domenica 28 settembre 2014

La lunga strada bianca, di Renzo Montagnoli

                                                                     Foto da web


       La lunga strada bianca
            di Renzo Montagnoli



Mancava poco a mezzogiorno e, risalite le brume del mattino, la piana era completamente inondata dal sole, che, riflettendosi sulle armature, faceva alzare improvvisi e repentini bagliori. Lo spettacolo era impressionante e affascinante al tempo stesso: uno di fronte all’altro stavano i due eserciti, inquadrati ordinatamente in attesa dello scontro. Le prime file erano occupate dalla fanteria, più dietro venivano gli arcieri e subito dopo la possente cavalleria.

“L’attesa è peggio della battaglia, ma spero veramente che sia l’ultima. Per un povero fante come me, servo in pace e servo in guerra, non ci potranno mai essere onori, anche se all’alba il Principe Venceslao ci ha più volte gridato che avremo onore e gloria, ma sarebbe già tanto se riuscissi a sopravvivere. Poi abbiamo assistito tutti alla messa, con il prete che ha invocato la benevolenza di Dio per assicurarci la vittoria. Anche dall’altra parte ci saranno state le stesse parole, le medesime preghiere, un’uguale invocazione. Quel che è certo è che se Dio è in ascolto si trova in un bel dilemma: se favorisce l’uno, scontenta l’altro. Però se Tu sei sopra di noi, ti chiedo solo di salvarmi dal pericolo, mio Dio,  e ti prometto che andrò a messa tutte le domeniche e che tutti gli anni farò parte dei pellegrini che, valicando le montagne,  percorreranno la lunga strada bianca che porta al Santuario della Madonna dei Caduti.”


Improvvisamente, si alzò uno squillo di tromba e le truppe iniziarono a muoversi, sempre in ranghi serrati, dapprima più lentamente, ma poi aumentando gradualmente la velocità, fino a quando i fanti si misero a correre. In quel preciso istante, da entrambe le parti dell’opposto schieramento si alzarono sibilanti le frecce, con un percorso arcuato che le portò a ricadere dall’alto sulla massa avanzante.
Si sollevarono gli scudi, ma non tutti furono così lesti e i dardi si infilarono nelle le cotte, penetrando nelle carni, fra le urla di dolore dei colpiti. Non più di tre volte s’involarono fitte a oscurare il sole, scoccate dai lunghi archi di duro legno di frassino, ma cominciarono a creare ampi vuoti nelle file che pronte si rinserrarono. Indi, preceduto da urla disumane, avvenne l’impatto, un cozzo violento, in un frastuono di scudi che si urtavano e di spade che s’incrociavano.


“Un fendente da sinistra, mi scanso, alzo la spada: colpo bloccato! Ma ecco un altro che cerca di infilarmi con la lancia; mi giro, la punta mi sfiora il fianco e lui quasi mi viene addosso, ma io affondo la lama, gli passo la cotta, gli squarcio il ventre. Ritraggo la spada, quasi non respiro, boccheggio, ma ne arrivano ancora, a destra uno cala la scure, ma lo scudo mi protegge e lo stendo con un fendente fra il collo e la spalla. Ho la testa che mi scoppia, il sudore che goccia sugli occhi, che mi appanna la vista. Una fitta tremenda al braccio e mi cade la spada. Non l’avevo scorto, perché mi era proprio a fianco. Mi copro con lo scudo, ma lui insiste, sto crollando sotto i colpi, ormai mi è talmente vicino che sento il suo respiro ansimante… ma ecco che ho trovato il pugnale, lo estraggo dal fodero e con tutta la residua forza del braccio offeso lo infilo nella sua gola. Lui mi guarda sorpreso, mentre il sangue sgorga a fiotti, alza ancora la spada, sbarra gli occhi e crolla davanti a me”.

Le fanterie combattevano da almeno un’ora, quando i comandanti ritennero opportuno di far intervenire la cavalleria. Il principe Venceslao lasciò andare il falcone appollaiato sul suo pugno sinistro e questo, involandosi, diede il segnale per l’inizio della carica. I suoi cavalieri si mossero a tenaglia, dapprima al trotto, e poi, tese le lunghe lance, spronarono i loro destrieri al galoppo.
L’avversario non fu da meno e, pur disponendo solo di cavalleria leggera, la dispose in modo da costituire una manovra accerchiante. Il minor peso ebbe questa volta facile gioco della lentezza del nemico, investito ai fianchi nel momento in cui non era ancora in grado di dispiegare la sua grande forza d’urto. Nulla poterono le armature e le analoghe protezioni dei destrieri contro i giavellotti che i cavalieri avversari scagliavano con precisione inaudita.
Quella che per il Principe Venceslao doveva essere la mossa conclusiva si rivelò un doloroso e tragico fallimento.
Ovunque si vedevano armati sbalzati da sella, cavalli che precipitavano rovinosamente al suolo, spesso schiacciando chi li montava, in un polverone che come una nebbia aveva invaso tutta la piana. Lo scenario era di una indescrivibile ecatombe: qua un cavaliere che moriva soffocato dal suo sangue, là un altro con conficcato nel petto un giavellotto, ancora in sella, ma già morto. E su tutto sempre le urla, i clamori, le imprecazioni che coprivano i lamenti. Quando esaurito il loro compito i cavalieri avversari si volsero ad attaccare la fanteria, il Principe si allontanò velocemente dal campo, seguito dalla sua scorta, lasciando i suoi uomini alla mercé del nemico.

”La cavalleria! La cavalleria! Ci viene addosso: la partita è persa e forse anche la vita. Se riesco a uscire da questa bolgia scappo, fuggo con la poca forza che mi è ancora rimasta!
Ho recuperato la spada, ma fatico a tenerla in pugno. Una spallata a questo, una spinta a quest’altro, sto uscendo, forse ce la faccio. Ecco, sono fuori, mi butto a rompicollo a sinistra. Ahimè che dolore! Non respiro più: è stato un giavellotto, dritto nella schiena. Non riesco più a muovermi, cado, mi sento mancare.”

Lo scontro era durato in tutto un paio d’ore, un tempo interminabile per chi era rimasto là fino alla fine, e mentre i vincitori alzavano al cielo i loro urrah, il Principe Venceslao già mercanteggiava con il suo avversario la libertà e il mantenimento del suo rango.
Le trattative, come si conveniva fra potenti, si svolgevano come se si stesse discutendo del normale regolamento di un affare: nessuna parola, nessun pensiero per le migliaia di morti che con il loro sangue inzuppavano il terreno della piana. Esseri inferiori erano da vivi, e ancor meno erano ora da morti, senza più nessuna utilità.
Intanto i cerusici s’aggiravano nel carnaio, insieme ai monatti, questi ultimi intenti a recuperare i morti e ad accatastarli, non senza averli prima spogliati di ogni avere, compresi i calzari.

“Mi sto riprendendo, devo essere svenuto; chi c’è lì a un palmo dal mio naso? E’ il viso di un nemico, ferito come me; anche lui non riesce a muoversi e mi fissa. Cerca di dire qualche cosa, mi pare che voglia dell’acqua, ma non ne ho nemmeno per me e la sete sta diventando insopportabile, più ancora del dolore che mi provoca la ferita. Che hai da guardare? Sono un tuo nemico, ma non sono in grado, e non ho nemmeno più voglia di farti male.
Soffri anche tu, vedo. Non guardarmi con quegli occhi imploranti! Non posso aiutarti, nessuno ci può aiutare. Se le ferite non sono fatali, e se passa il cerusico, forse abbiamo una speranza. Non so l’ora, ma il sole mi sembra che vada calando e se non arrivano a soccorrerci prima che faccia buio saremo in ogni caso morti; con le tenebre usciranno i lupi dei boschi, gli spiriti maligni delle piante e ci finiranno loro.”

Nella luce del tramonto si stagliavano le immagini delle cataste su cui venivano distesi i corpi praticamente nudi, tutti con i segni della loro morte: petti squarciati, braccia e gambe divelte, teste mozzate, e su tutto si levava il lamento dei feriti e dei moribondi.

“La ferita mi fa meno male, anche se mi sembra che il sangue esca ancora, ma mi sta venendo freddo, forse  per la sera che si avvicina. Il mio nemico è sempre lì che mi guarda, con la bocca semiaperta che lascia uscire della saliva insanguinata. Ogni tanto sbatte le palpebre, come se cercasse di dirmi qualche cosa.
Adesso ha aperto la bocca, si sforza di emettere un suono, ma esce solo un gorgoglio e i suoi occhi si sono spalancati, guardano fisso, ma non verso di me; ha un’espressione di stupore, ed ecco che gli esce un rantolo, reclina il capo e chiude le palpebre. E’ morto, ma chissà che vedeva.
Il freddo aumenta, si fa sempre più buio, non vedo quasi più niente, nemmeno il suo volto; mi manca l’aria, è tutto nero, no, scorgo una lunga strada bianca che non sembra aver fine.”

I loro corpi furono fra gli ultimi a essere raccolti, finirono sulla stessa catasta e poi accesero i fuochi.
     




3 commenti:

  1. "I loro corpi furono fra gli ultimi a essere raccolti, finirono sulla stessa catasta e poi accesero i fuochi."
    E' stato e è ancora così, il potere si salva sempre, mentre la gente semplice, onesta continua a fare da contorno. Grazie Renzo

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  2. Un racconto che fa male, una riflessione dalla quale emerge, se ancora ce ne fosse bisogno, tutta l'inutilità e l'atrocità di qualsiasi guerra. Battaglie combattute sempre da povera gente, nel passato come nel presente, corpi di "persone" di cui non sapremo mai niente, che neppure nell'ultimo istante di vita sembra abbiano diritto a mantenere la loro dignità di uomini.
    Un bel racconto che lascia un senso di tristezza e inadeguatezza. Dovrebbero leggerlo proprio quelle persone che... non lo leggeranno mai.
    Ciao.
    Piera

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  3. E un racconto crudele, che fa male, perché é tremendamente vero che se la guerra é una barbarie é ancor più vero che le vittime sono sempre i poveri diavoli.
    Alla fine mi sono commossa con i due nemici uniti nella morte.

    Agnese Addari

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