto a lei e incominciai a raccontarle una storia che mi venne da inventare sul momento.

La fantastica storia aveva come protagonisti dei piccolissimi gnomi che abitavano tra le stelle di Natale, invisibili per chiunque - tranne che per le nonne come me- le avevo detto.

Questi minuscoli personaggi avevano l’abitudine di passeggiare sulle belle foglie color fiamma uscendo dalle loro case che si trovavano tra le infiorescenze dorate più nascoste e per questo bisognava stare molto attenti a non maltrattarle o peggio strapparle.

Mi trovai a dover descrivere i loro vestiti che immaginai fatti d’ali di farfalle, le danze attorno alle goccioline d’acqua che per loro erano laghi, i giochi degli gnomi bambini nel parco, alla base delle piante, dove c’erano le giostre, le altalene e gli scivoli. Non mancava la scuola situata in superficie del terriccio dei vasi. Alcuni gnomini, che erano dei veri monelli, non la frequentavano molto e preferivano andare in giro per il salone a rotolarsi sui tappeti, rischiando di essere calpestati o risucchiati dall’aspirapolvere.

La storia, che ogni volta si arricchiva di nuovi particolari, si trasformò per tutto il periodo natalizio in un bel gioco di cui la bambina sembrava non stancarsi mai. Intanto apprendeva a non strappare le foglie e così a rispettare la natura, mentre io con quello stratagemma evitavo che venisse a contatto con il latice e che il mio salone fosse privato della luminosità festosa del rosso.

Infatti, Valeria poneva la massima attenzione e accarezzava, soltanto, le vivaci foglie delle mie stelle; immedesimandosi nel gioco, mi faceva domande su domande sulle abitudini degli gnomi. All’inizio devo affermare che mi riusciva difficile andare avanti inventando sempre nuove avventure che nello stesso tempo avessero una qualche finalità educativa, ma in seguito la storia nasceva automaticamente senza alcuna premeditazione.

Ogni puntata si concludeva immancabilmente con la descrizione di una scorribanda degli gnomi bambini sui tappeti, dove si divertivano di più ignorando il divieto categorico di mamma e papà.

Con i grandi occhi neri spalancati, Valeria batteva le manine felice e soddisfatta.

Con il passare dei giorni, mi accorsi che la storia raccontata accanto alle splendide piante natalizie aveva un altro lato positivo: mi permetteva di tenere la bambina lontana dalla televisione che, offrendo un prodotto confezionato per un bambino standard, mortifica spesso la creatività e la fantasia.

Il gioco- racconto andò avanti per tutto il tempo che le stelle vissero con l’aggiunta di diverse varianti per cui, a volte, gli gnomi erano anche capaci di arrampicarsi su di me e lei, senza che nessuno li vedesse, tranne me, ovviamente.

La bambina non distoglieva gli occhi dal mio volto e sembrava convinta che tutto quello che io raccontavo fosse vero. D’altra parte tutte le regole di comportamento che gli gnomi bambini dovevano osservare come andare a scuola, essere ubbidienti con mamma e papà, lavarsi spesso le manine, soprattutto prima di mangiare, andare a letto senza capricci e così via, erano le stesse che lei doveva rispettare.

In fondo era un modo come un altro perché apprendesse giocando e lo faceva volentieri.

Quando con il trascorrere dei giorni, le stelle di Natale persero il loro splendore appassendo lentamente, fu evidente che il gioco doveva finire e incominciai a paventare il momento in cui avrei dovuto rispondere ai perché della mia piccola, cercando di mitigare l’angoscia che sicuramente si sarebbe impadronita di lei alla scomparsa dei fantastici gnomi.

Come spiegare ad una bambina di soli quattro anni che tutto finisce e di conseguenza giustificare la morte? Così cercavo di intuire quali potessero essere i pensieri che le passavano per la testolina.

Intanto le stelle continuavano inesorabilmente ad appassire, già le foglie si accartocciavano e si staccavano da sole e le infiorescenze dorate erano diventate nere; bisognava, senza indugio, potarle perché fiorissero il prossimo Natale.

Ero molto preoccupata quel pomeriggio in cui decisi di affrontare l’argomento e quindi di porre fine al gioco, anche se il visetto di Valeria mi era apparso sereno come se nulla stesse accadendo, l’entusiasmo era sempre uguale, né mi aveva fatto domande che mi mettessero in allarme.

Arrivò puntualmente e come il solito si diresse verso il salone raggiungendo svelta l’angolo delle stelle ormai sfinite. Ritardai inconsciamente, come se fossi occupata a fare altro, per prendere tempo, ma la piccola mi chiamò quasi subito: -Nonna presto, vieni a vedere cosa è successo, tutte le foglie sono cadute e gli gnomi non ci sono più-. -Il momento è giunto-, pensai ed entrai nel salone pronta ad affrontare la situazione nel migliore dei modi.

La bambina stava osservando in silenzio le foglie avvizzite e staccate, alcune delle quali sparse sul pavimento. Appena mi vide, mi corse incontro e abbracciandomi mi disse: “Nonna lo sai che anche i bambini possono vedere gli gnomi?” Le chiesi se anche lei li vedesse. Certamente! Sulle stelle non ci sono più, si sono trasferiti sulla tua testa, non senti il solletico? Stanno ricostruendo tra i tuoi capelli le loro casette, gli gnomi bambini sono in fila sul davanzale della finestra, alcuni si arrampicano alle tende, altri ballano e vanno in bici sul tappeto”.

Così dicendo mi guardava complice, la furbacchiona. Aveva capito che, anch’io come lei, non potevo vedere gli gnomi perché non esistevano e che tutto era stato soltanto un bel gioco.

Valeria


Occhi grandi

liquida pece

tra le ciglia schiuse.

Capelli di seta

profumo di viole.

Danzano

impazienti piedini

nelle scarpette di tela.

 

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Piccolo racconto per il Natale

di

Viola Vanessa Corallo

 

Un passo dopo l’altro, l’aria distratta di chi non ha fretta. Passeggiavo, tra vicoli stretti, vestiti di luci.

Lo sguardo verso il cielo, l’azzurro limpido tutto invernale, le mani in tasca.
Avevo l’impressione di poter leggere i pensieri di chi abitava nelle case sulla strada e riuscivo a vedere le luci dell’albero che tingevano le pareti.

Un gatto passeggiava, sui cornicioni.

Più in alto, il fumo usciva tra i tetti.
Non potevo fare a meno di incantarmi ad osservare le vetrine, gli occhi come quelli di una bambina e le guance arrossate dal freddo pungente.
Avevo scelto con cura una panchina, dalla quale avrei potuto anche sbirciare tra i ritratti degli artisti di strada. Avrei voluto essere ritratta anche io.

Da lui.

Vedermi con i suoi occhi.
Sarebbe arrivato in serata. Con quel suo strano modo di camminare, l’aria distratta di chi non ha fretta, di chi ha negli occhi molto più di quel che vede.
Nell’attesa, ho rivolto lo sguardo ancora una volta verso il cielo e proprio in quel momento un piccolo bianco fiocco mi ha baciato il viso.

 

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Un barbone

di

Annamaria Tanzella

 

Un barbone sdraiato, su cartoni ammucchiati, dormiva raggomitolato in una coperta sdrucita; di lato un carrello del supermercato accoglieva varie cianfrusaglie, come fosse stata tutta la sua casa viaggiante. La gente passava e ripassava e lo osservava sgomenta ma al tempo stesso riluttante: l’aspetto polveroso e sudicio creava un certo ribrezzo. I bambini lo temevano come fosse stato l’orco delle fiabe e talune mamme ne traevano vantaggio, menzionandolo come punizione.

Il reietto si era collocato all’angolo di un crocevia, luogo di passaggio del quartiere, punto trafficato dalle auto in corsa e luogo prospiciente l’istituto delle elementari; per lui l’orario di apertura e chiusura della scuola era un momento di gioia, infatti, durante la settimana occupava quell’angolo, mentre la domenica si trasferiva di fronte ai giardini comunali. Era un disadattato che prediligeva la vista dei bambini e anche se alcuni di loro, i più temerari, lo investivano di rimproveri poco garbati, lui sorrideva ugualmente: con gli occhi ricoperti di sudiciume esprimeva le sue tenere sensazioni. Viveva con la carità dispensatagli da alcuni generosi, buoni di cuore, che non temevano il contagio come fosse stato un appestato. Quando gli intimavano di scomparire, lui, senza proferire parola, riponeva le sue cose nello spazio residuo del carrello e si allontanava, per, poi, ritornare puntualmente il giorno successivo all’apertura della scuola elementare. Divenne un elemento di quel quartiere e i loro abitanti si abituarono a lui, alla sua presenza silenziosa e discreta. Il parroco della chiesa gli offrì una sistemazione temporanea, in attesa di un’altra definitiva, ma lui con il capo dissentiva, ringraziandolo con un sorriso.

Giunse il Natale, le luminarie addobbarono le strade e furono appese anche a quel crocevia, i bambini maleducati smisero di insultare il misterioso clochard: lo spirito della festa li aveva resi meno offensivi e tolleranti. Lui distribuiva sorrisi a tutti, dalla sua porzione di marciapiede regalava sguardi carichi d’amore. E quell’angolo divenne un altarino ricoperto di cibi, panettoni, frutta, leccornie varie; avrebbe dovuto invitare altri barboni nel suo angolo felice: troppo cibo per una sola persona. Nessuno lo invitò a trascorrere il Natale al calduccio familiare e se anche lo avesse fatto, il barbone del quartiere avrebbe rifiutato, così come aveva respinto con gentilezza la proposta del sacerdote.

“Signore, oggi è la vigilia di Natale, Gesù Bambino piangerà se non vieni con me!” sussurrò timoroso Andrea “L’ho chiesto alla mia mamma e mi ha detto di si. Noi abitiamo di fronte, dalla finestra guarderò io la tua casa!

La mamma di Andrea aveva acconsentito: sapeva che il misterioso barbone non avrebbe accettato. D’altra parte lei non poteva rifiutare il permesso al suo bambino, non sarebbe stato educativo: gli aveva sempre inculcato sentimenti di generosità e amore per tutti, l’aspetto ripugnante dell’uomo non avrebbe giustificato il suo rifiuto. Il caro Andrea per ottenere il consenso aveva spiegato alla mamma che avrebbe suggerito all’uomo di lavarsi per bene prima di sedersi a tavola. “Sai mamma, gli insegnerò io come si fa!”aveva detto gioioso.

Tutto lasciava presagire che il senzatetto avrebbe rifiutato e invece si alzò, si dette una sistematina alla logora giacca, prese un pacchettino dal carrello e con passo stentato ma fiero s’avviò al fianco del bambino che felice suonò a più riprese il citofono di casa.

La tavola era imbandita a festa, l’albero maestoso irradiava luci rossastre che baluginavano dapprima fiocamente, poi più intensamente mettendo in risalto le variopinte palline, i piccoli babbi natale, le coccarde, i fiori vezzosi. In basso sulla credenza occhieggiava il presepe fulcro dei ricordi passati: era la grotta dell’infanzia della madre di Andrea, ogni statuina rappresentava le varie tappe della sua vita; mancava il pastorello, era scomparso assieme al padre di lei quando si era allontanato per sempre, ad ogni natale la donna rievocava mentalmente quella spina nel cuore.

“Mamma, vedi chi ti ho portato!” annunciò Andrea radioso.

Lei ebbe una morsa allo stomaco e riluttante fece strada fingendo accondiscendenza.

Erano tutti intorno al tavolo, il cenone stava per avere inizio, attendevano lui, il barbone, che compostamente si era allontanato per andare in bagno. Una voce risuonò nella sala, una bella calibrata voce da attore di teatro, una di quelle voci che fanno innamorare.

“Era questa che aspettavi?” e posò la statuina mancante nella grotta dei ricordi.

 

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Una passeggiata di Natale

di

Gavino Puggioni

 

Avevo portato a casa le solite due pizze. Eravamo soli ed abbiamo mangiato quasi per abitudine, forse anche con poca voglia, mentre la tivvù gracchiava a toni bassi.

Mia moglie era stata tutto il pomeriggio alla festa di compleanno di Alice, mentre io ero riuscito a mantenere l'impegno con me stesso, per partecipare alla presentazione di un libro di poesie di un giovane autore.

Avevo parcheggiato lontano dalle strisce blu a pagamento, attorno al centro storico, mi sarebbe costato tre-quattro euro, invece avevo preferito fare una lunga e sana passeggiata.

Sana non tanto, a dir il vero, con tutto quel traffico di auto in fila, motori accesi ed assenza di vento.

Avevo camminato e quasi gustato il variopinto spostarsi della gente, falsamente indaffarata, semmai preoccupata, così dicono, di provare a trovare una bottega nella quale poter comprare

un oggetto, un regalo, per sé o per altri, spendendo il meno possibile, quasi nulla, giusto per dire il pensiero, ti ho pensato ed ecco il regalo di Natale.

Al centro,dove sono i due grattacieli, sempre più brutti e più fatiscenti, le persone mi sembravano al contrario più tranquille, meno agitate. O il regalo l'avevano già acquistato o a questo non

stavano minimamente pensando. Si godevano - ma sarà vero? - quell'andirivieni di sconosciuti, di giovani sdraiati sulle panchine, di arzilli vecchietti che commentavano la solita festa, la solita

presenza, la solita maleducazione dei soliti automobilisti in doppia fila, fermi ma con le freccette accese, per dire, sono qua, non mi fare la multa.

Una puzza insopportabile di benzina e gasolio come ornamento a quella passeggiata, mentre all'angolo della Chiesa del Rosario un uomo barbuto, emblema del fai-da-te, preparava il suo braciere, con tanto di carbone e carbonella, per poggiarvi sopra il tegame bucato per le caldarroste. Chissà quale sapore ne veniva fuori.

A cento metri la via della fainé, quell'impasto di farina di ceci che tanto piace ai miei amici, ma che ti riempie gli abiti, compresi quelli intimi, di nauseabondi profumi esotici.

Tutt'attorno, è vero, vetrine scintillanti ed invitanti, avamposto di sogni e desideri, molti dei quali destinati a rimanere tali, ma l'importante è partecipare, vedere ma non toccare, maledire

l'euro, ma anche con le lire dell'Unità d'Italia si facevano le stesse esclamazioni, soprattutto nella settimana di Natale.

Un incrociarsi di mille e un volto, alla ricerca anche di un saluto, di una parola che non veniva, perché erano tutti occupati al telefonino, a quello video e al nuovo I-POD, che ti impedisce

pure di sentire, così vai più spedito a quell'incontro, negli incontri del nulla.

Vuoi mettere la nuova tecnologia avanzata? La comunicazione se n'è avvantaggiata e come!

Infatti per le strade c'è più silenzio; la gente, giovane e meno giovane, parla da sola, massimo fa qualche gesto e la mimica ne approfitta. Anche questo è spettacolo!

D'incanto il sipario s'era aperto su un altro quadro.

Stavo entrando in una vecchia libreria e vidi il mondo, un altro mondo, fatto di adulti, di giovani, pure di ragazzini che cercavano il libro di un novello Pinocchio o di un resuscitato D'Artagnan.

Persone che parlavano, che si scambiavano opinioni, che criticavano questo o quello scrittore, che inseguivano il titolo di un romanzo di un autore famoso non ancora arrivato tra gli scaffali.

Assapori anche polvere, ma non ci fai caso, perché tutti ne siamo presi. Basta una spazzolata e un po' d'aria e via.

Uscendo da quell'incontro mi sono ritrovato nel fiume di prima. Era ingrossato ma quel silenzio era sempre uguale, come i rumori, solo meccanici e di fastidio.

L'auto mi stava aspettando un po' lontana e allora il mio passo si fece più veloce.

 

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Una madre

di

Salvo Zappulla

 

Percorse qualche metro ancora, tenendosi il fianco. C’era un gran silenzio tutt’intorno, come se la natura avesse spento i suoi rumori, partecipe del dramma. Non ce la faceva più a proseguire, ad ogni passo le fitte di dolore s’intensificavano. Il freddo intorpidiva le sue membra. Erano ancora distanti le luci della casa e si rese conto che non sarebbe riuscito a raggiungerla. Le gambe cedettero di schianto, sul bordo della strada, vinte dalla stanchezza e dal freddo. Si adagiò con la faccia sulla neve. Perché l’avevano mandato a combattere? Cosa c’entrava lui con la guerra? Trovò la forza di sollevare il volto da terra e chiedere aiuto: “Ehi, lassù, mi sentite? Aiutatemi, per favore. Sto morendo!”.

La porta rimase chiusa.

E c’era da capirli. Era uno straniero, un nemico. “Aiuto! Aiuto!” urlò ancora con le poche forze che gli rimanevano. Il gelo lo stava avvolgendo, presto sarebbe arrivato fino al cuore. Aveva una gran voglia di dormire e farla finita. Il cielo era d'un bianco latteo. Che peccato morire in un giorno così bello. Pensò ai suoi cari che non avrebbe più rivisto, alla sua casa, all’alberello che aveva piantato nel giardino. Chissà se aveva già dato i primi frutti. Mancava da due anni oramai. Prima di chiudere gli occhi ebbe l’impressione di vedere la porta aprirsi ma forse era un sogno o un miraggio. La guerra cova rancori, le divise segnano solchi profondi nell’anima della gente. Ma non l’aveva voluta lui la guerra, gli avevano scaricato un fucile tra le braccia e l’avevano inviato a combattere. Ora si ritrovava in una strada deserta, unico sopravvissuto di uno scontro a fuoco. Era riuscito a fuggire, non voleva finire prigioniero. Il respiro sempre più debole, la mente che vagava alla ricerca di volti familiari. Nel sonno inquieto che precede la morte trovò il viso di lei, sua madre. Veniva a portargli conforto. La chiamò: “Madre, madre, non voglio morire! Ho solo vent’anni”. Aprì gli occhi in un ultimo sussulto di ribellione, tentò di alzarsi. Incontrò lo sguardo caritatevole di una donna sconosciuta e la sua mano che gli premeva un panno caldo sulla fronte. “Chi sei? Non ti conosco. Tu non sei mia madre, anche se il tuo viso stanco, i capelli raccolti sulla nuca sono uguali ai suoi”.

Sorrise la donna, ed il suo era un sorriso dolcissimo, di quelli che riscaldano il cuore. ”Che importa, ragazzo mio, tu sei un figlio che chiede aiuto ed io sono una madre: le mamme sono tutte uguali. Hai bisogno di aiuto, non posso negartelo”. Lo aiutò a girarsi con la faccia verso il cielo, ora poteva respirare meglio. “Ce la fai ad arrivare fino a casa sorreggendoti al mio braccio?”. Provò ad alzarsi ma le sue povere gambe sembravano di legno e il sangue sgorgato dalla ferita lo aveva reso debolissimo. Scosse la testa. Lei gli fece coraggio: “Aspetteremo qui, tra poco dovrebbe tornare mio marito, è andato in paese col calesse. Intanto bevi questo, ti farà bene”. Gli appoggiò sulle labbra una ciotola con una bevanda bollente. Il ragazzo si sentì rianimare.

“Ti senti meglio?” chiese la donna regalandogli un sorriso. Anche questo gli fece un gran bene. A volte l’amore riesce a curare le ferite. “Ti ringrazio, mi hai salvato la vita”.

La donna sospirò. “E’ ancora presto per dirlo. Purtroppo sono vecchia, non ce la faccio a trasportarti fino a casa. Sono sola, i miei figli sono stati chiamati a combattere”. Sospirò ancora. “Chissà dove saranno in questo momento”.

Il soldato rimase in silenzio, si sentì in colpa; magari li aveva affrontati in battaglia, magari li aveva uccisi. Cercò di non pensarci. “Anche voi avete un bel cielo” disse, “sembra un’enorme coperta azzurra pronta a calare su di me”.

“E’ bello il cielo quando non è offuscato dalla polvere da sparo” disse la donna.

Ci fu un’altra lunghissima pausa, poi il giovane chiese: “Quanti anni hai?”.

“Sessantasei”.

“La stessa età di mia madre! Anche lei porta i capelli raccolti sulla nuca. E’ molto bella mia madre. Anche tu sei bella, le assomigli”.

“Non agitarti, non consumare le forze”. La donna gli tamponò la ferita con un panno, poi guardò preoccupata verso il sentiero. Suo marito tardava ad arrivare. Pensò che il ragazzo non ce l’avrebbe fatta a resistere ancora per molto.

Ricominciò a nevicare.

“Ho freddo, tanto freddo” si lamentò il soldato.

“Forse è meglio che vada in casa a prenderti una coperta”.

“No! E’ troppo lontana! Ho paura. Non lasciarmi solo”.

La donna guardò ancora verso il sentiero. Suo marito non arrivava. Capì che non rimaneva altro da fare, si sdraiò accanto al ragazzo per riscaldarlo con il suo corpo.

I fiocchi di neve aumentavano d’intensità.

“Ma tu stai rischiando la vita per me! Perché lo fai? Non mi conosci, io sono tuo nemico”.

“Sssstt”. Gli chiuse le labbra con un dito. “ Tu sei un figlio ed io sono una madre, solo questo conta: tua madre farebbe altrettanto per il mio, ne sono certa, perché le madri sono tutte generose. E poi oggi è un giorno speciale, non posso lasciarti morire proprio oggi”.

“Che giorno è?”.

“E’ il giorno di Natale”.

“Non lo sapevo. In guerra i giorni sono tutti uguali, sono fatti di neve”. Furono le ultime parole, calò un torpore bianco su di loro e si addormentarono sereni.

Quando l’uomo col calesse tornò dal paese li trovò sdraiati l’una accanto all’altro; la donna era ricoperta interamente di neve e, chinandosi per soccorrerla, si accorse che il gelo si era impadronito per sempre del suo corpo. Il ragazzo respirava ancora, seppur debolmente. Lo portò dentro e lo adagiò accanto al camino, accese il fuoco in silenzio, sempre con la stessa lentezza dei gesti. Dal suo volto non traspariva alcuna emozione, i suoi lineamenti parevano cristallizzati, forse anche i sentimenti. Lo spogliò e cominciò a frizionarlo su tutto il corpo con una sostanza oleosa presa da un vasetto; indugiò nelle estremità degli arti dove maggiore era il pericolo di assideramento, alla fine lo arrotolò su una pelle di montone, quindi uscì per dare sepoltura alla sua donna.

Nei giorni che seguirono si prese cura di lui imboccandolo come un neonato, più volte lavò e disinfettò la ferita. Rimaneva in silenzio, aveva nello sguardo sempre quell’espressione impenetrabile, non si capiva se fosse odio o indifferenza.

“Mi dispiace per ciò che è successo” disse il ragazzo quando si fu ripreso, “ la tua donna ha sacrificato la sua vita per me, non volevo”.

L’uomo continuò a sospingergli in gola il cucchiaio con la minestra, sembrava sordo. Gli voltò le spalle e andò fuori a tagliar legna.

Altre settimane trascorsero ancora, il ragazzo aveva riacquistato le proprie forze, cercava di rendersi utile ma quando gli rivolgeva qualche parola, il vecchio rimaneva a fissarlo con quegli occhi senza espressione, si alzava dalla sedia e si dedicava alle sue faccende.

Una sera, rientrando con il suo cavallo dal paese, si fermò davanti a lui e gli disse: “Puoi andare ora, la guerra è finita. Ci sono i vestiti di mio figlio nell’armadio, indossane uno e vattene per il sentiero”. E si allontanò per sistemare il cavallo nella stalla. Il ragazzo gli corse dietro: “Aspetta, voglio sapere se mi odi”.

Lui continuò indifferente a dare il fieno al cavallo.

“Dimmi almeno perché mi hai salvato la vita”.

Si voltò. “Perché il sacrificio di lei avesse un senso”.

All’alba il soldato si avviò per il sentiero. Mentre ritornava a casa pensò che lo avevano privato di tre anni della sua vita, tanto era passato da quando era partito. Chissà se il piccolo Robert com’era cresciuto, doveva essere diventato un uomo oramai; e sua madre, dai capelli argentati, sicuramente lo stava aspettando a braccia aperte sull’uscio di casa. Sarebbe stato accolto con gli onori dovuti a un reduce. Davanti all’uscio di casa invece c’era solo il fratello ad attenderlo e, appena lo vide gli buttò le braccia al collo. “E la mamma?” chiese provando un oscuro presentimento.

“La mamma non c’è più” disse il fratello mestamente, “ è morta un anno fa per salvare la vita a un giovane che stava per essere travolto da un’auto. Era uscita per andare a messa, era il giorno di Natale, e vedendo il giovane in pericolo di vita, non ci ha pensato due volte a lanciarsi per salvarlo. E’ morta al posto suo”.

“Era il giorno di Natale?”.

“Sì. Cosa gli importava poi di quel ragazzo, non era mica suo figlio”.

“Sì, era suo figlio. Una madre è la madre di tutti” disse il soldato asciugandosi una lacrima. Gli passò un braccio sulle spalle e si avviarono dentro casa.

 

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Natale di guerra

di

Renzo Montagnoli

 

Fu l’ultima volta che gli porsi gli auguri di Natale, consegnandogli il solito panettone, un modesto omaggio per un amico che tanto mi aveva insegnato con l’amore quasi di un padre. Un dicembre freddo, quello, e con la neve che tardava a venire, con disappunto di chi, per tradizione, si auspica una festa così cristiana e familiare nel caldo della casa e con i tetti e i campi imbiancati.

Fu l’ultima volta, ma non lo sapevo, anche se, dopo la visita, nel ritornare a casa, infreddolito per un venticello gelido che spazzava le strade ebbi netta la sensazione che il mio caro amico Guercio era prossimo al capolinea.

Mi ricevette con il consueto affetto, ma in lui era presente un’ombra, che quasi si poteva scorgere nell’unico occhio rimasto, non più vivo come in passato, anzi smorto, quasi perso a guardare un futuro indefinibile e comunque non roseo.

- Hai fatto bene a venire. Tu non ti dimentichi degli amici e i tuoi auguri mi sono particolarmente cari.

- Non potevo mancare e non per abitudine, perché il rivederti ogni volta è un piacere e trovarmi di fronte a te in questo giorno di vigilia mi commuove in modo particolare. Come stai?

Chinò la testa, ormai del tutto incanutita.

- Sto, ci sono, con i miei malanni, fin troppo fedeli, ma senza il calore di mia moglie. Mi manca tanto, Renzo, e ancor di più in una festa come questa.

Non dissi nulla, perché nulla si può dire a un povero vecchio, alla fine dei suoi giorni, privato da anni della compagnia della donna che aveva così tanto amato.

Però qualche cosa dovevo inventarmi, anchè perché l’occhio del Guercio cominciava a luccicare per una lacrima.

- Dai, però ci sono i tuoi figli, e questo conta molto.

- Buoni, quelli. Una telefonata di auguri domani mattina e se la sono cavata.

- Scusa, uno sta negli Stati Uniti e l’altro invece a Palermo…

- Vero, ma mai che trovino il tempo per un Natale, dico un Natale, solo un Natale, per venirlo a passare con questo povero vecchio.

Oggi la gente ha troppo e al troppo sacrifica i sentimenti. E per questo, se tu hai un po’ di tempo per restare, ti voglio raccontare una storia avvenuta nel 1942, in piena guerra, alla vigilia di Natale.

- Racconta pure.

- Questo fatto mi è venuto in mente proprio oggi, dopo così tanti anni. E’ balzato fuori all’improvviso, così vivo, così nitido, come se fosse accaduto ieri. Ebbene, come ti dicevo si era alla fine del 1942, io già congedato come invalido di guerra per via dell’occhio perso l’anno prima in Albania. Quelle poche speranze che il conflitto durasse poco erano scomparse e al freddo, alla fame, si accompagnava anche la paura per i bombardamenti. Qui volevano colpire il ponte, ma non sempre la mira era precisa e già alcune case erano state distrutte. Ricorderò sempre i corpi delle vittime, appena estratti dalle macerie e distesi in mezzo alla strada, volti sfigurati, ossa spezzate, un vecchio maciullato, una bambina intatta e che pareva che dormisse. Tu non puoi capire cosa si prova a vedere la morte, non come fatto naturale, che è già dolorosa, ma per mano dell’uomo. Si mescolano sentimenti strani, un misto di commozione, rabbia, perfino odio, e infine un’avvilente rassegnazione. Ma ritorniamo a quella vigilia di Natale che voglio raccontare come se la rivivessi ancora e pertanto ti prego di non interrompermi.

Ecco la scena appare nella nebbia, una casa, questa, una stanza, questa, una famiglia, la mia.

- Annibale, nel tuo giro, cosa hai trovato?

- Sono stato anche fortunato, spendendo tutto quello che avevo in tasca. Ecco, se guardi nella sporta, ci sono dei fagioli secchi, cinque patate, due fettine di lardo, un etto di burro e sei uova.

Tilde abbassa gli occhi e a bassa voce si lascia andare a uno sfogo:

- Altro che cenone, questo è già poco per un pasto e ci deve bastare per almeno tre giorni.

Allargo le braccia, ho girato tanto, non so quanti chilometri ho fatto in bicicletta per strade dissestate, al freddo, un freddo che mi porto dietro ormai da giorni, e non ho trovato che questa poca roba.

- Tilde, sono già le tre del pomeriggio e se vuoi riesco.

- Cosa vuoi andare di nuovo, a prenderti una polmonite?

Chino la testa, perché ormai sono rassegnato. Non mangiamo carne da mesi, qualche volta, se riesco a pescare in Po qualche pesce è quello un giorno fortunato. In casa sono tre le bocche da sfamare, la mia, quella di Tilde e quella del nostro bimbo.

- Vedi di fare qualcosa, un po’ di pane, un uovo al burro, due patate lesse, è sempre meglio di niente.

- Il bambino deve mangiare e ha bisogno di carne, anche.

- Dagli un uovo, che è la carne di domani.

Sono fra l’arrabbiato e il disperato e allora esco di casa, sbattendo la porta. Vado, cammino, senza una meta. Mi sento drammaticamente inerme, perché non posso fare nulla.

Già si fa buio e ricomincia a nevicare. Passano le ore, non so quante, perché non ho più l’orologio, l’ho impegnato al Monte di Pietà, forse è già l’ora di cena ed è così.

Passo davanti alla casa di Marchetti, il gerarchetto, come tutti lo chiamano, e attraverso i vetri vedo la tavola imbandita coperta da ogni ben di Dio: antipasti vari, tortelli, zamponi con le verze, faraona arrosto, insalate miste, panettoni.

Lui può, è un fascista scalmanato e quello che non riesce a comprare se lo fa dare con le maniere forti.

C’è tanta di quella roba che una famiglia come la mia può mangiare a sazietà per un mese.

Passo oltre, sconsolato e arrivo quasi al ponte, quando all’improvviso suona l’allarme.

Corro via subito, perché quello è l’obbiettivo, ma non so dove andare, poiché le bombe possono cadere ovunque, anzi già temo per la mia famiglia e l’immagine dei volti di mia moglie e di mio figlio si sovrappongono a quelle dei morti dei precedenti bombardamenti.

Sento un rumore di motori in cielo, poi mi strazia il sibilo delle bombe, e infine ecco le esplosioni. Avverto chiara una vampata di calore, sono gettato per terra, mi duole tutto un fianco. Il buio non c’è più e la luce dei bengala e dei roghi accesi dalle bombe rischiara il buio, al punto che sembra di essere di giorno. Ho alcuni tagli nelle mani provocati dai vetri infranti, il fianco mi fa sempre male, come se qualche cosa gli premesse contro; mi porto una mano per toccarlo, ma non ho ferite, eppure sento premere e allora decido di alzarmi, con fatica.

Mi reggo a malapena sulle gambe e cerco di capire dove sono: mi trovo davanti alla casa di Marchetti, i vetri sono infranti, per lo spostamento d’aria la tavola imbandita è diventato un ammasso di cibo, guardo ancora per terra e non credo ai miei occhi, perché c’è una faraona arrosto e non solo lei, anche un paio di zamponi che sembrano invocare la mia attenzione unitamente a un bel panettone.

Mi guardo in giro, non ci sono case crollate, la gente è ancora nei rifugi e, mentre i bombardieri si allontanano, raccolgo tutto quel ben di Dio e corro a casa.

Tilde è in preda all’angoscia, ma quando mi vede ha un sospiro di sollievo, che si tramuta in gioia quando nota il cibo che ho in mano.

Mi chiede come ho fatto e io le racconto.

- Annibale, è stato un dono di Dio e come tale non può restare solo a noi.

- Ma Tilde, se lo dividiamo con tutti gli altri, non ci resterà nulla da mangiare..

- No, non con tutti gli altri, ma con don Zeffirino, che è da tre giorni che non tocca cibo per darlo a quei poveri profughi e poi chiamiamo a cena anche la signora Giovanna, che è già povera in tempo di pace, una donna che porta con dignità la sua miseria. Sei d’accordo?

- Come si fa a non essere d’accordo con te, che hai un cuore troppo grande.

E così fu.

- Commovente.

- Renzo, quello è stato il più bel Natale della mia vita ed è da allora che ho imparato quanto sia grande la gioia nel donare.

Mi abbracciò, ma si avvertiva chiara la difficoltà nel respirare: al suo cuore malato si aggiungeva l’enfisema. Eppure strinse, strinse forte e quando mi disse “Buon Natale, amico caro”, mi vennero le lacrime agli occhi.

Contraccambiai la stretta, ma mi accorsi di avere fra le braccia un povero mucchietto di ossa, ciò che restava di un uomo che tanto aveva dato a tutti e che a me dava ancora con la sua amicizia.

- Adesso vai, perché non voglio commuovermi.  Buon Natale Renzo.

- Buon Natale, caro Guercio.

Uscii e presi la strada di casa; passai davanti all’abitazione che era stata di Marchetti e vidi una tavola imbandita e allora ritornai sui miei passi, e tanto feci e tanto strepitai che quella sera il Guercio cenò da me.

(Da Storie di paese)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 









 

6 commenti:

  1. Ho incominciato a leggere questi bellissimi racconti, grazie, Renzo, per avere avuto quest'idea
    che mi fa sentire in pieno clima natalizio e fra amici che amano scrivere i loro pensieri.

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  2. Mentre fuori fa freddo e nevica, immergersi nei pensieri degli altri è utile all'anima e riscalda il cuore. Non tutto è perso in questo mondo, nonostante la malvagità che giorno per giorno si riscontra.
    Grazie per il bel regalo natalizio, Renzo.
    Lorenzo

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  3. Per adesso ho letto solo il racconto di Fanti-Freccero, che mi e' piaciuto moltissimo. Bravi - in tutti i sensi.
    E' proprio una fotografia veritiera della situazione editoriale italiana. Adesso servirebbe un'altra storia dedicata alla ''grande'' editoria, che non e' troppo migliore di quella a proprie spese, anche se i difetti sono altri.

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  4. Quanti bei racconti! Me ne leggerò un po' al giorno, poi tornerò con le mie impressioni.
    Grazie Renzo

    franca

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  5. Renzo, li ho letti tutti senza potermi staccare, alcuni sono cari ricordi studiati a scuola, altri veramente bellissimi, conoscevo già quello tuo e l'ho riletto con grande gioia, anzi l'ho bevuto: esiste il Natale. Oh, se esiste.

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  6. Ho appena finito di leggere questo post bello, speciale, coinvolgente, l'ho fatto con calma e mi ha fatto un gran bene. Ho sentito pienamente l'atmosfera natalizia, quelle suggestioni autentiche che luminarie nelle strade e altre luci artificiali svuotano di significato. Non ho niente contro queste cose però il Natale è altro, perlomeno non esclusivamente questo.
    Ognuno di questi racconti ha qualcosa in sé che lo rende prezioso, ognuno insegna e regala qualcosa.
    Grazie quindi a tutti gli autori, quelli appartenenti al passato e quelli contemporanei, e grazie a te, Renzo, per la bella proposta.
    Buon Natale a tutti.
    Piera

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