Dietro
di
Sergio Sozi
Il
titoletto di taglio basso del quotidiano La
Sera era
molto più in giù di quello, vistoso, d’apertura – che urlava lo
sbarco di oltre trecento emigranti a Lampedusa – e stava in
posizione inferiore anche rispetto ai sottotitoli che giravano
intorno alla notizia principale. Insomma quel piccolo titolo era
nascosto, anzi schiacciato (così
pensava Aziz) dalla folla degli extracomunitari, e sussurrava: A
Portofino approda il califfo.
Nessuna foto concessa dall’illustre ospite causa ordinaria
riservatezza. Lo stridore fra le due informazioni evidentemente non
era stato notato dal direttore, responsabile unico di quella prima
pagina on
line,
e tanto meno sarebbe balzato all’occhio del pubblico, ormai
disabituato a certe finezze associative (o dissociative). Aziz non
faceva eccezione e appunto, esaminando il tutto sul monitor, ignorava
quel contrasto.
L’articolo,
poi, a cliccarlo, continuava precisando che il piacente gentiluomo
arabo in dirittura d’arrivo a Portofino, si proclamava il solo
vivente dei numerosi sovrani Abbasidi. Dinastia immortale, che dunque
non si era estinta, come da popolare convinzione occidentale, nel
secolo XVI con la distruzione di Baghdad ad opera degli invasori
mongoli. Di ciò il feudatario – intervistato al telefono poco
prima che partisse per il Belpaese – offriva pubblicamente le prove
certificate a chiunque desiderasse verificare il colore del suo
sangue, appartenente al ramo familiare che dalla capitale irachena si
era trasferito al Cairo a metà Cinquecento. Inoltre, aggiungeva il
califfo, tale elevatezza genealogica aveva trovato conforto in una
serie di – non ereditati – pozzetti di volgare olio
di pietra associati
a qualche investimentuccio azzeccato. E intanto che le plebi europee
verificavano il blu intenso del suo plasma, lui avrebbe passato una
metà (o anche più se gli fosse garbato) di quel mese di luglio 2018
in giro per l’Italia: tra ʽʽContatti d’affari, bellezza,
monumenti e templi, sia pagani che cristiani.ʼʼ –
Traslitterando: quattrini,
donne, musei e chiese.
ʽʽCerto...ʼʼ
prese a pensare Aziz al-Mutawakkil VIII mentre, seduto a prua con il
PC portatile sulle gambe, decifrava il pezzo in lingua italiana che
lo riguardava sull’home page del quotidiano, ʽʽ...certo... ʼʼ e
ogni tanto occhieggiava verso il pilota che stava attraccando con il
motoscafo di trenta metri al molo turistico ligure: ʽʽ...certo
dovrei proprio essere un demente a trascurare cose deliziose
come quelle;
ho fatto bene a lasciare il grosso del femminame a casa.ʼʼ E senza
farsene troppo accorgere, giusto quel tanto che bastava, egli
rimirava con colpetti d’occhio il gruppo di amiche in minigonna,
chissà studentesse universitarie, ferme sulla banchina ad assistere
estasiate alle calme operazioni dei cinque marinai in linda divisa
che, a bordo del gigantesco natante battente bandiera siriana,
gonfiando i petti si affaccendavano ad accostare al molo e approntare
la passerella, affinché il loro altolocato padrone potesse presto
mettere piede, per la seconda volta in vita sua, sul suolo italiano.
L’altra volta, quattro anni prima, era dovuta all’acquisto dello
yacht stesso.
Adesso
però era presente anche la settima moglie, Amina: nel bagno a
sistemarsi da secoli e in crisi di nervi perché non assistita dalla
solita dama di compagnia, che il marito aveva voluto lasciare a
Damasco. Aziz sentiva le sue urla di insoddisfazione allo specchio
senza curarsene, tutt’al più sorridendone: «Stiamo per scendere a
Portofino cara, la passerella è pronta!», gridò senza ricevere
risposta. E sottovoce: «Ah, le apparenze vane: tu che senza trucco
sei da buttare nel cesso ed io... io a sbattermi in questo nuovo
millennio dove perfino un re deve fingersi capitalista
rampante, self-made
man,
per avere credito nel mondo della finanza...». E «Fingi fingi
fingi, anche in mezzo al mare...», iniziò a cantarellare, «fingi
sempre, non ti stancare...». E navigava su Internet senza sapere
dove andasse, così, tanto per far aspettare i sudditi.
Intanto
Faruk, il capo delle guardie private, nella sua cabina vicino poppa,
prendeva dall’armadio la 44 Magnum. Verificò il caricatore e se la
mise sotto la giacca nera, nella fondina ascellare; la leggera
Beretta 7,65 era già sistemata nell’altra custodia in pelle
applicata alla cintura dei pantaloni scuri. Due coltelli a scatto
nelle tasche. Non si vedeva niente di tutto ciò. Elegante fuori,
il giovane arabo, ma arsenale dentro.
Capelli neri corti imbrillantinati. Quasi due metri d’altezza. Uscì
dalla cabina. Gli altri tre omoni della scorta gli somigliavano negli
armamenti e anche fisicamente: erano in piedi, lungo la murata di
babordo. Appena riunitisi, i quattro, senza parole, chi fumando chi
immobile, gli occhi fermi su chissà quale oggetto rasoterra,
iniziarono a seguire il protocollare e un po’ estenuante rito
dell’attesa di Aziz. Il padrone dal nome impronunciabile e la
faccia poco meno sacra, appena guardabile... di sfuggita, non più.
Erano
salpati cinque giorni prima da Sidone, in Libano, dove l’Abbas,
villa galleggiante modello Ferretti 960, restava alla fonda per circa
dieci mesi l’anno. Il gruppo dei siriani aveva raggiunto quel porto
da Damasco, loro città di residenza abituale, con le solite due
Volvo otto posti blindate: una per Aziz, moglie e scorta, l’altra
per servitù bagagli e ciurma. Le macchine erano rimaste parcheggiate
in Libano, dove era previsto anche il rientro del gruppo a fine
vacanza.
Mezz’ora
dopo la partenza da Sidone erano al largo, non lungi da Cipro e
diretti verso il Mar Tirreno a velocità sostenuta. Le tappe, poi,
erano state poche ma piacevoli: l’isola greca di Donussa; una
ridente località del siracusano; infine il Circeo, dove il siriano
aveva acquistato, in ricordo della bella passeggiata sul lungomare,
un anellino di platino con rubino da sedicimila euro. Dono
contraccambiato dalla settima coniuge con un lungo appassionato
bacio, concesso al marito quando erano in vista dell’aspra costa
presso Ajaccio, Corsica.
«Prima
di sbarcare, devi ordinare ad Alì da parte mia che in albergo per
cena stasera non avrò ospiti, ma lui deve fare la spesa subito.
Provviste abbondanti. Inizierà a cucinare per me e mia moglie appena
rientra dal giro. E non potrà dormire. Avrò bisogno di cibo caldo
tutta la notte. E domattina sarà lui, proprio come a Damasco, a
prepararmi la colazione, ché degli estranei, soprattutto se italiani
cattolici falsi e intriganti, io non mi fido affatto...», disse Aziz
qualche ora prima di attraccare a Portofino rivolto al pilota: «...no
anzi, ad Alì non spiegargli ’sta cosa degli italiani
intriganti:
tu digli solo che assolva al suo ordinario dovere di primo cuoco
reale: solito servizio, soliti pasti sempre pronti per me e i miei
eventuali ospiti. E spiega pure alla cameriera e al maggiordomo che a
Porto-come-cacchio-si-chiama... Portofino sì...
insomma, lì
fra i barbari io
stasera andrò in un club per
ricrearmi un poco. Loro dunque mi devono approntareimmediatamente il
bagno e le cure corporali di sempre, senza dimenticare oli, essenze,
cristalli aromatici e il tappeto da preghiera già direzionato verso
la Mecca. Ecco prendi nota, bravo. E senti. Una mossa sbagliata con
un’unghia incarnata che mi fa strillare, come fece quella scema di
pedicure un mese fa prima di avere il collo spezzato come la gallina
che era... o due gradi centigradi in più per l’acqua del bagno
come successe all’altra emerita cretina di Samara (te la ricordi la
bionda? La dovetti far sgozzare da mio figlio Rahmaran, per farlo un
po’ maturare, poveretto lui che gli faceva impressione il sangue:
poi non più). Dico, uno sbaglio, una disattenzione... o peggio una
cattiva figura all’estero e io li getto ai pesci... e indìco pure
una gara di tiro alla fiocina fra gli amici... tutti e due a bagno li
metto digli tu: al maggiordomo e all’ancella. Già sono tanti i
disagi del viaggiare, almeno il personale sia efficiente! Chiaro?».
Il
pilota coetaneo, cioè cinquantottenne, da buon ex capitano di lungo
corso salutò militarmente senza fare una piega e: «Particolari
desidèri riguardo l’abbigliamento ed il menù, vostra altezza?»,
chiese ad occhi bassi, lieto dell’attenzione prestatagli da Aziz.
«Ci
penserò di volta in volta io personalmente a darvi le istruzioni. Ah
che noia muoversi. Soprattutto fra ’sti rozzi, atei e sozzoni di
europei. Neanche più italiani, francesi, inglesi:
soltanto democratici,
loro, democratici...
chissà che vorrà dire: che identità è
la democrazia?».
Un
paio di ore dopo, a tramonto appena iniziato, Aziz al-Mutawakkil
VIII, quasi
soddisfatto dell’articolo
giornalistico, spegneva il computer e smontava con solenne calma
dallo yacht, seguìto a qualche metro dalla settima moglie, Amina,
con la testa rivolta all’in giù e chiusa nel velo integrale. La
coppia veniva accolta da un ossequioso comitato d’onore: una
dozzina di italiani, maresciallo dei Carabinieri e sindaco di
Portofino inclusi. Finite in fretta e senza troppa partecipazione da
parte degli ospiti le cerimonie di benvenuto, con inchini e sorrisoni
degli autoctoni, tre taxi, pronti a poche spanne dall’acqua,
portarono i siriani all’albergo; dove la suite di centosessanta
metri quadrati – cinque stanze, sala, salotto, triplici servizi e
cucina – li attendeva linda e pinta. Nel garage riposavano le tre
auto a noleggio con le quali i mediorientali si sarebbero spostati
finché erano lì.
«Ah,
che miseria di tugurio, per giuda», commentò Aziz mettendo il naso
nell’appartamento. «Tappeti: paccottiglia occidentale di solo un
paio di secoli fa; quadri settecenteschi, almeno autentici speriamo:
modernariato. Niente rubinetteria in oro... tutto argento. E il
samovar che avevo ordinato? Non lo vedo. Mah. Speriamo almeno di
farci qualche bell’incontro
misto:
dopotutto, l’unico lato positivo delle cristiane è che sono
sessualmente disinibite quel tanto che basta a noi persone timorate
di Allah».
Inutile
precisare che la settima moglie era stata alloggiata in un altro
appartamento, più piccolo, dello stesso hotel, ma a debita distanza.
«Donna», le disse Aziz al telefonino durante le abluzioni, «adesso
sono le ventuno e trentadue: fra mezz’ora esatta vieni qui a cena.
Poi rientrerai in camera ché io devo uscire. Ci rivedremo qui domani
alla stessa ora. Questo per il momento il programma. Domani sera ti
impartirò il nuovo. Chiaro?».
Stava
prendendo inizio la solita procedura di Aziz in viaggio di piacere:
discoteca, orgetta notturna, dormita diurna, (rari) incontri
ufficiali, nuove conoscenze, spesucce in giro con Amina, pasti. Due o
tre giorni così, poi noia. Cambio località.
Da
Portofino la comitiva, tre giorni dopo, si era spostata a Capri.
Altri tre giorni e via a Pompei. Ancora due giorni ed eccoli nel
primo hotel di Taormina.
Nella
splendida cittadina siciliana, la migliore fra le varie discoteche
riservate al jet
set internazionale
era aperta da mezzanotte alle dieci di mattina, ora in cui veniva
offerta una colazione luculliana agli ospiti, selezionati con criteri
di stretto censo e conoscenza personale con il padrone, il giovane
Francesco Ciccio Melluso.
Un industrialotto dotato di ottimo intuito affaristico che – senza
spiacere alla mafia, per carità! – aveva da poco fondato il club
di liberi incontri, affollandolo di un gentil sesso da lui remunerato
per divertirsi, ballare, assaporare pietanze raffinate e soprattutto
vivere appieno la propria libertà sessuale. Le consumazioni di
bevande e cibi, come quelle erotiche, erano rigidamente facoltative
gratuite e illimitate per tutti gli amici presenti – no, non
i clienti,
gli amici,
per carità. Con i trecento euro del biglietto d’ingresso di
ogni amico maschio
il guadagno era comunque garantito.
Dunque,
intorno all’una di notte di quel 16 luglio 2018, sabato, l’enorme
SUV nero con a bordo il califfo e i quattro gorilla parcheggiò di
fronte all’entrata del locale.
Il
sovrano fu immediatamente oggetto di multiple ma ben armonizzate
attenzioni, da parte di un trio di statuarie ragazze sui vent’anni.
Ben presto, intorno al suo tavolinetto s’era radunata mezza
discoteca, maschi e femmine di ogni età. Si beveva parecchio. Anche
lui, ormai sicuro di non avere intorno occhi islamici, verso le tre
aveva smesso con gli analcolici di
facciata.
Intorno
alle cinque del mattino, Aziz provò un capogiro. Strano, per uno che
era abituato alle nottate allegre. Seguì un attimo di buio assoluto.
Poi il risveglio.
D’ora
in avanti lasciamo la parola ad Aziz al-Mutawakkil VIII in persona.
«Aprii
gli occhi a causa del fetore: le luci basse, quelle colorate al
centro della pista, i divanetti in velluto rosso, i profumi, le
scollature... tutto era sparito. Niente più musica. Al loro posto il
buio, un buio denso, e una puzza di sudore stantio, urina, cibo
alterato e... paura. Lo conosco l’odore della paura perché era
quello dei condannati a morte quando – subito dopo che, in quanto
giudice supremo, li avevo messi davanti al plotone d’esecuzione –
mi avvicinavo per chieder loro personalmente l’ultimo desiderio. E
puzzavano tutti alla stessa maniera. Anche alla stessa maniera dello
spettacolo che dovetti vedere quella volta, non troppo tempo dopo che
avevo riaperto gli occhi nel buio assoluto, grazie all’accendino
che m’ero trovato in tasca. Ne possedevo diversi d’oro massiccio,
ma quello era un comune Bic di plasticaccia. E la mia tasca,
constatai, era quella di un paio di jeans sudici, lisi e troppo
stretti. Toccandomi dappertutto con la mano libera iniziai a girare
la fiammella intorno al corpo: stavo indossando anche una camicia a
quadri forse rossi e bianchi, mentre ai piedi avevo delle robuste
babbucce turche da campagnoli, sporche di fango. Roba mai vista
prima.
ʽʽSpegni
quella luce, imbecille, si dorme qui!ʼʼ, proruppe una voce maschile
rauca... come di un vecchio. Stendendomi verso di lui lo illuminai.
Stava accucciato a poca distanza, semicoperto. E avrà avuto
diciassette, diciotto anni. Baffi neri e pizzetto. Una felpa chiara.
Due scarpe da ginnastica buttate lì accanto. Infangate come le mie
babbucce. Parlava un arabo delle nostre parti, arabo siriano.
ʽʽNon
capisci, nonnetto?ʼʼ, insistette spazientito, ʽʽleva
quell’accendino e approfittane per dormire. Domani sennò il
padrone non te lo dà il lavoro, se ti vede mezzo insonnolito e
stanco. Già sei debole di costituzione... e denutrito... rischi
grosso...ʼʼ
ʽʽLavoro? Padrone?!
Ma con chi stai
parlando?!ʼʼ replicai irato alzandomi.
Non
mi degnò di risposta: soltanto un sospiro sdraiandosi di nuovo sotto
la coperta bigia. A quel punto ammutolii. Perché gli occhi
abituatisi all’oscurità mi avevano trasmesso il panorama: ero al
centro di una vasta sala senza mobili né letti, appena illuminata da
lampioni esterni arancioni che filtravano da tre finestre, chiuse con
inferriate e munite di veneziane interne. Cercai d’istinto una
porta senza vederla. La sala era interamente popolata da esseri i cui
corpi strabordavano, stesi, fitti, identici a nera marmellata, fin
sotto i muri. Il tanfo si moltiplicava. Alcuni giacevano del tutto
chiusi dentro i sacchi a pelo, altri con indosso solo i vestiti.
Poche coltri leggere. Li contai. Quarantasette forse quarantotto.
Soltanto maschi mi sembrò. Si respirava male. Presi a tremare.
ʽʽDevo
telefonare. Capito!? Subito!ʼʼ, urlai da fermo, sentendomi del
tutto impotente.
ʽʽFattela
finita, stronzoʼʼ. Rispose senza agitazione una voce diversa ma
sempre anziana alla
mia destra. ʽʽDopo due giorni, ancora non hai capito che ora la
storia è cambiata? Non siamo mica più nel Centro
d’Accoglienza:
ora qui è vietato telefonare! Ce l’hanno requisito l’altroieri
il cellulare, insieme ai documenti... appena siamo stati assunti.
Fatti beccare a una perquisizione con addosso un documento d’identità
o un telefono e vedi che fine fai, sciocco vecchiastro. Comunque, se
vuoi crepare fai pure. Io tengo mamma a Raqqa, e devo mandarle i
soldi ogni mese se no schiatta come gli altri... papà per le
pallottole del sultano (Dio lo stramaledica)... lei sarà di fame. E
mo vaffanculo e fammi dormire l’ultima oretta che mi rimane prima
dell’appuntamento nel punto raccolta col bus che ci scarrozza fino
ai campi di pomodori...ʼʼ
ʽʽIn
autobus ai campi... ma che accidente farnetichi?!ʼʼ,
urlai perso e pazzo di furore.
ʽʽNo,
no, NO: sono quasi le cinque di mattina e TU DEVI STARE MUTO! Sennò
adesso ti prendo a calci nel culo. Chiaro?!ʼʼ. Una breve pausa.
ʽʽRispondi vecchio: TI È CHIARO?!ʼʼ
ʽʽSì,
sìʼʼ. Mormorai, più a me stesso per confermare l’incubo che
rivolto a quell’ennesimo vecchio-giovane mio connazionale. D’un
tratto provai la stessa paura che ebbi, sin dalla più tenera età,
davanti a mio padre.
ʽʽNon
solo SÌ, ma SÌ SCUSA TANTO, si dice. Non la imparasti l’educazione
da tuo padre?ʼʼ
ʽʽSì...
no. Porc... è vero: non ho più il telefonino! Devo telefonare,
uscire di qui. Dimmi ti prego: dov’è l’uscita?ʼʼ.
Ridacchiò
senza allegria: ʽʽUffa. Va be’ ragazzi: ormai siamo tutti
svegliʼʼ, constatò con voce diventata stanca. Molti sbadigliarono
e presero a stiracchiarsi in silenzio. ʽʽDiamo una schiarita alle
idee di Massul, che forse stanotte si è fatto una cannaʼʼ. Mi
fissò. ʽʽAllora Massul, ascolta bene: tu sei in Italia e come noi
sei un uomo fortunato, perché sei vivo. Questo è il nostro
domicilio; la chiave della porta ce l’ha solo il padrone: apre e
chiude quando vuole. Questo ricovero-refettorio ce l’ha dato
proprio lui, il padrone dei campi di pomodori, dopo tre mesi che
eravamo rinchiusi nel campo profughi governativo. La polizia stava
per rimpatriarci... almeno due su tre. Così, tanti sono fuggiti
morendo in mare, altri stanno in ospedale, qualcuno in galera. Le
donne decenti sul marciapiede. I restanti... boh.
Noi, cioè anche tu Massul,
siamo i fortunati, i prescelti.
Veniamo pagati ben dieci euro al giorno più vitto e alloggio e
cogliamo sammarzano solo dieci ore al giorno. Se rompi le palle ti
spediscono in mezzo alla strada, dove esiste solo la parola fine.
Quindi tu, o ti butti a mare, o te ne stai qui calmo e disciplinato.
E dormi pure, così non crolli sui campi. Se cadi ti licenziano...
non ti ricordavi più niente? Cos’hai fumato? Stai bene, Massul?ʼʼ
ʽʽMassulʼʼ,
ripetei ipnoticamente. Avevo chiuso gli occhi e restavo in piedi.
Immobile. Muto. Li riaprii e presi a vagabondare come in trance fra
quella sorta di pianura in movimento ondulata di corpi maschili
fetidi, mezzo imbacuccati in vecchie camicie, maglie di lana con
scritte inglesi, varie coperture di chi sa quali tessuti e origini,
bicchieri rotti, bottiglie di plastica, pentolini e piatti sporchi,
cicche spente.
A
quel punto mi misi la mano nell’altra tasca dei jeans e capii,
perché su un pezzo di carta era scritto così:
Tutto
questo finirà SOLO se manderai al seguente indirizzo di posta
elettronica una mail, contenente i codici per aprire il tuo conto
bancario delle Cayman. Preleveremo i venti milioni di dollari che ci
sono e tu tornerai subito libero e ricco.
Di
milioni ne avevo altri trenta sistemati altrove, ma l’idea di
cedere al ricatto non mi sfiorò neanche il cervello.
Nei
due giorni a seguire fu proprio come mi aveva spiegato il
giovane-vecchio: dieci ore al giorno di raccolta pomodori e due pasti
collettivi in quel capannone. Risposi male al capetto italiano – o
per meglio dire a uno dei cinque sorveglianti armati che vigilavano
su di noi mentre coglievamo – e mi presi una scarica di legnate.
Il
terzo giorno scappai dall’isola – clandestino sul traghetto. Mi
recai con mezzi di fortuna all’Ambasciata siriana di Roma, ma non
potendo dimostrare la mia vera identità venni cacciato a male parole
dall’usciere. Su un giornale lessi che la mia settima moglie Amina,
già tornata in Siria, mi stava cercando; diceva che, colto da
amnesia, mi ero perso una notte fra i vicoli di Taormina. Amina non
aveva fornito alle autorità il mio ritratto, o forse lo avevano
pubblicato un altro giorno. Ed io ero privo di soldi e documenti. Il
numero di telefono riservato di Amina non me lo ricordavo perché era
rimasto nella memoria del mio cellulare sparito. Insomma: impossibile
rientrare in patria. E se era in atto una congiura forse, a farmi
riconoscere, sarei stato anche ucciso. Così vagai per l’Italia
arrangiandomi con mezzi legali e illegali. Inseguito dal terrore di
fare incontri strani e appunto spesso facendoli. Ho preso più botte
in questi mesi per strada che in tutta l’infanzia da quel violento
di natura che veniva chiamato il
mio precettore.
Ed ora eccomi qui a mangiare con te, caro mio...»
«Non
prendertela, Aziz, ma come faccio a crederti?», commenta l’alto e
magrissimo Giovanni detto il Genovese, i lunghi capelli ormai
bianchi. Tace perplesso, nella mensa piazzata come un indesiderato
fungo velenoso al centro del quartiere benestante, in periferia della
grande città lombarda. Tra gente che discute, litiga, canticchia e
altra che tace rabbiosa o dorme con la faccia poggiata sul tavolo,
Giovanni prende a pulirsi serenamente la bocca sottile. Ha una
perenne smorfia. Il naso storto. Senza più guardare l’amico
siriano, inizia a sbucciare una grossa arancia.
«Anche
questa proviene dal Sud... come te Aziz... ma lei, anche se si chiama
tarocco, non è taroccata come la storia che m’hai appena
recitato... vecchio scarpone. Capisci cosa significa? Ce li avete gli
anfibi militari che sparano panzane, in Siria?»
«Va
be’ non posso dimostrarti niente. Niente di oggettivo. Ma è la
pura verità».
«E
allora dimmi: se le cose stanno come dici, perché diamine, dopo
oltre due mesi, sei ancora qui a... a mangiare minestrone di verdure
sciapo, pane gommoso e frutta irrorata di antiparassitari o scartata
dai coltivatori? Perché non sei tornato da quelli con i... insomma
da quelli come
te?
E chi è stato a conciarti così... chi c’è dietro?»
«Intendi
chiedermi se ho sciolto l’enigma. Lo vuoi proprio sapere?»
L’italiano
annuisce convinto.
«...e
dunque va bene», proclama Aziz compiaciuto, «ma non subito. Domani,
venticinque settembre Duemiladiciotto, refettorio dei poveri di
Milano Nord, ore tredici: grande festa, con tricchetracche, petardi e
stelle filanti per la fine, anzi per il seppellimento della
mia storia! Ora però lasciami andare ché ho una cosa urgente».
I
due uomini di mezza età si salutano con un cenno.
Ma
guarda tu – pensa Giovanni rimasto solo al tavolo – che roba! E
mi sento pure rodere l’anima dalla curiosità! Cosa ti va a
inventare per mettersi in mostra... lo spacconcello...
Eppure
qualcosa, del racconto, potrebbe esser vero... magari un venti per
cento: che sin da piccolo ha studiato l’italiano. Lo domina
straordinariamente bene. Meglio di me che sono nato... son nato a
Marassi in mezzo a gente che conosceva solo il dialetto... e le
manette. Sorridendo si accende una sigaretta; a qualche metro una
vecchiona panciuta – la nicotina diffusa persino sui capelli –
gli manda un insulto che Giovanni trascura. Le lancia un’Emmesse.
Con un infinito sorso si scola l’intero bicchiere di vino bianco e
riprende il filo dei pensieri: sono stato ad ascoltarlo, quel
siriano, come non facevo neanche con la maestra Gianna in seconda
elementare; e dire che l’avrei conosciuto – guarda l’orologio a
muro – solo sei ore fa a colazione. E ci son rimasto a pranzo anche
se mi aveva invitato mia sorella. Così, oltre ad aver saltato i suoi
bei tortelli ripieni al prosciutto, ci dovrò pure litigare per non
averla avvisata. Ah, son proprio un credulone. La vecchiaia è così,
ma pure quell’Aziz ne avrà pochi meno di me... metti sessantadue
anni dài.
Un
attimo: ha detto che quando, due mesi fa, è giunto a Portofino ne
aveva da poco compiuti cinquantotto. Insomma appena messo piede in
Italia che ti va a combinare, a credergli ciecamente, il nobile
annoiatissimo Aziz – uno che un attimo prima avrebbe lasciato a
Damasco un harem di otto mogli, portandosene dietro soltanto una per
non insospettire le altre che, sapeva lui, l’avevano incaricata di
sorvegliare il comune marito affinché, nella immorale libera ed
erotica terra europea, egli non facesse troppe scappatelle? Che fa
dicevo Aziz?
Va
a farsi fregare da un anonimo personaggio che lo vuole derubare. E
che per farlo con comodo lo mette nei pasticci.
Mmm...
fingiamo di credergli va’. Dovrei dedurre che chi ha ordito
l’intera trama sia qualcuno che è riuscito a venirgli
vicino, moltovicino.
Mettiamo qualche italiano, non ricchissimo ma ben inserito nei giri
dei potenti. L’arabo lo aveva incontrato durante il viaggio senza
farci caso: uno dei tanti che gli stringevano la mano e che poi è
riuscito a eliminare le guardie del corpo e ad isolarlo in maniera
duratura... oppure... malavitosi in combutta con qualcuno che lo
aveva puntato già da tempo in Siria: un clan avverso. O addirittura
un parente: uno dei suoi sei figli, il minore... come mi ha detto che
si chiamava... ecco: Rashid –
il
più trascurato da Aziz – che oltre al rapimento-beffa ha tentato
anche il ricatto per un mero calcolo: una volta dichiarato il padre
morto presunto all’estero avrebbe comunque ereditato (e infatti ha
ereditato o sta per farlo) ma molto meno di venti milioni di dollari,
dovendo dividere la torta con i cinque fratelli. Mah...
La
mattina successiva, Giovanni, come promesso, si presenta alle tredici
al solito tavolo della mensa di carità. Ma Aziz non c’è. Solo una
lettera chiusa, che gli viene consegnata dal cuoco che serve i
secondi piatti, quello coi baffi alla Saddam: «Sei tu Giovanni di
Genova? Questa te la manda l’arabo. Dice che è dovuto andar via e
ti saluta».
Nella
busta una serie di foglietti di agenda tascabile, una decina di
parole ciascuno, recitava quanto segue:
Caro
Giovanni,
prima
di tutto ti chiedo di bruciare questa lettera subito dopo averla
letta.
Quando
la riceverai, io sarò già all’aeroporto di Malpensa, in attesa
del volo per Damasco dove finalmente rincontrerò Amina. La più
amata delle mie mogli.
Come
immaginerai, ho or ora ceduto al ricatto di cui ti avevo riferito.
Anche
se ho capito che era stata proprio lei ad organizzare tutto insieme
alle mie quattro guardie del corpo, che in quella discoteca di
Taormina mi hanno drogato rapito e spedito in mezzo agli emigranti,
preferisco che si prendano i miei venti milioni di dollari e mi
restino vicino, amandomi sino alla morte. Una morte che sarà di
vecchiaia e non solitaria, ne sono certo, solo se dirò chiaro e
tondo ad Amina che sì, so tutto, non sono un idiota, ma le giuro
solennemente che i nostri rapporti, se lei lo vorrà, continueranno
come se niente fosse mai successo. Niente mai.
Cosa
mi spinga ad agire così, ti chiederai, quando potrei metterli tutti
al muro.
Ecco,
è stato per me importante capire che dietro le nostre naturali
cecità avidità e falsità è nascosta, sempre pronta a scattare, la
vendetta di una giusta Nèmesi, alla quale spetta riequilibrare
l’iniquo dare e avere del mondo degli uomini. Una dèa, quella, che
ora devo comunque ringraziare per non avermi voluto uccidere in
punizione della mia atavica, profonda e immutabile ipocrisia,
aggravata dalla ricchezza materiale.
Insomma:
ho pagato alla dèa quel che le dovevo per poter spezzare il circolo
vizioso della mia eccessiva potenza. Punto.
Aziz
(Sergio
Sozi ©2017)
Racconto che induce alla riflessione...
RispondiEliminaGiovanna