domenica 13 gennaio 2013

Platz Spitz, di Corrado Sebastiano Magro

                                                                      Foto da web


Un racconto crudele, perché veritiero, ed amaro, perché il mondo è anche così.

 

 

Platz Spitz

di

Corrado Sebastiano Magro

 

 

1957. Alla fiera di maggio gli ambulanti esponevano durante una settimana le loro bancarelle nella piazza del Crocifisso, lungo la Sergio Sallicano e nelle viuzze trasversali, quando piazza e via non offrivano più posto. Si andava alla fiera più per vedere che per comprare, nonostante gl'inviti dalle strapazzate corde vocali dei bancarellisti. Era una kermesse dove la gente passeggiando rosicchiava "calia", ceci salati abbrustoliti, si riempiva la bocca con “bomboloni”, le gustose caramelle giganti artigianali, sbucciava e mangiava "calacausi", arachidi, si occupava pazientemente a scorticare e mangiare semi di zucca arrostiti e spegneva la sete con aranciate, gazzose o birra. Se già il caldo si faceva sentire, i piccoli pretendevano il cono, impiastricciandosi la faccia e imbrattando i loro bei vestitini costretti a indossarli più per la gloria delle madri che per il loro piacere.Andando su e giù lentamente tra la folla a passo di processione, s’incontravano amici e si strizzava l’occhio alle ragazze nel tentativo di essere contraccambiati. Alcuni nel disperato tentativo di essere corrisposti da almeno una di quelle che incontravano, dopo una settimana si ritrovavano con un tic, come se un moscerino gli sfiorasse continuamente le ciglia. Anche Vanni sperava incontrare il viso di qualche piacente giovinetta disposta a rispondere ai suoi sguardi eloquenti. Poco prima un barbone si era interposto nel suo cammino chiedendogli con insistenza:"Hai cientu liri? Mi runi cientu liri?" (Hai cento lire? Mi dai cento lire?) Sorpreso dal tono franco e sicuro, piuttosto che evitarlo, si fermò ad osservarlo: la giacca di vecchia lana grigiastra trasandata, lo sguardo furbo, quasi beffardo, incorniciato da capelli grigi. Non era poi così malandato. Quegli occhi volpini la raccontavano lunga. Lui anche se in doppiopetto era forse tanto a secco come quel mendicante, ma fu tanta la curiosità che mise la mano in tasca dove teneva degli spiccioli e gli porse cento lire chiedendogli: "E ora chi ci fai cu sti cientu liri?" (E adesso che ci fai con queste cento lire?) L'anziano, prima di rispondere, si assicurò che le monete non potessero più sfuggirgli: "Vaiu nnà putia ra traversa e mi vivu du lamparuna ri vinu" (vado nell'osteria della traversa e mi bevo due bicchieri di vino di un quarto) Il diciassettenne Vanni per qualche secondo ci rimase male,: "Ma brutto imbecille. - si disse - Adesso mi metto a fare la carità agli ubriaconi?". Poi pensando alla franchezza del tipo che tutto arzillo andava ad irrorarsi palato e gola, era scoppiato in una risata da far pensare a chi lo incontrava che non tutte le viti del suo cervello fossero ben strette.
Svariati decenni dopo per uno di quei casi fortuiti, anche lui era stato sul punto di ridursi come il vecchio mendicante della sua città natale.
Rimasto senza lavoro e con una famiglia da nutrire, sull’orlo del baratro economico e del fallimento totale, si barcamenava come poteva, rifiutando con violenza il ghetto che gli cresceva attorno. Se quelli oltre i quarantacinque erano considerati inutili, per lui che aveva superato i cinquant'anni non c'era più nulla da sperare.
Non l'accettava, e piuttosto che ricorrere all’assistenza pubblica, preferiva fare qualsiasi cosa gli venisse proposta. Si era perfino candidato a pulire i cessi pubblici di alcuni quartieri della città, ma erano stati preferiti altri candidati. Eppure non se la sentiva di farsi travolgere dalla corrente, anche se il rischio era concreto ed aumentava di giorno in giorno. Diventato taciturno, aveva smesso di comunicare e non escludeva l'idea di sparire per sempre. Il solo amico e nemico che riconosceva era se stesso.
Fu così che, lavoricchiando saltuariamente per un’agenzia di sorveglianza a pochi franchi l’ora per pagarsi la benzina, durante una domenica ebbe l’incarico di controllare l’accesso al centro di assistenza di Platz-Spitz, di triste memoria e dove affluivano drogati di tutta Europa.
Ingresso e assistenza erano consentiti solo ai residenti della città o del cantone.
Era una gelida ed umida mattinata di marzo.
Il locale era stato ricavato da un deposito ferroviario, proprio sotto il Kornhausbrücke, “il ponte del granaio” quale ironica coincidenza, a lato di una ferrovia in disuso, scavalcata da un altro arco di ponte.
La miseria che nell’opulenta Zurigo gli apparve improvvisa, lo fece impietrire.
Un puzzo di selvatico, più acuto di quello che esala dal liquame di una concimaia saturava l'aria.
Esseri umani dormivano sotto quel ponte, seminascosti in vecchie scatole di cartone ammucchiate l’una contro l'altra e in parte sventrate, immersi nel fango e nella sporcizia. Una massa amorfa, che ogni tanto emetteva un lamento, un mormorio.
Pian piano, con lo schiarirsi del giorno quel mucchio di rifiuti cominciò a dare segni di vita più evidenti.
Quando alcuni riuscivano ad abbandonare il cartone che li celava fungendo da camera da letto e pavimento, si alzavano, avanzavano barcollanti, allucinati, senza meta, tornavano poi sui propri passi, e cambiavano subito dopo nuovamente direzione. Si comportavano come i suini quando, percependo l’avvicinarsi di un temporale o di un lungo periodo di maltempo, eccitati, con le orecchie drizzate e gli occhietti sanguigni, grugnendo, trasportano frasche e paglia per preparare al riparo il giaciglio.
Ma questi erano esseri umani e non maiali.
Traballando, trasportavano con sé masserizie consistenti in pezzi di cartone mal piegati e luridi stracci, oltre agli aggeggi per iniettarsi la prossima dose.
Poco dopo arrivavano gli spacciatori: odiosi avvoltoi, pronti a succhiare le ultime gocce di sangue a quei relitti di umanità. Avvoltoi e nello stesso tempo unica speranza per calmare la sete di droga di quei corpi smunti, inebetiti, con un cervello che bruciava e turbinava; sarebbero presto svaniti spegnendosi nel nulla, menzionati su due righe di giornale per l’aggiornamento della statistica necrologica.
Il terzo atto, una volta che la massa si era sparpagliata per il parco sottostante, vedeva protagonista la polizia che non veniva per arrestare gli spacciatori, ma sembrava volesse provare sugli esseri umani l’effetto che i lupi hanno su un branco di pecore impaurite, senza guardiano e allo sbando.
Alla vista della pattuglia, che dalla Sihlstrasse attraversava le passerelle sulla Limmat e poi i viali, le pecore si univano in branco, si mettevano in movimento, prima lentamente e poi sempre più in fretta.
Erano giovani, uomini e donne, ragazzi e ragazze di tutte le età, accomunati da una stessa caratteristica: quella di drogati irrecuperabili, sui quali nessun samaritano faceva più presa ed ai quali, in nome della politica benpensante, si negava il diritto di fare uso di ciò che erano ormai costretti a procurarsi pagandolo a peso d’oro sotto gli occhi di tutti, anche se nessuno voleva prenderne coscienza.
Una massa ancor più cenciosa di quella della corte dei miracoli parigina, che provava a correre, arrancando come poteva sulla scalinata del ponte, dove, alla vista di una seconda pattuglia che ne attendeva l’arrivo, invertiva il corso per ridiscendere precipitosamente. Scena incomprensibile che si ripeteva quattro, cinque volte al giorno.
Gli spacciatori non correvano, si mettevano soltanto di lato, certi che nessuno avrebbe osato disturbarli.
La sera, rientrato, Vanni si era rinchiuso solo ed aveva pianto, pianto su quelle vite come fossero state sue, come fossero stati figlie e figli suoi.
Quel ragazzo era poco più che ventenne, la barba curata, in tuta ginnica di lana gialla, ancora non troppo sporca.
Gli si era avvicinato vacillante come una canna scossa dai soffi: "Ho fame ed ho freddo. Posso entrare?"
"Solo se sei del posto, e se puoi fornire la tua identità."
"Non sono di qui, e non ho nessuna carta d’identità con me."
"Mi spiace non poterti lasciare entrare. Perché non torni al paese?"
"I miei non mi vogliono più. Non sanno cosa fare con me. Non ce la faccio più. Sono tre giorni che non mangio, ed ho tanto freddo."
La voce era debole. Tremava e si era appoggiato al muro per sostenersi.
Vanni sentiva un nodo alla gola. Mise mano alla tasca. Aveva qualche spicciolo.
Prese una moneta da cinque franchi e gliela porse.
"Vatti a comprare qualcosa."       
"Sì, vado."

E si allontanò barcollando.
A Vanni venne in mente il barbone delle cento lire: "Racconterà questa storia a tutti quelli che incontra e racimolerà i soldi per la prossima dose."
Non fu così. Lo rivide più tardi. Si reggeva meglio sulle gambe e gli si avvicinò:
"Grazie. Ho comprato due pezzi di torta alle prugne, li ho mangiati, ed ora mi sento meglio. Grazie ancora."
Quel grazie non valeva milioni, valeva una vita. Seppe poi che era figlio di italiani. Molti di quei drogati erano o italiani o figli di immigrati italiani, che per guadagnare o per risparmiare, magari nell’abbaglio di fare fortuna, non erano stati in grado di prendersi cura dei figli adolescenti, abbandonati a se stessi.
Era venuta anche lei.
Giovane, lurida, i capelli grassi, puzzava più di una volpe nella tana:
"Ho fame, ho sete, ho freddo, sto male. Vorrei entrare."
"Fammi vedere i tuoi documenti... No, non posso, ritorna dalle tue parti."
Si allontanò curva.
Ritornò dopo una mezz'ora, piangendo.
"Sto male, ho un ascesso ad una gamba, ed oggi non ci sono medici disposti a visitarmi."
Vanni chiamò il medico del centro, una giovane donna:
"Che dici, la facciamo entrare?"
La dottoressa con l’espressione seccata come a dire: e mi chiami per questo? gli rispose: "Non spetta a me decidere. Vedi tu."
"Ma io non sono un medico per giudicare se il suo stato di salute è precario."
"Qui tutti hanno uno stato di salute precario. Ti lascio, ho da fare." e si allontanò.
Vanni scosse la testa, ma la dottoressa aveva ragione. Tutta quella massa era composta da soggetti con uno stato di salute precario. Rifiutò nuovamente l’ingresso alla ragazza. La vide profondamente umiliata.
Vanni capiva, vedeva, come sotto quel luridume ci fosse la disperata, muta richiesta di un gesto amico che le permettesse di sopravvivere forse ancora qualche mese, o chissà, solo qualche settimana.
Ma cosa poteva fare lui, ultima pedina al confine di quella massa di disperati?
Eppure, per quei miserabili, lui rappresentava lo scalino gerarchico che avallava il diritto ad una tazza di brodo, ad una doccia o ad una fasciatura, visto che non abitando in città, quei derelitti erano da considerarsi esclusi, quasi fossero dei reietti, dei paria.
Quelli che ne avevano il diritto, non chiedevano, pretendevano con sfacciata prepotenza, con un’arroganza beffarda, ostentazione di una vendetta verso quella società che li considerava degli abbietti.
Gli altri, non avevano scelta.
Lei si era di nuovo allontanata, sotto il peso della propria nullità.
Ritornò dopo pochi minuti singhiozzando, come volesse dire: "Sono qui, esisto, esisto anch'io."
Si avvicinò e s’inginocchiò stringendogli le ginocchia. Aveva le guance rigate di lacrime:
"Fammi entrare, ti supplico, ne ho bisogno."
Rimboccando i pantaloni mise a nudo una bella gamba sulla quale troneggiava un ascesso nero all’altezza del polpaccio. Il sistema immunitario cominciava a cedere.
"Vedi? Non dico bugie."
La resistenza di un Vanni già provato crollò. Chiamò il medico:
"La ragazza entra! Ha bisogno di lavarsi, di essere curata e di una tazza di brodo caldo. Me ne assumo la responsabilità."
"Non reclamerà nessuno, sta' certo." - aggiunse la dottoressa con un sorriso e lo sguardo complice che voleva significare: “speravo finalmente che la facessi entrare”.
Venne fuori due ore dopo. Era raggiante. Aveva fatto la doccia, lavato i capelli neri che a riccioli le scendevano fin sulle spalle. Odorava di sapone e di freschezza.
Sembrava ancora più giovane, e sorrideva come se avesse ricevuto l’orsacchiotto dei suoi sogni:
"Vedi come sono bella?" gli disse con un sorriso luminoso.
Sì, era bella. Era una rosa vellutata, una dalia, un’orchidea che poteva cantare un inno alla natura.
"Sì. Sei bella." - le rispose Vanni mentre la voce gli si spegneva in gola.
Per frenare le lacrime dovette mordersi labbra e lingua, quando lei con la mano gli accarezzò di sfuggita la guancia dicendogli:
"Grazie."
E ritornò ad essere un atomo nella massa amorfa, che la ingoiò come in un vortice.
Chissà per quanto ancora riuscì a sopravvivere.
Ma quante altre non venivano a chiedere, perché non osavano, o perché sapevano che sarebbero state umiliate da un rifiuto?
Due trentenni ben vestiti e curati gli si erano avvicinati mentre la polizia ringhiava:
"Trova giusto quello che sta succedendo?"
"Cosa volete che vi risponda. Vale forse qualcosa la mia opinione?"
"Ebbene, lei ci vede ben vestiti, puliti, ma anche noi siamo drogati. Abbiamo la fortuna di lavorare e di pagare quello che ci serve. Veniamo qui perché la droga è meno cara. Ma se domani il nostro datore di lavoro viene a conoscenza del nostro stato, la prossima volta che si trova da queste parti, guardi sotto quel ponte. Ci saremo anche noi."
Quali altre parole potrebbero essere aggiunte, e a cosa servirebbero?

A meno di due chilometri in piena città, in uno dei più cari alberghi dove gli ospiti venivano prelevati e accompagnati in Rolls Royce, una settimana dopo si teneva il ballo della stampa, ballo di "beneficenza", al quale partecipava il fiore della grassa borghesia locale. Gli uomini vestivano il frac o il doppiopetto nero, le donne sfoggiavano pellicce ed ermellini sugli abiti da sera. Pavoneggiandosi, le più ardite mettevano in mostra particolari come un seno quasi nudo, o, con la scusa di non strascicare gli abiti li sollevavano più del necessario, sfoggiando mutandine di pizzo ricamate con perline luccicanti e stelline dorate, o esibendo la coscia fin ben oltre il femore. I cameraman riprendevano dal vivo e i reporters scattavano foto su foto dando la caccia a qualche particolare più intimo. Un clown parodiava il circo. Le belve, accompagnatori e gigolo, venivano invitate a saltare da una predella in un cerchio, ad imitazione di scimmie o di altre bestie da zoo. Obbedivano senza battere ciglia pur di non irritare la dama che non avrebbe gradito uno sgarro alla norma.
"Su, coraggio. Salta dentro! Dalla predella nel cerchio, dai, non aver paura!"
E schioccava la frusta, per quei miserabili che volevano dare l’impressione di essere dei super uomini ma senza la dignità degli animali.
Vanni, vestito e truccato da buffone di corte, in coppia con un’affascinante ragazza, aveva il compito di vendere i biglietti di una ricca lotteria a circa cinquecento franchi l'uno.
Baloccandosi con moine accompagnate da smorfie e sberleffi, polarizzava, attirava l’attenzione, e il sorriso invitante e provocante dell’accompagnatrice faceva il resto.
In meno di un’ora aveva esaurito le riserve e lasciate inesaudite le richieste di un numero elevato di acquirenti.
Gli vennero in mente quei reietti che marcivano nella notte fredda sotto il ponte.
Non trovò una risposta e si chiese come mai dal cielo un dio, se mai ci stava, non spargesse una pioggia di fuoco per distruggere quest’umanità.
Forse le miserie del momento non erano ancora le peggiori, non arrivavano a fare traboccare il vaso e a far si che la distruzione di Sodoma e Gomorra si ripetesse.

 

5 commenti:

  1. Bellissimo racconto, che sbatte in faccia una realtà che ci sforziamo di non vedere.

    Agnese Addari

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  2. La cruda realtà della vita, le miserie e i suoi contrasti, acuiti dall'insensibilità e l'apatia: il tutto scandito in una prosa fluente che rende le verità ancora più crude.
    Un bel racconto, quasi una foto elaborata di vari momenti drammatici e strani, anche se, purtroppo, visibili quotidianamente.
    La chiusa non lascia speranze: nella caduta l'identificazione con le miserie già viste si acuisce: queste "non erano ancora le peggiori, non arrivavano a fare traboccare il vaso e a far si che la distruzione di Sodoma e Gomorra si ripetesse".
    Bellissimo. Complimenti.

    Enzo Maria lombardo

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  3. I vinti e i vincitori; la miseria e l'assurdo; la fatica di vivere. Racconto che ti prende, ti commuove, ti indigna e ti fa sentire impotente come il protagonista. Piaciuto molto.

    franca

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  4. Mi chiedo da tempo, cosa porti i benestanti a scansare lo sguardo dagli infelici di questa vita.
    Ho una solo risposta: il terrore terrificante di finire un giorno nelle loro stesse condizioni. Chiudere gli occhi e darsi al lusso smisurato è come drogarsi per non vedere e sentire altro.
    Le due estremità sono più vicine di quanto si creda.
    Lo sguardo verso un affamato spinge a condannare la vita e a chiedersi chi possa averla creata così, mentre quello verso un gaudente mette in risalto la sua totale inutilità.
    Ottimo racconto che spinge a profonde riflessioni.
    Lorenzo

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  5. Non mi piace parlare di colpe. Perché significa cercare il colpevole. E, dal momento che nessuno vuole sentirsi in colpa, la si addossa agli altri. Con il risultato che si arriva allo scaricabarile: la colpa è sempre di qualcun altro.
    Vorrei parlare di responsabilità. Come spiega l’etimologia della parola, è responsabile chi è abile, cioè capace, di rispondere, cioè di reagire, nel mondo migliore in situazioni difficili. Tutti rifiutiamo di essere additati come colpevoli. Ma molti accettiamo di assumerci le nostre responsabilità.Ci illudiamo di realizzare grandi cose in pochi giorni. Raramente succede. Così ci demoralizziamo. E molliamo tutto. Non rendendoci conto che servono molti giorni, a volte alcune settimane, a volte qualche mese, a volte addirittura anni per ottenere risultati significativi.
    Complimenti un racconto che fa riflettere.
    Buon pomeriggio
    ♥ vany

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