Lieve come le ali di una farfalla questo ritratto di due
“diversi”.
Un fauno e una ninfa in
bicicletta
di
Enzo Maria Lombardo
Uscendo dalla fabbrica, dopo i saluti, ben pochi usavano la
scorciatoia del lungofiume per tornare a casa. Ma a Costanza, se era una notte
chiara, di luna, quella strada solitaria piaceva e la percorreva spesso.
- Non hai paura? - le dicevano le sue colleghe di linea.
- Paura di che? Dei grilli? – rispondeva ridendo – Tranquille che
non mi mangia il lupo cattivo! Un quarto d’ora e sono a casa. E senza respirare
la puzza dei camion.
E poi, diceva a se stessa montando sulla sua bicicletta, chi la
vuole una strega? Perché sono brutta, brutta, e voi lo sapete bene che sono
così! E, uscendo prima delle altre, immaginava le battute, magari rivestite di
una scorza di pietà, che facevano su di lei quelle donne nella toilette quando
si guardavano quei visi da madonna, aggiustandosi il trucco prima d’uscire.
Lei non si truccava, volutamente, per non guardarsi troppo il viso, ma qualche volta lo specchio dell’armadio, a casa sua,
anche se era ormai vecchio e annerito dall’umido, le faceva vedere quel naso
affilato, dritto, le labbra inesistenti, il mento a punta e gli occhi infossati
tra gli spuntoni degli ossi della faccia. E le mostrava il suo corpo da
maschio, legnoso, in cui si indovinavano, appena accennate, le escrescenze dei
seni e una certa rotondità – quasi innaturale – di fianchi e cosce.
Nelle sere di luna Costanza pedalava volentieri immersa in quel
chiarore freddo, quasi irreale. A tratti distoglieva lo sguardo dalla strada e
seguiva, con la coda dell’occhio, la sua ombra e quella della bici. Quelle
ombre, solo a tratti annullate dalla luce tremolante del faretto,
l’accompagnavano assumendo i contorni più strani: strisciavano a terra, si
allungavano, si contorcevano ad ogni asperità del terreno, ad ogni buca. A
tratti s’arrampicavano sul muretto lungo l’argine del fiume, si spezzavano e
scomparivano tra i rovi.
Spesso, lungo le discese dei dossi, correndo più forte, la gonna
svolazzante le si riempiva dell’aria della sera, diventava un pallone che le
cingeva di frescura le gambe e il ventre. A volte quella gonna le si arrotolava
fin sul petto e lei la lasciava così, felice di sentirsi immersa nella falsa
oscurità, sola e nuda dalla cintola in giù, accarezzata dall’impalpabile mano
del vento della corsa, in una complicità totale con la sua bicicletta e la
campagna.
La corsa solitaria, le ombre e quella strana complicità con il
vento facevano parte di un gioco da fiera alimentato dalla sua fantasia, un
ottovolante fra i dossi o un labirinto di specchi, un gioco segreto e forse
anche pericoloso, ma comunque una parentesi che le era dovuta, dopo i rimbombi
della fabbrica e prima dei lamenti ossessivi della madre.
Povera mamma - diceva quando le piccole luci del paese già
s’intravedevano in lontananza - povera mamma mia, hai finito di accorciare
calzoni, attaccare colletti e polsini, per stasera? Hai finito di piangere per
quell’uomo che ti ha lasciata sola e senza soldi? E questa tua figlia dalla
faccia di pagnotta non lievitata? Hai finito di piangere anche per lei? Così
ripeteva al vento schiacciando i piedi con rabbia sui pedali mentre la bici
aumentava la velocità, sobbalzava, e le luci del paese, all’orizzonte, si
facevano sempre più nette.
Incontro le venivano le prime cascine, vecchie e abbandonate da
tempo, con i muri scrostati e corrosi e in parte nascosti da rampicanti
pietosi; ruderi in cui, negli squarci dell’intonaco, si intravedevano i mattoni
marci e le travi annerite.
Allora una nuova angoscia, l’angoscia di arrivare e mostrare,
nell’intimità della casa, i suoi pensieri scoperti e anneriti come quelle
travi, le attanagliava il petto e lei rallentava volutamente la corsa, quasi a
voler dilatare il tempo che ancora le restava prima che la sua giostra fatta di
ombra e di vento si fermasse e le solite ore la ghermissero di nuovo.
Rallentava tanto che la bici, priva d’abbrivio, tendeva a
scivolare da un lato, ingovernabile. Solo allora si decideva a riprendere a
pedalare. E pedalava piano.
A volte si fermava. Poggiava un piede a terra, l’altro su un
pedale, e restava così, a guardare i contorni neri dei cespugli e degli alberi,
quei tronchi esili che sembravano curvarsi al peso dei rami palpitanti di
foglie vive, appena smosse dall’aria tiepida. Poi, nel silenzio quasi totale,
non più rotto dal rotolio delle ruote e della catena, tratteneva il respiro per
poter udire, oltre il canneto, il leggero sciabordio dell’acqua dell’invisibile
fiume e i piccoli rumori tra l’erba. Appena ferma, anche i grilli tacevano:
avrebbero ricominciato a frinire nel ritrovato silenzio. E, quando
ricominciavano, lei batteva e ribatteva le mani e gridava: “zitti,
zitti!”, sentendosi invasa da una sorta di potere nuovo, un potere crudele,
totale. Il gioco era suo e così pure il silenzio; sua la campagna e suo il
fiume: cosa avevano da cantare quei grilli? Restava così, ansante, qualche
minuto; restava in attesa finché anche il suo piccolo, dispettoso potere si
affievoliva, cessava; i grilli ricominciavano il loro canto meccanico e lei,
stizzita, sollevava il piede da terra, pigiava sui pedali e si avviava verso
casa.
Anche quella sera Costanza si fermò. Scelse un posto in piano,
subito dopo i leggeri dossi e i canneti che chiudono la vista del fiume. Qui, a
destra, le siepi basse lasciano intravedere l’acqua
sonnolente, nera con striature d’argento, leggermente increspata vicino
agli argini, liscia come asfalto bagnato al centro. Anche la strada, quella
sera, era umida e nera, con riflessi d’argento, quasi un nastro translucido
sospeso nelle tenebre che, in quella luce strana e senza colori, appariva
lunghissimo, perdendosi in lontananza.
I grilli tacevano. Fu in quella pausa di silenzio che una voce
gutturale e nota scandì il suo nome mentre dalla siepe uscì, rassettandosi i
calzoni, una figura bassa e dalla testa enorme, quasi calva.
Costanza non aveva avuto paura, o se l’aveva avuta era stata solo
per un attimo, giusto il tempo di inquadrare, in quell’apparizione, il figlio
sordo e un po’ mongoloide del panettiere del suo villaggio.
- Ecco Luigino - fece lei a voce alta - Ecco il mio Principe
Azzurro! Mi aspettavi o hai fatto i bisognini dietro la siepe?
Luigino non rispose: sordo dalla nascita, quel ragazzo riusciva a
stento a leggere le labbra. E qui c’era buio.
Disse solo: - Portami Costanza. Portami al paese, sono stanco.
Lei si sporse sul manubrio avvicinando le sue labbra agli occhi
del ragazzo e scandì:
- E come ti porto? E’ una bici da donna, questa. La vedi? Non c’è
la canna dritta.
Luigino si mosse a disagio e indicò la sella della bici.
- In due sulla sella, eh? Mi vuoi morta, Luigino? O vuoi che
pedali in piedi? Anch’io sono stanca, sai?
- Sella, sì sella. – Fece Luigino.
- Sei proprio una lagna, Luigino. Perché ti allontani tanto dal
paese?
- Sul sellino - Ripeté il ragazzo.
- Ho capito, vuoi montare sul sellino. Devo portare il mio
Principe Azzurro sul sellino. Monta, dai.
E Luigino montò, agile e leggero, lasciando uno spazio minuscolo
sulla sella, in punta, dove Costanza tentò di appoggiare le natiche.
Le prime pedalate diventarono pesanti e Costanza doveva alzarsi
sui pedali per superare i dossi. Poi si avvide che Luigino era arretrato, le
faceva spazio come poteva. Ora che poteva poggiarsi un poco sul sellino e
pigiare meglio sui pedali la bici sembrò più leggera, la corsa proseguì mentre
Luigino si teneva in bilico artigliandole le spalle con le sue minuscole mani.
Ecco il mio incontro galante - disse a mezza voce. - Lo vedi
Antonia? Guardalo Giusy. E a te Luigia, come pare? Non è uno zuccherino?
Guardatelo pure, care le mie compagne. Guardatelo bene! Lo vedete come è bello
con quel testone, le orecchie a sventola e quei quattro peli rossi? Ed è tutto
mio, Luigino. Mio come il vento, come le ombre, come il fiume; mio come l’aria
che respiro. Mio…
Le compagne della sua linea stavano tutte davanti a lei. Tutte
senza il grembiale di lavoro, anzi con il vestito buono impreziosito dagli
orecchini e dalle collane che immaginava indossassero la sera del sabato. Ed
erano illuminate da sorrisi che conosceva bene. I loro sorrisi non erano
sorrisi rassegnati, come i suoi, utili solo per superare le chine della vita:
erano sorrisi veri che spuntavano dal cuore, nati nei loro domani immaginati,
sognati.
- Sì, il domani, care mie. Il domani… – sussurrò, mentre la strada, appena visibile alla luce
falsa del faro e della luna, le sembrò improvvisamente invasa dall’acqua e
lacrime calde le riempirono gli occhi serpeggiando indietro sulle guance e sul
collo, sospinte dal vento.
- Stupida! Stupida! Stupida! – gridò ad un tratto – Piango come
una stupida, proprio la sera che incontro il mio Principe Azzurro! E tu,
Luigino, attento a non cadere! Tienila ben stretta la tua strega prima che voli
via. O forse non ci sono ancora streghe nella tua vita. Solo fatine dei boschi,
scommetto. Ecco: io posso essere la tua fatina o meglio la tua ninfa del fiume.
Magari malmessa, squinternata, ma pur sempre la tua ninfa del fiume. E tu chi
sei? Oh, sì che lo so! Tu sei il mio fauno, un fauno giovane, forte, sporco di
farina e profumato di pane appena sfornato! Chissà quanti elfi, nani, folletti
ci sono nei boschi e sul fiume, la notte. Stasera a me è toccato un fauno dei
boschi, sceso apposta per me sul fiume, sporco di farina e con addosso il profumo del pane! Tieniti forte Luigino, ch’è
ancora lunga la strada. E tieni in alto gli zoccoli, mi raccomando, ché
rischiamo di cadere tutt’e due.
E Luigino si tenne forte, quasi sentisse davvero quei sussurri e
quelle grida. Per tenersi meglio, le sue piccole mani scivolarono dalle spalle
al petto di Costanza, cingendola in un abbraccio che aveva un sapore speciale,
caldo e tenero, un abbraccio vigoroso e dolce che sapeva di bambino e di uomo
insieme. E lei pedalava e piangeva: quell’abbraccio le rimandava alla mente i
sogni impossibili, le fantasie e i timori; le ore perdute e le mille e mille
speranze naufragate in uno specchio annerito dall’umido.
Ora non parlava più neppure con se stessa, né con Luigino né con i
fantasmi delle sue compagne. Anche i pensieri stavano annegando nelle lacrime,
come le parole.
Quando le prime luci del paese arrossarono l’asfalto, Costanza
smise di piangere: pedalava senza pensieri e senza parole, lasciando che solo
il vento della corsa le asciugasse il viso.
gradevolissimo racconto.
RispondiEliminaciao Enzo,
ritrovo dopo dopo anni la tua scrittura lieve e curata, il tuo sguardo umano che sui vinti della vita, la tua fantasia che sa tradurre in poesia le loro minime vicende.
ml (massimolegnani)
Grazie Massimo,seguo anch'io i tuoi piacevolissimi racconti pubblicati dall'amico Renzo. E ricordo con piacere i tempi di "Scrivi".
EliminaAncora grazie e a presto.
E.M.L.
Personaggi ben delineati, una storia piacevole, uno stile pulito e lieve, insomma un gran bel racconto.
RispondiEliminaAgnese Addari
Complimenti!Un quadro nitido, semplice, umano, inumidito da lacrime discrete, ma solo fino all'apparire della luce.
RispondiEliminacorrado s. magro
Ancora una volta Enzo M.Lombardo si conferma uno splendido autore. Leggere i suoi testi è una gioia per l'anima.
RispondiEliminaMilvia
La vita segna le persone e ruba progetti e speranze, eppure talvolta, impietosita, regala qualche istante di illusione.
RispondiEliminaUna storia tenera nella sua disperazione, nei suoi tanti momenti neri, appena illuminati da una luce che ha la sua origine nella fantasia.
Un racconto bello e coinvolgente.
Piera