Il gigante
di Enzo Maria Lombardo
Quello che mi colpì di più furono gli occhi. Non le
case distrutte e le macerie, non le strade divelte e gli odori assurdi, ma gli
occhi della gente. E dire che strade, odori e case sembravano messi lì apposta
per imprimersi a fuoco nella mente. Ed invece no. Solo gli occhi
della gente mi restano ancor oggi nitidi tra i ricordi di quella
notte: occhi socchiusi tra smorfie rugose, occhi serrati a scatti, occhi
sgranati e fermi, occhi bianchi da ebete posati su niente, riversi all’interno.
Occhi che galleggiano nel buio staffilato dalle fotoelettriche.
Tutto il resto sfuma nella nebbia che s’era
posata sulle rocce nere. Tutto. Anche i paesaggi lontani che sorgevano
pian piano dalla notte, beffardi nella loro immobilità, dopo le scosse.
E, nel ricordo sfumato, il paese. Un pugno di case
vecchie che ignorava ancora il giorno, avvolto nella luce irreale delle lampade
mobili; un cumulo di detriti tra una nuvola di polvere da dove di tanto in
tanto si alzava il grido di chi trovava una cosa qualunque sotto un masso
smosso dalla pala meccanica. Vibrava a lungo, quel grido, prima di perdersi tra
i rumori rabbiosi delle scavatrici.
Poi, mentre qualcuno mi portava in braccio correndo
tra le macerie, in mezzo al rombo dei diesel, al vocìo, ai richiami, vidi
galleggiare nel buio gli occhi della gente. Erano vicini, fusi, dietro
palizzate improvvisate, in un’unica massa ondeggiante. Quegli occhi scrutavano
fra i massi ma non vedevano nulla, inseguivano i genieri e i tecnici
che si affannavano con strumenti sconosciuti tra le grosse tende montate sullo
spiazzo o che piantavano attorno pali e pali come a voler fermare,
inchiodandolo, quel mondo tremolante.
Anche mio fratello Enrico usciva di corsa da una di
quelle tende. Era lontano. Un’ombra più netta fra le ombre, l’elmetto giallo in
testa, il giubbotto con strisce riflettenti, l’affanno patetico ed esagerato
che gli conoscevo bene, portato assieme al resto, come una divisa.
Ed anch’io avevo l’elmetto giallo in testa. Una cosa
inutile nello spiazzo dove venivano allineati i sacchi con i morti.
Me l’ero trovato in testa, quell’elmetto. Ma
non mi serviva. Non scavavo, non aiutavo, nessuno voleva avermi tra i piedi.
Restavo nello spiazzo a contare i sacchi con i morti. Ogni volta che ne
arrivava un altro ricontavo.
Mi avevano portato a braccia, mezzo intontito e
pieno di sonno, ancora con il sapore delle pasticche per dormire in bocca e
qualche calcinaccio tra i capelli. Qualcuno si era trascinato dietro la mia
sedia a rotelle. Dicevano che dovevano portarmi via più tardi con una delle
ultime ambulanze, se c’era posto tra i feriti. E di ambulanze ne erano salite
tante e facevano la spola dalla Città, anche se laggiù, a quanto si diceva,
erano messi male più di noi.
Quando mi sollevarono per issarmi sul mio trespolo
vidi, fra gli altri, mio fratello. Solo per un momento, un’ombra nel buio.
Mi disse in un soffio: “Non avere paura”. Ed era
eccitato, ansioso, muoveva veloce la testa per guardare gli uomini dietro di
lui, dava ordini. Quando si chinò verso di me mi offrì il suo sorriso tirato.
“Non avere paura, Giacomino”, ripeté, “il peggio è passato. Ed anche se la
terra ballerà ancora, qui, nello spiazzo, tu sei al sicuro. Non muoverti, però,
mi raccomando, qui è pieno di sassi.” Era un ordine e, per essere più
sicuro, tirò il freno e bloccò le ruote della sedia.
Ma dentro di me non c’era paura. Se c’era, se ne
stava sepolta tra le pieghe del sonno da cui non riuscivo a liberarmi. Ricordo
che biascicai: “Vai tranquillo, Enrico. Tu servi laggiù. Io qui sto bene.”
In effetti non lo volevo vicino, non questa
volta, non nello spiazzo dove potevo vedere i sacchi incerati ed immaginare il
corpo di quei morti, forse straziato, mutilato, ormai immobile e freddo e
sentirmi un pò diverso da loro, dalla cintola in su.
Ma Enrico tornò nello spiazzo con una coperta, poi
con una caraffa d’acqua, poi con un caffè. Non sapeva starmi lontano, Enrico,
proprio come a casa. Perché era lui che a casa mi curava, lui sapeva come
sollevarmi, come attorcermi le cinghie sul petto e sulle cosce per non farmi
scivolare a terra come un manichino. E subito dopo la disgrazia era lui che
aspettavo, la sera, e in principio volevo recitare in pieno la mia parte,
quando, abbandonando di proposito ogni forza, mi lasciavo cadere a corpo morto
dalle sue braccia sul mio letto speciale con le sponde a gabbia e su quel letto
duro mi rovesciavo apposta per colpire le sbarre e fargli sentire che mi ero
fatto male.
Gli altri, quelli che mi accudivano di giorno, non
ci sapevano fare: venivano a turno e li chiamavano infermieri
ma erano tutti contadini del posto sfaccendati che non avevano la forza di
Enrico. Mille e mille volte ho gridato cosa dovevano fare mentre mi
tiravano su dalla tazza del cesso, ma loro non mi rispondevano neppure.
Puntavano gli occhi avanti senza guardare nulla. Sembrava che avessero schifo o
vergogna di un lavoro così: preferivano la merda dei campi, alla mia,
la sognavano, se la portavano addosso assieme al loro odore.
Invece Enrico faceva bene quel lavoro, quando c’era.
E forse gli piaceva pure. Perché sorrideva sempre mentre mi tirava su
i calzoni e mi diceva “ora a nanna”, come fossi un bambino, anche se
avevo trent’anni suonati e solo un paio d’anni meno di lui.
Sembrava avesse ormai dimenticato di quando,
ragazzi, correvamo insieme appresso ai conigli selvatici e ai gatti, e avesse
scordato anche le discese, in inverno, a sci uniti sulla neve gelata. Ed ero io
che vincevo, sempre.
Aveva rimosso dalla sua memoria anche le corse in
moto fra i tornanti della provinciale per scendere in città e
arrivare in tempo all’officina. E arrivavo io per primo. Sempre io.
Aprivo la saracinesca, accendevo apposta una sigaretta e mi mettevo in posa sul
sellino della moto, fingendo di essermi annoiato a morte ad aspettarlo.
Tutto aveva rimosso mio fratello, anche l’ultima
corsa e la caduta. Ero nato di nuovo, per lui, da quel momento. Sembrava che
m’avesse partorito lui da quando mi sollevò mezzo svenuto dal ciglio
della strada e si accorse di cosa m’aveva fatto il masso nella schiena.
E mi diventò padre e madre, che più non avevamo;
diventò maestro di vita ed istitutore. Martire e aguzzino, diventò, e lasciò
scorrere la sua vita sulla mia come un mantello, come una coperta. E sotto
quella coperta, in un utero caldo e puzzolente, io regredivo a stadi prenatali,
mentre morivano, come fardelli inutili, tutti i miei sogni. Tutti. A uno a uno.
Ed insieme ai miei morivano anche i sogni
e gli amori di Enrico, sbiadivano ogni giorno di più, s’accartocciavano come
foto ingiallite e lui li metteva via come un’offerta, senza rimpianto,
sostituiti dalla vita mia che si stava prendendo a poco a poco, succhiandola
come un uovo bucato dopo aver fatto il vuoto nella sua.
Ecco perché cominciai a odiarlo, Enrico. E il mio
odio riempì il mio tempo dilatato, pulsante degli stessi monotoni atti della
vita; e riempì il mio corpo, quello che ormai restava, con un veleno che
sentivo scorrere nelle vene a inondarmi carne e cervello. Lo odiavo sempre, mio
fratello Enrico, in segreto ed in silenzio, proprio come odiavo il letto e la
luce del mattino che mi rimandava ogni giorno, dallo specchio, il mio corpo
rinsecchito e il mio viso sfatto da un sonno artificiale.
Così quel mattino, nello spiazzo dei morti, restai
appollaiato come un gufo sul mio trespolo, mentre la luce aumentava. E non ero
neppure triste, quel mattino. Era finalmente successo qualcosa ed ero vivo. Il
sonno mi attutiva ancora i pensieri, ma sentivo lievitare dentro di me una
forza nuova mentre, come in un film, vedevo crescere la paura degli altri,
l’impotenza.
C’era qualcosa di grande sotto di noi che si
muoveva. La terra si era svegliata e stava stirandosi le membra. Mostrava la
sua forza e gli altri ne avevano paura: sembravano non accorgersi che era la
stessa forza che c’era attorno e sopra, fin nelle stelle e oltre. E quella
stessa forza era nell’aria che respiravamo, che io respiravo. Ma a me quella
forza non dava più paura: mi entrava nei polmoni, l’assorbivo in ogni fibra, la
sentivo dappertutto agitarsi inflessibile, costretta dalle sue stesse leggi.
Quella forza mi apparteneva.
E mentre gli altri, laggiù, come formiche impaurite,
s’affaccendavano a fermare il mondo con i pali e a recuperare i morti e
qualche vivo; mentre quelli s’impicciolivano sempre più in lontananza
e diventavano figurine sbiadite di nani, io nello spiazzo rinascevo e crescevo
sul mio trespolo, senza paura, senza ricordi, senza domani. Solo e isolato
nell’oggi, in un momento di pura conoscenza. Un gigante in una sedia a rotelle.
Dallo spiazzo, tra i ciuffi d’erba e le pietre,
potevo guardare e dominare il mondo dei morti e dei vivi: i morti, lì vicino,
allineati e tranquilli nelle loro incerate; i vivi, piccoli e balordi in uno
sfondo lontano di macerie.
* * *
Pensavo così quando mi misi a osservare
con attenzione quelle incerate. Mi incuriosivano i morti.
In fondo io ero morto a metà: potevo intuire la
forza segreta della morte, l’immobilità, l’abbandono, l’estraneità. Gli altri,
i vivi, quelli che erano vivi del tutto, non potevano. Guardavano la morte
ma non capivano.
Ricordo che, in quel momento, volevo solo essere
scordato da Enrico. Sapevo che stava dandosi da fare con i militari e i
pompieri. Che s’arrabbattasse pure con loro, pensai,
che facesse l’eroe, che si scordasse di me. Sì, volevo essere dimenticato
da lui e gustarmi la mia nuova forza, a modo mio.
Così, stando teso sulla sedia, guardavo i sacchi e
mentre le ombre disegnavano assurdi scenari di rami e tronchi grigi sullo
sterrato, mi sembrò di vedere qualcosa muoversi nella fila.
Un refolo di vento? Un’altra scossa? No, qualcosa si
moveva laggiù, ne ero certo. Non c’era vento e non avevo sentito tremare la
terra sotto le ruote. Tutto era immobile, salvo quel leggero tremito in un
sacco.
Fu solo l’abitudine che mi fece gridare. Non volevo.
Gridai senza pensare, avvezzo già da tempo ad essere aiutato. E qualcuno venne
di corsa e si mise davvero a smuovere i sacchi, e mi chiese: “E’ questo? Dì, è
questo, Giacomino?” e aprì in fretta qualche cerniera della prima fila che
richiuse quasi subito con una smorfia di orrore. Poi mi guardò storto prima di
correre di nuovo alle macerie, masticando qualche parola fra i denti.
Ma non era il sacco giusto. No che non lo era. Ed io
non replicai: anzi mi pinzai la lingua fra i denti per aver gridato d’istinto e
chiesto aiuto.
E quel sacco lì, in seconda fila, si moveva ancora,
in modo impercettibile, ma si muoveva, ed io sapevo che non era l’effetto di
qualche scossa di assestamento. C’era qualcuno vivo, lì dentro, di sicuro. Ed
io non avevo bisogno di un nano frettoloso per aiutarlo. Non avevo bisogno di
nessuno, io.
E da solo, mollando i freni e movendo le ruote della
carrozzella sulle pietre e sull’erba, mi avvicinai a quella fila. Ed intanto
che mi accostavo, pregavo. Se un dio, lassù, mi stava a guardare sogghignando,
lo pregavo che la smettesse di giocare con me e che bloccasse Enrico tra le
altre formiche affaccendate. Pregavo che gli facesse scordare il fratello senza
gambe, legato alla carrozzina come un pacco.
E pian piano, traballando, portai la carrozzina
vicino a quel saccone ma non era facile chinarsi e tirare la grossa
lampo stando legato con le cinghie alla spalliera. Così mi slegai, mi chinai di
nuovo e cominciai a tirare la cerniera. Feci tutto pian piano, con cautela,
perché sapevo che un movimento brusco m’avrebbe fatto cadere in mezzo ai
sacchi.
Feci tutto con una mano sola: con l’altra stavo
attaccato ad un bracciolo della sedia e pian piano riuscii a far
scorrere la lampo e nella mezza luce del mattino mi apparve una
faccia insanguinata.
Vidi un occhio semiaperto, quasi nascosto dai
capelli appiccicati sulla fronte e sulla guancia e in quell’occhio c’era
una scintilla di vita. Sì, ero sicuro che una piccola
luce tremolava tra le ciglia e che queste, a tratti, si muovevano. Mi
parve anche che la bocca si fosse un poco mossa perdendo una bava
rossastra.
Era vivo o erano solo rigurgiti di morte? Dovevo
gridare di nuovo? Dovevo farlo?
Se non era morto, quell’uomo stava morendo:
aveva la fronte sfondata e toccandogli il collo lo sentii freddo.
Prima di gridare però, volevo essere sicuro: così
tirai e tirai ancora la cerniera, e spinsi il braccio per liberare il viso dai
capelli, viscidi di sangue. Poi continuai a tirare: volevo liberargli le mani
da quel sacco. Sentire se nelle mani c’era vita. La mia era quasi tutta nelle
mani. Per questo mi chinai ancora e spinsi con forza il busto sopra il sacco
dimenticandomi delle cinghie slegate.
Così caddi, pesante, sopra quel corpo, a mani
avanti. La testa sopra l’incerata, all’altezza del petto, stretto ai fianchi
dal saccone vicino. Ed ebbi paura. Solo un guizzo. Ma passò subito e continuai
il lavoro: mi trascinai sull’incerata e cercai dentro il saccone la sua mano,
la tirai fuori e mi sembrò di sentirla fremere. Poi liberai dai
capelli quell’occhio semiaperto e, mentre passavo la mano sulla guancia,
d’improvviso quell’occhio s’aprì del tutto e mi guardò.
Non so ancora se quell’uomo morì proprio in
quel momento. So che allora un’idea mi attraversò la mente: avevo trovato
qualcuno nel momento giusto per farmi capire. I vivi, quelli vivi del tutto,
non mi capivano. Mi sopportavano, mi evitavano, se potevano. Oppure mi usavano,
proprio come mi usava mio fratello Enrico, per
sentirsi un pò più forti e veramente vivi.
Con un moribondo, invece, io potevo parlare ed
essere capito. Forse poteva rispondermi nei pochi minuti che ancora gli
restavano, dirmi cosa vedeva la sua mente. Forse anche lui, come me,
in quell’istante, era padrone della vita e della morte.
Gli tenevo una mano tra le mie: se lui non poteva
parlare, quella mano m’avrebbe risposto in qualche modo.
- “Ora non hai più bisogno degli uomini, fratello.”
– gli dissi – “Tu sei un vero gigante, cosa possono fare gli altri, per te?
Nulla nevvero?”
E quella mano ebbe un fremito ancora. Una risposta?
Un sì, ne ero certo.
- “So che anche tu senti la forza del mondo” –
continuai – “So che non hai più paura. Gli altri sì che ne hanno, di paura.
Vivono di paura. Anche i più forti, gli eroi, vivono tremando. Si vestono di
una forza posticcia, si vestono d’orgoglio e di pietà solo per nascondere le
loro paure. Noi no, caro amico, noi no. Noi conosciamo già la fonte
della paura, la viviamo. Ci è diventata amica. Anche mio fratello Enrico, lo
conosci? Anche lui vive impaurito da martire e da eroe. Lo vedo scolorire
quando mi tocca le gambe. Certe volte stringe gli occhi per non vedere e
intanto si veste il viso di un sorriso. Lo so che è un sorriso finto. Nasconde
la paura. Io, invece, vedi? Vivo con le mie gambe morte, le tocco, ne sento la
tranquillità, l’abbandono. A volte, facendo finta di massaggiarle, le
accarezzo...”
* * *
Mi trovarono così, accoccolato tra i morti a
sussurrare vicino a quel viso martoriato. Vennero in tanti, venne mio fratello
Enrico. Aveva il viso stralunato, gli occhi anneriti e aperti, i capelli e la
faccia bianchi, pieni di calcina. Si moveva a scatti come un manichino. Anche
gli altri sembravano tanti manichini. Le tute gialle erano gonfie e sporche e
le facce bianche come tanti clown. Poiché ridevo forte dissero che il terremoto
e la caduta tra i morti mi avevano scosso i nervi già provati per la disgrazia.
Mio fratello mi sollevò e mi ricacciò nella sedia
stringendomi forte le cinghie sul petto e sulle gambe. Mentre mi portava
all’ambulanza mi sussurrò all’orecchio, senza farsi sentire dagli altri:
- “E’ tutto a posto, Giacomino, ci sono io con te
adesso. Non ti lascerò più solo, mai più, non temere. Non avere paura.”
Ridevo.
Che signor racconto e che narratore veramente bravo.!
RispondiEliminaI miei complimenti a Enzo Maria Lombardo e, in ritardo, aguri di buon anno.
Agnese Addari
Ho letto d'un fiato, è un racconto molto bello.
RispondiEliminaComplimenti a Enzo Maria Lombardo, per il ritmo e la scelta delle parole! Lascia l'amaro in bocca perché fa pensare a molti scenari e soprattutto a due vite spezzate.
Carla De Angelis
Una narrazione dolorosa e, in qualche modo, spietata, mi viene da dire. Un racconto straordinario che evidenzia la reale tensione emotiva di chi deve affrontare un terremoto, e nello stesso tempo la capacità dello scrittore di analizzare in profondità la complessità dell'animo umano. Ciò che appare agli occhi dei più non è il vero, è solo una maschera ben costruita, come dimostra Enrico, il fratello del protagonista, che nasconde forse anche inconsapevolmente un amore non proprio sincero, una dedizione che evidenzia il bisogno di occuparsi di qualcuno per cercare in realtà di colmare il proprio vuoto esistenziale, lo esprime bene l'autore. Ed è qualcosa di terribile. Esisterà realmente l'affetto disinteressato, quello autentico e gratuito?
RispondiEliminaBella e impressionante la parte del racconto in cui il protagonista "s'incontra" con il moribondo, dialoga in qualche modo con lui, condividendo i suoi pensieri e quella "forza speciale" che li rende "giganti" e così vicini e simili.
Grande scrittore Enzo Maria Lombardo, grande davvero.
Piera
E’ raro che lasci una traccia delle mie visite su Internet, ma credo che questo racconto meriti almeno un mio piccolo commento, e come mi è consueto (non mi piace sprecar parole), nel complimentarmi con l’autore dico solo che bello è un aggettivo inadeguato, perché è raro anche nei libri stampati, e assai poco frequente, nel caso di narratori famosi trovare un simile pezzo di bravura.
RispondiEliminaFederico Rosati