Figli di terracotta di Katia Debora Melis
“Perché
è bugiarda la vita?
La
tua mente fragile e offesa
non
lo capirà.”
È
poesia da leggere e assaporare lentamente, questa di Katia Debora
Melis, un lungo e articolato percorso emozionale alla ricerca del
senso dell’umano esistere tra le pieghe sbiadite del nostro tempo;
orfano di farfalle e ladro di sogni, quest’ultimo ha il respiro
affannato di un vecchio quartiere, dove viviamo l’ergastolo dei
giorni dal soffitto pulsante di stelle.
Ci
si sente davvero al centro di questi versi che si succedono ora brevi
e lapidari, ora più lunghi e indugianti sul mondo “che
non conosce più equilibrio di stagioni”;
e noi, che in esso abbiamo radici, siamo quei figli di terracotta la
cui nascita viene mirabilmente fissata in “Genesi”, affascinante
ed evocativo incipit della silloge:
“Quando
il Sole
ha
ingravidato la Terra
è
diventato padre di tutti i padri
e
la Terra, forte,
si
è lasciata plasmare.
Nacquero
figli di terracotta.
Siamo
noi.”
Niente
di più fragile, dunque, niente di più caduco – e, sotto certi
aspetti, meno nobile – della natura umana, soggetta di per se
stessa a smarrirsi e incrinarsi tra le burrasche della vita.
Attraverso
una poetica matura e sapiente, ricca di immagini suggestive,
l’autrice ci conduce tra squarci di contemporaneità e note di
profondità intimistica. Desolante lo scenario della società
attuale: “Regna/
il lamento/ ovunque. […] L’immagine leggera del sorriso/ vola
via/ dissolta dalle ombre/ cariche di lacrime/ degli occhi del
mondo.”
I
colori dominanti non sono quelli luminosi della bella stagione, ma
quelli cupi e opachi d’autunno e inverno perenni; si vaga così tra
le parole cariche di disorientata sofferenza, sperando in uno
spiraglio di primavera forse inesistente o cercando, per via
artificiale, un “piccolo
germoglio di sereno”.
Manca il calore del sole a dipanare quelle ombre pesanti che sono i
pensieri, mentre il dolore, come ci confida amaramente una delle
liriche più belle, diviene un’immensità in cui non è semplice
ritrovare il sorriso affinché si possa dare gioia autentica agli
altri senza dover più fingere. Anche il tema della falsità e quello
conseguente dell’accorato bisogno di sincerità risultano presenze
tutt’altro che marginali nella scrittura della Melis: “Perché
è bugiarda la vita?”
E
se la vita ci racconta le proprie menzogne, la poesia, tuttavia, non
tace le sue verità. Essa è spudorata, non meno scandalosa, e chi da
sempre le dà voce, il poeta, è simile a un anonimo soldato, armato
soltanto di vecchie e nuove parole e impegnato su innumerevoli
fronti. Molte saranno ancora le battaglie e le guerre da combattere.
Pertanto, oggi più che mai la poesia, che in fondo parla di quell’io
senza tempo né luogo che siamo tutti noi, è chiamata a non
rinunciare alla sua schietta spudoratezza, ai suoi voli surreali,
alla speranza stessa ch’essa racchiude in sé.
Pubblicata
lo scorso anno dalla casa editrice calabrese Thoth, la silloge “Figli
di terracotta” è veramente splendida: “una scrittura così
squisita e profonda”, come scrive Lorenzo Spurio in chiusura della
sua attenta e approfondita prefazione all’opera, alla quale
accostarci per riflettere sul nostro tempo e la società che siamo,
magari imparando a camminare con passi leggeri su questa nostra
martoriata terra desiderosa di vivere una nuova stagione, “come
se volassimo/ radenti/ sull’acqua.”
Laura
Vargiu
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