sabato 14 dicembre 2013

Natale 2013 - I racconti

I racconti di questo Natale
Come già accaduto in occasione dei Natali 2011 e 2012 di seguito trovate una selezione di racconti in tema.




Quel Natale l’ho amato!
di Arcangela Cammalleri


L’oblò dell’aereo mi rimandava il riflesso del sole che traspariva tra le nuvole simili a fiocchi di ovatta, era il primo Natale con il mio nipotino Marco, nato da sei mesi, avrei trascorso anche con lui le festività natalizie. Io che non avevo mai assaporato l’atmosfera festosa di quei giorni; gli addobbi, la canzoncine d’occasione, la retorica del buonismo “Siamo a Natale”, l’allegria ostentata, gli auguri convenzionali…. m’intristivano,  in questo frangente, ero ansiosa di rivedere il mio dolce e recente amore, e le vacanze erano il tramite per ricongiungermi a lui. Penso che avessi un ebete sorriso stampato sulle labbra, mi sentivo lieta e beatamente in pace con il mondo intero, nessuno avrebbe potuto intaccare il mio intimo benessere. Immaginavo il mio arrivo e il visetto che si sarebbe parato davanti ai miei occhi. Mi riconoscerà, sentirà il bene che gli voglio, s’illumineranno i suoi meravigliosi occhi azzurri e mi tenderà le braccine? Insomma il legame di sangue esiste o è solo un fattore puramente genetico? Siamo fatti di sentimenti, emozioni e il nostro povero cuore è stato rivalutato, non è solo un organo meccanico, pare che abbia delle sinapsi come il cervello! Tuttavia mi chiedevo se Marco pur essendo ancora infante avrebbe percepito che ero la zia, anzi l’unica zia? Questo fatto negli anni a venire costituirà motivo di battute, simpatiche prese in giro da parte di mio nipote: “Sei la mia zia preferita, la più amata in assoluto!”. Pensieri contrastanti si rincorrevano nella mente e l’ansietà del viaggio, del tempo che sembrava trascorrere lento come se i minuti volessero indugiare e prendersi gioco di me, mi turbavano, ma volevo mantenere la calma e l’autocontrollo. Ero talmente immersa nel quadro idilliaco dell’incontro che a malapena sentii, ma non compresi quello che la voce gentile dell’hostess mi chiedeva:” Signora, caffè o tè, desidera dei biscottini o dei salatini?”.Trasognata risposi sorridendo: “ No grazie, sto bene!” Avevo capito “Vuole dei fazzolettini?”. Non percepivo che le mie sensazioni, volavo realmente con il corpo, maera la mia mente a sorvolare, planando con il pensiero alla mia meta. Ricordo un po’ confusamente l’arrivo in aeroporto, l’attesa al nastro che trasportava i bagagli, gli odori un po’ persi nella memoria degli arancini siciliani, le focaccine con varie farciture appetitose e fragranti ed io, con passo baldanzoso,  a trascinare il trolley finalmente recuperato ed avviarmi alla fermata degli autobus. L’ Etna trasporti, azzurro in lontananza, pervenne ed  io tra il mettere il bagaglio nella pancia del pullmann, porgere il biglietto all’autista e sedermi sul primo posto vuoto compii meccanicamente tre azioni in una. Dal finestrino rivedevo i paesaggi a me familiari che si sovrapponevano a quelli nebbiosi e grigi e nordici, distese di aranceti simili a tanti alberi di natale naturali, mi abbagliavano la vista; il cielo, quel giorno terso e turchino copriva amorevolmente i miei pensieri e mi accompagnava dalle persone care. In lontananza, poi, le ciminiere fumanti della mia città, detestarono la mia predisposizione d’animo. Alla stazione scorsi mio fratello Alberto ad attendermi. Ci abbracciammo come sempre ad ogni mio arrivo, miaiutò a prendere la valigia e ci avviammo verso l’auto posteggiata. Trovai Alberto un po’ ingrassato, la pancia sporgeva rigonfia dal maglione grigioverde come i suoi occhi,attraverso gli occhiali da vista, splendidi e leali. Mi chiese del viaggio e subito io domandai di Marco, come stava e chissà quanto era bello. Naturalmente da sei mesi i nostri discorsi telefonici sempre e comunque convergevano verso di lui, il protagonista assoluto dei nostri pensieri, noi che di figli non ne avevamo, lui scapolone  più che quarantenne ed anch’io di poco più giovane.  Il tragitto breve ci condusse a casa di nostra madre dove anche mio fratello viveva. Dalla finestra intravidi il suo volto, l’emozione stava già pervadendomi, in ascensore  immaginavo l’abbraccio con lei e il suo caldo contatto fisico. Ogni volta scorgevo in lei un segnale più marcato del trascorrere del tempo, tra una ruga in più insinuata sul suo volto o la curva delle spalle più accentuata o il passo più lento, la vedevo rimpicciolita, ogni anno sempre di più, ma il sorriso era sempre avvolgente e gli occhi chiari giovani e luminosi. Indossava una di quelle sue gonne un po’ informi dai colori scuri, un blu tendente al nero, una maglia azzurro intenso abbottonata sul petto. Mi fece sorridere il suo vezzo di non indossare calze anche in inverno avanzato e ai piedi ancora un paio di pantofole estive. I capelli corti e quasi argentei erano ravviati alla meglio,  fini e lisci e imbelli ad ogni tentativo di tenerli in ordine, come d’altronde il suo carattere battagliero sempre sul chi va là, ma nel contempo comprensiva e attenta all’ascolto dei figli. La prima domanda io a lei, “Marco???. “Ora arriva” rispose mia mamma, in dialetto “ora” è un tempo impreciso, tanto o poco a seconda del tono della voce o dell’umore impaziente o frettoloso di chi la pronuncia. “Com’è?” domandai, con il mio solito sciocco sorriso che doveva allargare a dismisura la mia bocca, sapendo già la risposta e come me la immaginavo. “Che beddru, che sperto, ancora non parla, ma si fa capire, pensa che per indicare tuo fratello Alberto con la boccuccia soffia imitandolo come quando fuma!” rispose orgogliosa mia mamma. Alle 16 suonò imperioso il campanello del portone erano l’altro mio fratello, mia cognata e in braccio lui, Marco. Era avvolto in un cappottino rosso con il cappuccio dal quale spuntava un ciuffo di setosi capelli biondi, il visetto era davanti a me, gli occhi brillavano incerti e incuriositi, ma non davano l’impressione di riconoscermi. Eh già, solo sei mesi e per giunta non mi aveva visto se non quando aveva solo due mesi, impossibile! La bocca però si atteggiò ad un dolce sorriso, ma mi dicevano i miei ch’era affabile con tutti e a tutti sorrideva. Ma io non ero tutti, io volevo il suo sorriso per me, esclusivamente per me. Le nostre voci si coprivano a vicenda, insieme ad esclamare, “ È la zia, la zia Lilia, ma come unna rricanusci?” (Come non la riconosci?). Eravamo in preda ad una frenesia collettiva, Marco confuso stava quasi per piangere, il broncio già corrucciava la sua simpatica espressione e delle lacrime simili a gocce di rugiada imperlavano le gote. Lo presi in braccio, lo baciai e ribaciai, quale sensazione appagante avvolse il mio corpo, lui si accucciò come un coniglietto e le sue manine si aggrapparono sulle mie spalle. L’odore tiepido del suo corpicino e il contatto della sua guancia con la mia… non ho mai dimenticato quei momenti e altri che potei godere ancora con lui. Ma non poteva finire così quel Natale, perché altrimenti non lo  avrei rivissuto così intensamente. L’attimo indelebile è arrivato! Un pomeriggio mentre lo cullavo tra le mie braccia, il capo era poggiato sulla mia spalla mentre il suo lieve respiro lo sentivo alitare sul collo, sentii  che si muoveva, alzò la testolina  e mi fissò negli occhi con uno sguardo espressivo, meravigliato e consapevole, come parlassero ad essi, dicendo: “Tu sei mia zia”. Naturalmente, non lo disse, ma dopo mi abbracciò stretto stretto. Mi aveva riconosciuta, ero entrata tra i suoi affetti più cari. Quel Natale l’ho amato ed è stato forse uno dei più belli della mia vita.           

                    

Il re dei barboni
di Salvo Zappulla


Mi avevano convocato d’urgenza dalla sede della società sportiva di mia figlia: “Il signor Baraldi?”.
“Sono io”.
“Buongiorno. Sono il medico della squadra di nuoto, desidererei parlare con lei. Può venire nel mio studio?”.
“Miriam ha combinato qualche guaio?”.
Dall’altra parte ci fu una lunga pausa. “Si tratta di un problema molto serio, la prego di venire subito”.
Dal tono delle sue parole avevo intuito che era accaduto qualcosa di grave. Per fortuna mia figlia proprio in quel momento mi passò accanto e questo servì a tranquillizzarmi un poco.
“Chi era al telefono?”.
“Hanno telefonato dalla tua società, desiderano che mi rechi in sede”.
“Probabilmente ci sono dei documenti da firmare”.
“Può darsi” risposi poco convinto. Indossato il cappotto, ero uscito nella mattinata freddissima. Avevo un brutto presentimento, non riuscivo a immaginare cosa volessero ma sicuramente era accaduto qualcosa di grave. Preferii andare a piedi per smaltire la tensione.
Il medico mi  invitò a sedermi e senza inutili giri di parole, mi  comunicò: “Sua figlia ha una grave malformazione cardiaca”.
Sbiancai in volto.
“E’ in pericolo di vita. Ha una insufficienza valvolare aortica in stato avanzato”.
Come è possibile?”.
“Abbiamo effettuato tutti gli esami. Li abbiamo ripetuti per maggior sicurezza ma, purtroppo, non sussistono dubbi”.
Mi  lasciai andare sulla poltrona.
“Vuole un bicchiere d’acqua?”.
“Sì, grazie”. La gola mi si era essiccata. “Di cosa si tratta esattamente?”.
Il medico inforcò gli occhiali. “La malattia consiste nella non chiusura della valvola aortica; tale valvola ha la funzione di evitare che il sangue ritorni al ventricolo sinistro. Se è difettosa, provoca una perdita, ossia una porzione di sangue pompato torna indietro e va a ingrossare il ventricolo sinistro del cuore rischiando la lacerazione. Nella prima fase, allo stato iniziale della malattia, il sovraccarico di sangue viene compensato dal muscolo cardiaco che progressivamente si dilata e in qualche modo si adatta finché, superato un certo limite di sopportazione, il cuore si scompensa e cede. La ragazza deve sospendere immediatamente l’attività sportiva”.
Ero affranto. La piccola Miriam, il pesce-siluro come amavo definirla con orgoglio, all’improvviso smetteva di essere la ragazzina vitale, esuberante, l’inno alla gioia, per ritrovarsi una povera invalida. Lei, che teneva alle gare di nuoto più della sua stessa vita. Quell’uomo in camice bianco mi aveva frastornato con i suoi termini oscuri; parlava di valvole sovraccariche, come ci trovassimo all’interno della mia officina. La testa mi ronzava. Mi passò un braccio sulle spalle e soggiunse: “La ragazza ha necessità di essere operata d’urgenza, il suo cuore può crollare da un momento all’altro. Non le nascondo che si tratta di un intervento molto rischioso, delicatissimo. In Italia non siamo sufficientemente attrezzati per poterlo eseguire senza scongiurare i rischi. La malattia è in uno stato avanzato, gli esami cardiologici andavano eseguiti prima. Purtroppo solo da poco sua figlia è entrata nel nostro gruppo; noi come società sportiva abbiamo fatto il nostro dovere”.
“Non ha mai accusato disturbi” mormorai.
“La sua attività era incontrollata. Occorrerebbe che certi esami fossero obbligatori per legge, anche a livello amatoriale”. Il medico  scosse il capo.
“Cosa mi consiglia di fare”.
“La soluzione ideale sarebbe di farla operare presso l’Einstein Hospital di New York, in America. Adottano una tecnica all’avanguardia nella sostituzione della valvola aortica. Addirittura c’è la prospettiva, nel caso l’intervento riesca alla perfezione, che il paziente possa riprendere a svolgere attività agonistica. Esiste qualche buon precedente. E’ così importante per sua figlia il nuoto?”.
“Voleva andare alle Olimpiadi. Ne aveva tutti i mezzi, a detta di esperti del settore”.
Il medico sospirò. “Rimane da aggiungere che un’operazione del genere negli Stati Uniti costa all’incirca trecento milioni”.
Un’altra mannaia si  abbatté sul mio collo. “Mi è impossibile reperire tale cifra”.
“Altrimenti deve operarsi in Italia”. L’uomo allargò le braccia sconsolato.
“Ma lo  Stato non contribuisce alle spese?”.
“Solo in minima parte”.

A casa avevo trovato la tavola apparecchiata ma in quel momento il cibo mi dava la nausea. “Cosa volevano?” chiese mia moglie.
“C’è qualche problema”.
“Che genere di problema?”.
Miriam arrivò col suo borsone a tracolla per andare all’allenamento.
“Non pranzi con noi?”.
“No. Prendo un panino, lo mangio dopo”.
“Non puoi andare all’allenamento”.
“Perché non posso?”.
Pallidissimo, la misi al corrente sulla necessità che per qualche tempo interrompesse gli allenamenti e sull’eventualità di operarsi. Ma non era una bambina, aveva sedici anni e dal tono delle mie parole capì che la situazione era molto grave. Alla fine fui costretto a esporle i fatti così come stavano. Mia moglie scoppiò in lacrime; mia figlia venne colta da una crisi isterica. “Non rinuncio al nuoto! Preferisco morire!” urlò tra le lacrime. “Non mi opero! non mi opero!”.  Scagliò il panino per terra e andò a rifugiarsi in camera sua.
Raccolsi il panino e lo misi in tasca. Uscii, avevo voglia di camminare, di sfogare la mia amarezza. La vita sa essere davvero crudele, quando pensi di aver raggiunto un minimo di serenità, ti cade la tegola in testa. Mi soffermai ad osservare un barbone seduto sullo scalino davanti a un negozio. Cercai di consolarmi: forse c’era qualcuno che viveva una situazione peggiore della mia. Se ne stava accovacciato in un cantuccio, addossandosi al muro per ripararsi dal freddo e dalla gente; la sua figura, sotto lo sguardo attento dei miei occhi, sembrava rimpicciolirsi e chiedere scusa al resto dell’umanità per lo spazio che occupava, come se un pezzetto di mondo non appartenesse anche a lui, e la piccola razione d’aria quotidiana. La maggioranza di quanti gli passavano accanto, non lo degnava di uno sguardo, e se qualcuno lo faceva, era per lanciargli occhiate di disprezzo o di commiserazione. Ogni tanto i passanti lasciavano cadere una moneta nel suo piattino, per mettersi a posto con la coscienza. Mai nessuno aveva suscitato in me tanta sensazione di mitezza e fragilità. Sentendosi spiato, il barbone si abbottonò l’unico bottone rimasto del suo lercio e spiegazzato cappotto. Un sussulto di orgoglio il suo a proteggersi dalla mia curiosità invadente. Il vento batteva forte e gli sparpagliava i folti capelli bianchi. Strinse a sé il suo cagnolino, uno striminzito cagnolino bianco con tante macchie nere sul muso. Randagio anch’esso, come il padrone. Insieme dividevano le stelle e qualche pezzo di pane raffermo pescato nel bidone dei rifiuti. Chissà a quale razza apparteneva il cane, sicuramente era un  incrocio. Mi venne da pensare che i cani dei barboni dovevano essere barboncini per vivere in sintonia con i loro padroni. Cribbio, che battuta idiota! Per scacciare i pensieri molesti mi lasciavo andare a simili considerazioni. Decisi di sedermi accanto a loro, così, senza un motivo preciso, per il bisogno di trovare solidarietà da altri disperati come me. Mi ricordai del panino dentro la tasca, lo tirai fuori e gliene offrii la metà. Ma lui sembrò ignorarmi. “Ehi! Ehi! Sto parlando con te. Su, prendilo per favore”.
Alzò lo sguardo lentamente, come si risollevasse da uno stato di torpore. Pareva sorpreso dal fatto che qualcuno gli rivolgesse una parola gentile. Prese il panino, tolse il prosciutto che c’era dentro e lo diede al cane, il resto lo mangiò lui. A suo modo incarnava la libertà, viveva fuori dalle convenzioni e dagli schemi sociali. Niente rate da pagare, né bollette della luce e dei riscaldamenti. Già, i riscaldamenti; non doveva essere piacevole passare le notti sotto un portico. Mi sopravvenne il desiderio improvviso di conoscerlo, sapere cosa passasse per la sua testa, se era in grado di pensare, di ragionare, o se fosse solo una figura coreografica della piazza. “Senti, ma non hai freddo a startene seduto qui? Non ti vergogni a chiedere l’elemosina? Potresti cercarti un lavoro, come fanno tutti”.
Si volse e mi fulminò con lo sguardo: “Hai mai visto un re lavorare?”.
Per un attimo la sua risposta mi colse di sorpresa. “Un re no, ma un barbone sì”.
“Io sono re”.
“Questa è grossa”. E’ partito con la testa, pensai, e c’era da capirlo, l’inverno era particolarmente rigido quell’anno. Cominciai a prenderlo in giro: “Bene, fammi vedere il tuo scettro, e anche la corona”.
Sorrise soddisfatto. Prendendosi seriamente, estrasse dalla tasca del cappotto un cappello spiegazzato. “Ecco la mia corona” disse, e se lo calcò sulla testa. “Ed ecco il mio scettro”. Tirò fuori da sotto il maglione sporco e unto di sugo un flauto. Era un bel flauto, lucido, nero, in ottimo stato. Iniziò a suonare qualche nota allegra.
“Dove hai imparato a suonare?”.
“A corte”. Rise interrompendosi un momento. Non volle più rispondere alle mie domande. Mi alzai per andarmene. Da dietro le spalle risentii la sua voce: “Amico, il tuo panino era buonissimo. Tante grazie, anche da parte di Perla, la mia cagnetta. King Wolfè il mio nome, non dimenticarlo. Cercami se dovessi avere bisogno, io posso risolvere i tuoi problemi”.

Tornai alle mie faccende e ai miei guai. A casa mia si viveva un’atmosfera drammatica e preferivo stare tutto il giorno fuori a lavorare in officina. Una settimana era trascorsa e ancora non sapevamo quale decisione prendere. Miriam non voleva saperne di abbandonare il nuoto ed era disposta a farsi operare solo in America. Mi maceravo nello sconforto per il fatto di non poterla aiutare. Avevo aperto l’officina da poco, caricandomi di debiti. Sentivo una sgradevole sensazione di impotenza. Sarei stato disposto a dare la mia vita per lei ma non sarebbe servito a nulla. Mi occorrevano trecento milioni per farla operare in America ma non li avevo e non conoscevo alcun modo per procurarmeli. Anche a provare a rubarli, non sarei stato capace. Sant’Iddio, perché la vita è così crudele? Mia figlia, una figlia qualsiasi di questa società, rischiava di morire senza che lo Stato intervenisse in suo aiuto. Questa era la civiltà? La civiltà capace di inviare astronauti sulla luna, di investire miliardi in armamenti, lasciava morire una bambina solo perché suo padre non aveva i soldi per farla operare. Dio, che orrore! Uscii a prendere aria, gironzolai per le vie in cerca di una soluzione che non riuscivo a trovare. Mi fermai per accendere una sigaretta. Fu in quel momento che sentii qualcosa che si strofinava sulle mie gambe. “Perla!”. La cagnetta del barbone. La riconobbi subito, ed anche lei evidentemente perché abbaiava festosamente mentre la prendevo in braccio. “Piccola birbante, era buono il prosciutto, vero Dov’è quel matto del tuo padrone? Re solitario”. La deposi per terra. “Portami da lui, sono curioso di rivederlo”. La cagnetta sembrò capire le mie parole, si avviò decisa ed io le andai dietro. Camminava spedita, tanto che dovetti accelerare il passo per non perderla di vista. Mi condusse in una zona periferica, si addentrò all’interno di alcune viuzze strette e alla fine si fermò davanti a una vecchia chiesa sconsacrata. Compresi che eravamo arrivati. Perla passò attraverso un buco sul muro ed anch’io faticosamente riuscii a passare. Il barbone era dentro, intento ad arrostirsi un paio di salsicce. “Ehi, ci diamo alle pazze gioie! Si vede che gli affari ti vanno bene” esclamai annusando il profumino che si spandeva nell’aria. Sembrò contento di vedermi. Mi offrì un po’ della sua salsiccia e ne diede anche alla cagnetta, che andò a divorarla in solitudine dietro un cumulo di macerie. Trascorsi la serata in compagnia del mio singolare amico. Insistevo per avere sue notizie, le origini, i suoi trascorsi ma lui sembrava prendersi gioco di me. “Vengo da un altro mondo e da un altro secolo. Sono ricco, l’uomo più ricco della terra. Ho quanto di meglio si possa desiderare dalla vita: la mia libertà, il mio regno sconfinato. Sì, sono ricchissimo”.
“Dato che sei così ricco potresti prestarmeli tu i soldi che mi occorrono”.
“Hai bisogno di denaro?”.
Gli confidai il mio dramma.
“E’ così importante il nuoto per tua figlia?”.
“E’ tutto”.
“Quanto ti serve?”.
“Trecento milioni”.
Disse una frase che mi lasciò di stucco: “Perché non sei venuto a cercarmi prima?Avremmo già risolto il tuo problema”. Lo disse con un tono così austero che non ebbi alcun dubbio sulla sua serietà. “Tu! E come potresti?”.
“Io sono un re. Il più grande re che sia mai esistito. I miei sudditi sono sparsi per tutta la terra, il mio esercito è così potente da far tremare gli altri regnanti” Si accalorava mentre lo diceva, e i suoi gesti sembravano voler far rivivere tante battaglie.
Io lo guardavo perplesso.
 “Non mi credi?”.
Rimasi in silenzio.
Estrasse da sotto il maglione il suo flauto e comincio a suonare una melodia dolcissima, una nenia lenta che si sparse nell’aria come delicato profumo. Fu allora che vidi arrivare dentro la chiesa, una dopo l’altra, la lunga fila di persone. Erano barboni, i diseredati di tutto il mondo, arrivavano silenziosi, ognuno lasciava cadere una moneta ai miei piedi e se ne andava, così com’era venuto. Una processione enorme che si protrasse tre giorni e tre notti ininterrottamente. Alla fine quando mi risvegliai, dopo essere crollato per la stanchezza, mi trovai di fronte  una montagna di monete. “Contale” mi invitò King Wolf, “sono trecento milioni esatti”.
Ero rimasto senza fiato. Avrei voluto ringraziarlo, chiedergli tante cose ma egli miinvitò ad occuparmi della bambina. “Vai, non può attendere oltre” .
Dopo aver trasportato col furgoncino le monete in banca per cambiarle con banconote di grosso taglio  –operazione faticosissima- partimmo immediatamente per New York. L’intervento riuscì perfettamente e dopo due mesi di degenza rientrammo in Italia. Il professore che aveva effettuato l’intervento ci aveva assicurato che Miriam sarebbe ritornata a condurre una vita normale, compresa l’attività agonistica.

Pochi giorni mancavano a Natale, era caduta la neve e i viali ammantati di bianco introducevano all’atmosfera festosa. Il mio primo pensiero era stato di correre a cercare il mio amico. Mi avviai in direzione della chiesa abbandonata, lo chiamai a gran voce. Non ottenni risposta. Là dentro non c’era. Vagai inutilmente l’intera notte a cercarlo per le strade. Temetti fosse partito per altra destinazione. Stava già spuntando l’alba quando notai il capannello di gente, fui colto da un brutto presentimento e mi precipitai verso di loro. Lo vidi disteso per terra, il suo corpo irrigidito dal freddo velo della morte. Lo avevano trovato i netturbini intenti a ripulire le strade. In città eventi del genere appartenevano all’ordinaria amministrazione. I figli di nessuno che ingombravano le strade andavano rimossi in fretta perché causavano problemi al traffico. Lo stavano coprendo con un telo per portarlo via.
“Dove lo portate!” sussurrai con le lacrime agli occhi.
“Nella cappella del cimitero” mi disse uno, “avrà una breve messa, dopo sarà seppellito nella fossa comune”.
“Nella fossa comune? Ma è un re! E’ un re, capite!”.
“Lo conosceva? Sa il suo nome? Addosso non aveva alcun documento”.
“King Wolf è il suo nome, scrivetelo sulla lapide. E’ il più grande re che la storia degli uomini abbia mai avuto. Era il re degli umili, degli oppressi, era povero e sporco ma se solo avesse voluto, se solo avesse voluto, avrebbe potuto organizzare una rivoluzione senza precedenti. Lo conoscevo bene io”.
Mi scostarono pensando di avere a che fare con un demente. Un vigile aveva afferrato Perla per portarla via. L’animale guaiva disperatamente. Gliela strappai dalle braccia: “E’ la mia cagnetta. Ridatemela!”.
Era arrivata la carrozza mortuaria, lo avevano già sistemato dentro la bara. Volevo impedire che lo portassero via senza che ricevesse le onorificenze degne del suo rango. Mi feci largo mentre due uomini cercavano di trattenermi, riuscii ad aggrapparmi al suo maglione, sentii al tatto un oggetto duro: il flauto! Me ne impadronii. Lo portai alle labbra, era l’ultima speranza che mi rimaneva. Di nuovo la musica dolcissima si diffuse nell’aria, nonostante non avessi mai suonato uno strumento in vita mia. Immediatamente la piazza si riempì di clochard, un esercito imponente che circondò la salma impedendo agli addetti di effettuare il loro servizio. In silenzio si caricarono sulle spalle il loro re. Io mi posi alla testa del corteo e lo guidavo al suono del flauto. Perla mi stava accanto. Intanto si era fatto giorno e la città brulicava di gente. Attraversammo le strade principali paralizzando il traffico. Era arrivata la polizia, i pompieri ma non poterono far altro che rimanere a distanza ad osservare quel fiume silente che avanzava compatto tributando l’estremo saluto al suo re. Le note del mio flauto si amplificavano assorbendo qualsiasi rumore. Molti passanti si accodarono, la fila si ingrossava sempre di più. Io, in testa, mi giravo verso il mio amico cercando un cenno di intesa. Ero certo che stava apprezzando il mio operato. Alla fine ci dirigemmo dentro la sua chiesetta, dove lo seppellimmo, ai piedi del suo trono. Gli restituii il flauto. Nessuno avrebbe osato toccarlo dal suo posto. Poi ognuno ritornò da dove era venuto. Portai Perla con me, l’avrei tenuta a casa mia. Mentre mi allontanavo dalla chiesa, risentii la melodia, mi passò accanto come una scia luminosa, poi sempre più flebile la vidi sparire verso il cielo. Il cielo! Era diventato di un azzurro splendido, pareva vestito a festa per accogliere il suo re. Piansi di commozione.                              



Il Natale a Regalpetra

di Leonardo Sciascia


Il Natale non è sempre una festa di gioia e l’indigenza, non moltissimi anni fa, c’era pure in Italia. Al riguardo Leonardo Sciascia ne ha scritto magistralmente in Le parrocchie di Regalpetra, da cui ho tratto questo brano sul Natale trascorso; è il primo giorno di scuola dopo le vacanze -  e infatti fa parte di Le cronache scolastiche - con l’autore in veste di maestro, quale fu veramente agli inizi.

- Il vento porta via le orecchie - dice il bidello.
Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa.
I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni.
L’aula ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo. 
Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale:
tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette e mezzo e ti-vitti (ti ho visto :un gioco che non consente la minima distrazione); sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo.
Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente.
In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca:"La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù".
Alcuni hanno scritto,senza consapevole amarezza, amarissime cose:
"Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa".
Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre Pagandogli il biglietto del cinema…
Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato.

"La mattina del Santo Natale - scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto".
La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre "per fare la spesa". Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone.
"E così ho passato il Santo Natale".





I pastori del Natale che viene
di Domenica Luise



A mezzanotte, mentre i bambini dormivano sazi di panettone e papà faceva l'amore con la mamma perché l'indomani era Natale  e non dovevano alzarsi all'alba, si sentiva solo schizzare qualche macchina, poi le statuine del presepio incominciarono a stiracchiarsi.
<Ragazze, ma lo sentite quest'accidenti di freddo?> brontolò un vecchio montone alle sue mogli, <Sissignore, che freddo, che freddo> lo assecondarono le pecore belando in coro.
<Amore, ti preparo una minestrina bollente?>.
<Ma no, ma no, è meglio una bevuta e un sigaro, corro a prendere il vino dalla botte>.
<Che dici? Qua ci vuole un bel massaggio sulla nuca e ti rimetto al mondo, spogliati che vengo>.
<Ma perché non puoi dormire, tesoro mio? Cosa succede stanotte? Poi domattina non hai la forza di stare sulle zampe e lo sai quant'è rabbioso il tuo capoufficio>.
<Ma domattina è Natale, non si lavora>.
<Invece sono tutte storie per farti compatire, va bene che ormai sei abbastanza decrepito e da pensione>.
<Coi nostri governanti che ci spremono? Adesso, mogli mie, quando viene quella sanguisuga a chiedere i soldi che cosa gli diamo, un po' di fieno? Gli dovrò consegnare stipendio e tredicesima>.
<Ma che fa, ce la danno anche quest'anno la tredicesima?>.
<E sennò con che cosa paghiamo le tasse e l'imu dell'ovile? E va bene, noi siamo pecore di speranza, forse fra duemila anni tutti questi problemi non ci saranno più>.
L'ariete controllò allo specchio grande dell'ingresso se le sue corna fossero abbastanza lucide o avessero bisogno di una ulteriore lisciata, poteva scegliere la preferita tra quelle mogli servizievoli, ma che pazienza ci voleva. Femmine, inferiori ai maschi da sempre e per sempre, deboli, lagnose, benché discrete donne di casa, ma quante storie per partorire, tutte che strillavano e soffiavano.
E com'erano gelose le une delle altre, una cosa inqualificabile, che ben dimostrava la modestia del loro cervello. Ancora gli andava bene perché non avevano inventato i telefonini, altrimenti non gli avrebbero dato più pace.
In fondo, molto in fondo, la sua vita non era poi così rosea, e doveva pure guardarsi dagli altri maschi rivali, che gli volevano togliere ora una ora l'altra moglie e aggregarla al proprio harem.
Gli avevano fatto slittare l'età pensionabile e non avrebbe confessato mai a nessuno quanto gli facessero male i piedi e le ginocchia per i reumatismi incalzanti. Mai dare segni di debolezza o gli avrebbero fatto il subentro.
<Io mi sono stufata di lavare panni di carta e stenderli su quel filo ad ogni Natale> affermò la lavandaia alzandosi impetuosamente dalle ginocchia sulle quali stava piegata, <ho un appuntamento>.
Dall'interno di una casetta di cartone venne una voce stridula: <Comportati bene, figlia, altrimenti resti zitella e siamo rovinati, Almeno pigliati uno che ha un lavoro sicuro>.
<Il lavoro sicuro è finito> rise la ragazza con una mano sul fianco e la cesta coi panni asciutti sull'altro, <loro dicono che sarebbe noioso e dobbiamo cambiare sempre e lavorare tanto per pagare il mutuo della catapecchia o l'affitto della catapecchia e comunque la catapecchia, ormai le banche pigliano troppi interessi e vogliono troppe garanzie e nessuno ha più una catapecchia decente>.
<Dove stai andando, figlia mia? Bada che gli uomini sono cacciatori> disse la voce della madre altrettanto rauca dalla casa di cartone, <Mi sono innamorata dell'incantato della stella> rispose lei lasciando la cesta sulla soglia, <ma non ho intenzione di andarci a letto, voglio cuocerlo bene prima o non mi sposa>. E la ragazza partì.
<Ho paura che pesca e pesca qua non abbocca niente come il solito> fece il pescatore sullo stagno di specchio circondato da pietruzze raccolte a mare nell'estate precedente. Il suo collega gli sorrise: <Tranquillo, anche stasera mangeremo verdura selvaggia, speriamo che sia rimasto un po' d'olio e che il pane non sia troppo duro, mi stanno cadendo alcuni denti, sono vecchio, ma non posso andare in pensione>.
<Siamo tutti sulla stessa barca> considerò l'altro mentre l'onda li dondolava con una certa, impertinente soavità.
Intanto si mise a nevicare e la stella, dall'alto dei cieli, scivolò sulla cima di una capanna piuttosto malridotta, le mancava perfino una buona parte del tetto. La stella illuminò una coppia e un bambino che vagiva a braccia spalancate, ognuno vide perfettamente per quanto fosse lontano e fosse buio:
<È nato anche quest'anno> gridarono, belarono, ragliarono e muggirono tutti insieme, anche i pesci dello stagno piroettarono.
<Questa non me l'aspettavo> brontolò il mugnaio svegliando sua moglie che si era addormentata davanti alla televisione, per quanto non fosse stata ancora inventata nemmeno quella, <che fai, dormi, amore?> le disse strattonandola, <Quante volte ti devo ripetere di non chiamarmi così forte quando mi abbiocco? > gridò lei furibonda, <poi mi sento male come ora, ecco>.
<Ma Lui è nato anche quest'anno> fece il marito afferrando due pagnotte ancora calde da portare alla grotta come faceva regolarmente da quando l'avevano modellato così bello, era solo riuscito un po' più grande degli altri, difatti nel presepio l'avevano soprannominato "Il gigante".
<È nato in questo caos? Coi peccatori incalliti e mummificati, i poeti disprezzati, le mamme che hanno la depressione post partum e i politicanti scatenati, le escort e i lbunga bunga?>.
<È nato anche stavolta> fece il mugnaio afferrando la pelliccia di visone e porgendogliela.<Sì, vengo, ma non mi metto quella...mi vergogno di averla pretesa...dammi la vecchia mantella, l'ho appesa fuori dai piedi, in alto e non ci arrivo senza salire sulla sedia. Tu, invece, sei bello alto> lo lodò, l'uomo ringalluzzì e arrossì perfino.
La lavandaia, che stava scambiando un bacio passionale, ma non troppo per non dare luogo a procedere, con l'incantato della stella rizzò la testa: <Hai sentito, forse, piangere un bambino? Lui deve essere nato un'altra volta. I pannolini si devono ancora stirare, vado, tu comincia a correre alla grotta> disse scappando. E pensava: <È nato, lo fa ogni anno, niente e nessuno lo può fermare>.
<Come ti senti, cara?> chiese Giuseppe a Maria mentre le luci della stella suscitavano mille colori di qua e di là e il focherello che egli aveva acceso sembrava un termosifone gigantesco, tanto riscaldava e sebbene nemmeno i termosifoni fossero stati ancora inventati.
<Bene, come tutte le volte. Il Bambino non mi ha fatto più male di un raggio di luce che mi ha attraversata>.
<Guarda, arrivano i pastori, come ogni anno>.
<C'è lo zampognaro nuovo e anche un gelataio... con tutta questa neve> ridacchiò Maria.




La consegna
di Renzo Montagnoli



“Siete in mezzo a un lago. Tornate indietro quanto potete.”.
- Oh, no, accipicchia. Il navigatore si è guastato, proprio adesso che mi sembrava di essere così vicino.
Il Babbo Natale n. 151 tirò i freni, pardon le redini, delle sue 180 renne e la slitta, ondeggiando di qua e di là, si fermò sollevando un polverone di neve.
- Vicino, ma dove sono?
Babbo Natale si sollevò il cappuccio e si diede una grattatina in testa, poi prese la bolla di consegna e guardò l’indirizzo:
Antonio Carugati – Viale delle Ginestre, 2124 – Milano.
Volse lo sguardo all’intorno e nel buio, grazie al candore della neve che aveva ormai imbiancato tutto e continuava a scendere, non vide altro che i muri di grandi capannoni, di opifici industriali, di magazzini commerciali.
Era sì in mezzo a una strada, ma che quella fosse il Viale delle Ginestre era alquanto improbabile, perché a parte qualche smorto lampione che faceva indovinare un marciapiedi, non c’era nemmeno l’ombra di una pianta.
E provare a chiedere a qualcuno, forse si risolve il problema – disse fra sé e sé. Ma chi mai avrebbe potuto trovare in quella strada desolata proprio la notte di Natale?
Tentar non nuoce – pensò. E allora allentò, di poco le briglie, e le 180 renne della sua slitta modello Super Sport cominciarono a trotterellare.
Andava piano, volgeva lo sguardo a destra e sinistra, ma case non ne vedeva, anzi era una quasi una foresta di cemento.
Si stava perdendo d’animo e già pensava di richiedere un soccorso celeste con il suo fantacellulare, quando scorse un vago chiarore, come di un fuoco che si sforzava di restare in vita nonostante i fiocchi che da più parte lo investivano.
Si avvicinò cautamente e vide che in effetti c’erano alcuni pezzi di legno che debolmente bruciavano e alla luce di quelle esili fiammelle apparvero ai suoi occhi due fagotti che parevano in preda un tremito incontrollabile.
Si fece più vicino e riconobbe così due umani che saltellavano, probabilmente per scacciare il freddo.
- Scusate, mi sapete dire dov’è Viale delle Ginestre?
Nessuna risposta.
- Vi prego, per cortesia, dov’è?
Uno dei fagotti gli si avvicinò, lo guardò ben bene e disse rivolto all’altro:
- Lo sapevo che quella grappa che avevamo comprato era scadente, tutto alcool e niente gusto. E infatti, mi sta togliendo la vista, mi fa vedere cose che non ci sono, come addirittura Babbo Natale.
- Ci sono, esisto, non è una tua immaginazione. Prova a toccarmi.
L’uomo tese il braccio, avvertì il calore del panno e sbottò:
- Che mi venga un accidente! Questo vecchio con la barba dice il vero.
- Certo che dico la verità. Adesso vi chiedo ancora di dirmi dov’è Viale delle Ginestre?
I due si guardarono in faccia e allargarono le braccia.
- Non lo sapete?
- Mai sentito – risposero in coro.
- E per caso, non vi dice nulla il nome Carugati?
Il più vicino, quello che gli aveva toccato il braccio, si grattò in testa, forse per aiutare la memoria.
- Carugati, Carugati, non mi è nuovo, ma sì, adesso mi viene in mente, è un riccone – e volgendosi all’altro – ed è quello, se ti ricordi, che l’anno scorso, quando abbiamo suonato al campanello della sua villa per gli auguri di Buon Natale, ci ha quasi sparato addosso.
- Ah, ma allora sapete dove sta?
- Sappiamo dove stava, perché è andato via?
- Come andato via?
- Dicono che ha comprato un’altra villa, ancor più grossa, con piscina, campo da tennis, maneggio e campo da golf. Però dove sia non lo sappiamo e nemmeno lo vogliamo sapere, perché a quel taccagno non faremo più gli auguri. Dico bene?
Sì – rispose l’altro.
- Ma tu cosa devi andare a fare da Carugati?
- Devo portargli i regali di Natale.
- I regali di Natale a uno che ha già tutto, anzi più di tutto? E scommetto che sono in quel tir che ti porti dietro, vero?
- Sì.
- Che c’è?-
- La solita roba per i ricconi: caviale, champagne, ostriche, cibarie varie, coperte di lanamerinos, giacconi imbottiti delle più prestigiose firme.
- Ma non ti vergogni di portare così tanto a chi ha già così tanto?
- Obbedisco solo agli ordini e si vede che Carugati ha qualche Santo in Paradiso.
I due si fecero ancora più vicini ed esclamarono:- E perché non dobbiamo avere anche noi qualche santo in Paradiso?
Poi, il primo, quello che gli aveva toccato il braccio, si accostò al suo orecchio destro, mormorando:
- Come puoi vedere, noi siamo dei barboni, dei clochard, non abbiamo nulla, se non la nostra miseria che ci è compagna e stimolo per continuare questa vita da emarginati. Non cercare Carugati, fermati con noi e, se c’è un Paradiso, credo che non possa che essere contento di vedere che almeno in questa notte un briciolo di giustizia è sceso sulla terra.
- Più facile a dirsi che a farsi, perché lassù controllano e sono inflessibili, altrimenti tutto andrebbe in vacca. Ma in cuor mio so che avete ragione e mal che vada mi potrebbero licenziare, esiliare su una nuvoletta sperduta, farmi fare la corvé di pulire con la ramazza ogni giorno tutti i sentieri che corrono fra gli astri, togliermi la compagnia delle renne, mettermi in cucina a fare il lavapiatti e là di piatti ce ne sono tanti, un numero infinito.
- E allora?
- E allora che Carugati vada al diavolo; ci sto, mi fermo e la roba è per voi.
Urla di gioia accompagnarono quest’ultima frase e rese tutti più intraprendenti. Il fuoco fu ravvivato, i due barboni si ricoprirono con i giacconi imbottiti, si iniziò a pasteggiare con caviale e champagne. Nel corso di quel cenone Babbo Natale non mangiò molto, ma si vedeva che era contento che gli altri si saziassero.
Si iniziò a chiacchierare e uno gli chiese: - com’è la vita lassù?
- Piuttosto monotona, tutti i giorni le stesse cose, ma non c’è da lamentarsi, perché là siamo uguali in tutto.
- Ci sono dei poveri, dei barboni?
- Evidentemente no, anzi sono poveri quando bussano al portone, ma una volta dentro diventano tutti ricchi, di una ricchezza interiore che si chiama beatitudine. E voi, scusate,la domanda, come mai siete dei barboni?
- Io…
- Io…
- Uno alla volta per carità, magari comincia tu che sei stato il primo a parlare con me.
Costui era un tipo di una magrezza spaventosa, con gli occhi cisposi e la voce che con lo champagne tracannato si era fatta roca, appena percettibile.
- Rispondo, hic, se bevi anche tu, hic.
E Babbo Natale cominciò a bere.
- Chiamami Ben. Vedi, io non ero come mi vedi ora, ero uno come gli altri, casa, ufficio, ufficio, casa, e così via, hic. Un giorno, però, ho piantato tutto, hic. Mi sono stufato di quella vita talmente uguale da non accorgermi del tempo che passava e, hic, ho iniziato la mia carriera di barbone.
Si fece avanti l’altro, pure lui un po’ brillo.
- Io sono Aristide, Aristide e basta, il cognome l’ho dimenticato. Non mi andava questo mondo, con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più miseri, con le ingiustizie sempre in danno dei più deboli e a vantaggio dei più forti.
Il vino, il pasto abbondante cominciarono ad avere effetto e i tre - sì tre perché anche il Babbo Natale 151, non avvezzo all’uso delle bevande alcoliche, ne fu contagiato - si addormentarono pesantemente e nemmeno sentirono i suoni delle lontane campane che a mezzanotte annunciavano la nascita di Gesù.
Furono trovati all’alba da una pattuglia della stradale, raggomitolati nella neve, difesi dal freddo solo dall’abbondante dose di alcool che avevano trangugiato. Delle renne e della slitta non c’era traccia, erano semplicemente sparite.
Li portarono al commissariato e Ben, che fu il primo a risvegliarsi, raccontò una storia che non stava né in cielo, né in terra e cioè che avevano cenato con Babbo Natale, avevano bevuto a volontà ed ebbri si erano addormentati.
Il commissario Santanastasia, già incavolato per essere di servizio il giorno di Natale, diede un pugno sul tavolo che fece cadere tutta la collezione di penne che lì stazionavano permanentemente del tutto inutilizzate.
- Ma che cazzo e cazzo! Dovrei credere a una minchiata del genere?
E rivolto al suo aiutante, urlò:
- Portami quello vestito da Babbo Natale.
Questi, ancora intontito, entrò barcollando nell’ufficio e fu fatto sedere con una certa difficoltà, perché se faceva fatica a camminare dritto, altrettanto gli risultava difficile restare fermo da seduto e così prese a oscillare da una parte all’altra.
- Senti, bel tomo. Chi sei e cosa facevi lì?
Dalla bocca impastata uscirono suoni disarticolati.
- Non prendermi per il culo. Cazzo, rispondi in modo chiaro.
- Sono Babbo Natale 151.
- Sì, e io sono Rockfeller.
- Piacere signor Rockfeller.
- Ma che Rockfeller e Roffeller del cazzo! Sei ubriaco, ma mi prendi in giro. Ripeto la domanda: chi sei?
- Sono Babbo Natale 151.
- Ispettore, portalo via, levamelo di torno.
- Commissario, con che motivazione li tengo dentro?
- Gli altri due rimettili fuori; questo, vediamo, questo lo arresti per offesa a Pubblico Ufficiale.
- Che offesa?
- Come che offesa? Scrivi: alla domanda di declinare le proprie generalità, il soggetto, non in possesso di documenti di identificazione, dichiarava di essere Babbo Natale 151. Reiterata la domanda, la risposta era la medesima. Ah, quando gli passano gli effetti dell’alcool, chiedigli di nuovo chi è.
Era già il pomeriggio quando Babbo Natale rientrò nel pieno possesso delle sue facoltà e alla domanda chi lui fosse rispose che era Babbo Natale 151.
Informato della cosa, il commissario, d’intesa con i magistrati, ne dispose subito il ricovero coatto presso l’Ospedale Neuropsichiatrico.
L’ambiente era cupo, sbarre alle finestre, porte chiuse, urla di dementi e Babbo Natale 151 se ne stava coricato sul letto, stretto dalla camicia di forza.
Ripensò a quanto era accaduto e, per la prima volta nella sua vita, pianse, poi volse gli occhi al cielo e invocò Gesù.
- So tutto - questi gli rispose.
- Vorrei tornare.
- Certo.
- E mi manderai in esilio, mi farai pulire i sentieri fra gli astri, mi farai lavare i piatti? Farò tutto questo, pur di tornare.
- No, Babbo Natale 151, tu tornerai illuminato dalla tua nuova luce, da quella bontà che era in te e che non conoscevi.
- E le mie renne?
- Già recuperate.
- Grazie, grazie; mi toglierai dal servizio?
- Ma che dici? Il prossimo Natale scenderai sulla terra con migliaia di cose utili per chi ha veramente bisogno, ritroverai i tuoi amici barboni, e anche gli altri tuoi colleghi conosceranno le favelas, le città del dolore, gli occhi tristi di bimbi che non sanno che cos’è la gioia.
- Ma allora, sono perdonato?
- Perdonato? Non c’è bisogno di perdono; tu hai fatto quello che ti ha detto il tuo cuore, hai ragionato con questo muscolo che a volte in non pochi umani sembra mancare. E adesso vieni. Chiudi gli occhi e quando li riaprirai sarai nel tuo cielo.
Il commissario Santanastasia trascorse Santo Stefano, il Capodanno e l’Epifania ancora più nervoso del solito, perché né lui, né nessun altro riuscivano a comprendere come un alienato mentale che si proclamava Babbo Natale, stretto nella camicia di forza e chiuso in una camera di sicurezza fosse riuscito a fuggire senza lasciare traccia.
- E se fosse veramente Babbo Natale? No, meglio non pensarci, altrimenti ammattisco anch’io; insabbiamo l’indagine, perché in fondo non aveva fatto niente di male. Ispettore, nascondi il fascicolo!
Uscito il collega, Santanastasia cominciò a rimuginare fra sé e sé “ Macché Babbo Natale, ci credono solo i bambini a una cosa del genere. Però come abbia fatto a sparire è un mistero: nessuna traccia di effrazione, le sbarre intatte, la camicia di forza ben piegata sul letto. Nemmeno il mago Houdini sarebbe stato capace di tanto. Meglio darsi una calmata e non pensarci più. Sì, è la cosa migliore. Però…, però, se trovassi per caso quell’uomo anziano con la gran barba bianca, così, amichevolmente, mi farei spiegare come ha fatto a scappare e se mi risponde ancora che lui è Babbo Natale, non so che gli faccio, anzi no…, gli chiedo dei doni per i figli dei poliziotti.


2 commenti:

  1. Tutti belli i racconti, ma il suo, con questo Babbo Natale pasticcione fa ridere e porta pwerò anche un grande messaggio di pace.

    Agnese Addari

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  2. Cinque bei racconti, tutti diversi ma uniti da un filo che ha il caldo colore della bontà e della condivisione. Magari fosse così per tutto l'anno!
    Fa bene leggere storie come queste perché hanno il pregio di portare alla luce i nostri migliori sentimenti, quelli più intimi e sinceri.
    Il Natale più bello per la zia, quello descritto da Sciascia, quello, tra il serio e il faceto, di Mimma, il tuo, tra ironia e profondità, e il racconto di Salvo Zappulla, dove dal dolore nasce una maggiore consapevolezza.
    E' stato bello leggerli, come è bello questo appuntamento ormai annuale.
    Grazie. Buone festività a tutti.
    Piera

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