domenica 23 giugno 2013

Il matrimonio di Antonia Infante, di Renzo Montagnoli


La donna come un oggetto, da utilizzare a proprio piacere e in ciò vi è l’origine di tanti femminicidi.

Questo racconto non parla di una femmina uccisa, ma del suo tentativo di riscatto, con l’amore per un figlio sfortunato come lei.

 

 

 

                                                     Madre e figlio, di Gustav Klimt
 

 

 

Il matrimonio di Antonia Infante

 

di Renzo Montagnoli

 

 

Antonia si abbandonò sulla sedia, affranta, distrutta. Quella giornata la casa era risuonata come non mai di decine di voci, parenti di cui ignorava l’esistenza erano venuti da luoghi anche lontani, tutto un susseguirsi di frasi, per lo più di circostanza, che l’avevano confusa e tramortita. E come se non bastasse, davanti al feretro, Giovanni e Giuseppe, i due figli gemelli, avevano cominciato ad accapigliarsi per mettere le mani sull’eredità, su quella vecchia casa colonica e sul circostante fazzoletto di terra da cui anni prima avevano voluto andarsene per sporcarsi le mani nelle industrie della città. Non l’avevano nemmeno guardata, come se lei non fosse quella che li aveva generati: un’estranea, o peggio una persona senza il minimo valore.

Ora che tutto era finito, che il marito riposava nel piccolo cimitero del paese, Antonia guardava smarrita le pareti annerite della cucina, la fila delle pentole di rame appese al muro, le mosche che ronzavano sui vetri, mentre l’ultima luce del giorno rischiarava a malapena l’ambiente, in un gioco di chiaroscuri, esaltando ancor di più quel senso di solitudine che si sentiva addosso.

- Giacomo – chiamò, cercandolo con lo sguardo fino a quando non lo vide rincantucciato in un angolo, assorto, con quei suoi occhi che sembravano smarriti.

- Giacomo! – gridò nuovamente, ma il ragazzo non rispose.

Allora si portò le mani alla testa, le impresse sui capelli troppo presto imbiancati e nel buio incipiente la sua mente corse al ricordo.

 

- Vedi Antonia, ragazza mia, la tua non è una bella situazione.

Credimi, spesso a voler far di testa propria, si finisce con lo sbagliare. Capisco che certe cose non fanno piacere, che tuo padre non avrebbe dovuto toccarti, né farti certe cose, ma tu, invece che dirlo solo a me, sei andato a spifferarlo al maresciallo e così adesso tu e la tua famiglia ne pagate le conseguenze. E poi, il peccato più grave che hai commesso, e che Dio ti possa perdonare, è l’esserti liberata anzi tempo di quella creatura che portavi in grembo.

- Padre, e che avrei dovuto fare? Tenermi il frutto di una violenza?

- Tutto quello che accade è nel segno del Signore e ti dovevi rassegnare; invece, adesso, tu e i tuoi otto fratelli siete lì a patir la fame con vostro padre in galera. E tu, che pur saresti in età di maritarti, non troverai qua mai nessuno che ti vorrà per quell’infamia che ti porti addosso.

Antonia stava in silenzio e piangeva.

- Io che sono il tuo parroco e che ti voglio bene ho trovato però la soluzione del problema, l’unica possibile.

Vedi, mi ha scritto il curato di Bertosso, un paesino lungo il Po, per dirmi che un suo bravo parrocchiano, buono, timorato di Dio, una bella posizione economica, dacché gli è morta la madre è rimasto solo e sentirebbe la necessità della compagnia di una donna.

Ha intenzioni serie, serissime, ed è disposto a sposare quella donna. Per via del lavoro non ha tempo di cercarsela e allora ha demandato tutto, saggiamente, al suo pastore. Antonia, credimi, è un’occasione unica! Ce ne dici?

Antonia non rispose, ma pensò alla fame di ogni giorno, agli sguardi di disprezzo della gente del suo paesino calabro, e assentì con il capo.

- Brava, ne ero sicuro, tanto che gli ho già risposto di aver trovato la persona giusta.

E così il giorno seguente, dopo aver guardato per un’ultima volta i suoi fratelli, salì sul treno che l’avrebbe portata al lontano Nord.

Fu un viaggio lungo, sulle strade ferrate di un’Italia che era appena uscita dagli orrori della seconda guerra mondiale e solo dopo una trentina di ore, sfinita, arrivò a destinazione.

Sulla banchina sbrecciata della stazioncina Lui l’aspettava; quando scese dalla vecchia carrozza e si guardò intorno smarrita l’uomo si fece avanti.

- Sei tu Antonia?

- Sì.

- Va bene; seguimi, io sono Angelo.

Non disse altro per tutto il percorso che fecero, a piedi, dal paesino fino alla casa colonica.

Appena arrivarono, Angelo si limitò a indicare una pila di piatti da lavare, poi le si buttò addosso, le strappò le vesti e sul tavolaccio della cucina la fece sua. Non fece in tempo a rivestirsi che cominciarono a piovere gli ordini ”Prepara la cena! Ci sono da mungere le vacche! E così via”.

Si sposarono dopo tre giorni, con una cerimonia semplice, con ben pochi intimi e le parole del prete sul reciproco rispetto le sembrarono l’unica nota stonata di quella funzione.

Poi cominciarono i giorni, tutti uguali: poche le ore di sonno e di riposo, molte, troppe quelle di lavoro. Già all’alba nella stalla, poi di corsa a preparare la colazione per il marito, quindi a faticare nei campi, ad affannarsi intorno ai fornelli, e infine alla sera a subire le pretese del marito, sempre senza nessun rispetto. La domenica poi era peggio del solito, perché lui ritornava dal paese ubriaco e prima di prenderla la picchiava, botte sorde, pugni calati all’improvviso sulla schiena, calci, e, quando si lamentava, quella frase che più di ogni altra cosa la feriva “Taci, pezzente che senza di me moriresti di fame!”.

Nemmeno la nascita dei due gemelli portò qualche sollievo, anzi le cose peggiorarono, perché Giovanni e Giuseppe presero tutto il carattere dal padre e così la prepotenza si moltiplicò per tre.

Quando venne alla luce l’ultimo, Giacomo, Antonia sperò, ma benché diverso dai fratelli, più quieto fin dai primi mesi, alla lunga rivelò un problema tutto suo, con quello sguardo assente, l’assoluto mutismo, la chiusura al mondo. Il medico che lo visitò scosse la testa e disse solo una parola che lei non capì: autismo.

Spesso sembrava che non fosse nemmeno in casa, insensibile a ogni gesto d’affetto, quasi ormai un oggetto.

Gli anni così passarono, senza novità, fino a quando Angelo si ammalò all’improvviso e altrettanto rapidamente se ne andò all’altro mondo.

 

Antonia si scosse dai suoi ricordi di una vita che pensò amaramente che fosse meglio non fosse mai avvenuta. Si alzò, accese la luce e andò allo specchio della credenza. Da fuori giungeva il muggito delle mucche che chiedevano di essere munte, con le mammelle traboccanti di latte. Antonia guardò quel volto segnato dal tempo e dalla sofferenza, si passò le mani sui seni cadenti, chiamò ancora  Giacomo, senza ottenere risposta. Chiuse gli occhi e in quel momento seppe chiaramente che cosa avrebbe dovuto fare. Lasciò la cucina, raggiunse la scala che portava al piano superiore, guardò la trave sporgente e la corda robusta che giaceva lì per terra da tempo immemorabile. Lentamente, con calma, fece il nodo, poi, salita su una sedia, legò la cima alla trave e infilò la testa nel cappio, senza nessuna emozione. Stette un attimo così, chiuse gli occhi, poi diede un calcio allo schienale del suo sostegno; la corda si tese, si serrò intorno alla gola, cominciò a mancare l’aria in una sofferenza crescente. Poi, mentre perdeva i sensi, le sembrò di venir sollevata e che il dolore sparisse del tutto.

Una voce martellava le sue tempie, un suono sconosciuto, un’invocazione ignota, mentre lentamente andava riprendendosi; mani leggere le sfioravano i capelli, le carezzavano le guance, gocce calde le cadevano sul viso.

Dov’era mai? In Paradiso forse? No, dalla molla che le premeva sui reni doveva essere coricata sul vecchio divano.

Tutta era così confuso, tutto era così incredibile che non sembrava vero e il suono martellante poco a poco divenne più comprensibile, era un “mamma” ripetuto con angoscia. Aprì lentamente gli occhi e vide subito il volto disperato di Giacomo che si affannava per aiutarla. Strinse a sé quel ragazzo ritrovato, assaporò il battito del suo cuore, si abbandonò estasiata a quel “mamma” ripetuto ossessivamente e per la prima volta sentì forte il desiderio di vivere.

     

 

     

 

3 commenti:

  1. Un racconto davvero tenero che scava, però, in una realtà ed in una società molto lontana da quella attuale dove l'incesto era quasi un'abitudine familiare. Storie simili si sono ripetute in tutte le realtà territoriali d'Italia e forse del mondo, soprattutto nel mondo contadino. Ma qui è la mancanza di cultura che la faceva da padrona.
    Oggi di questo tipo di donne penso ce ne siano poche perchè le nuove generazioni hanno imparato la lezione e l'alto numero di divorzi, già nei primi 5 anni di matrimoni (65% in Valle d'Aosta) dimostra che la donna sta prendendo coscienza del proprio ruolo e certe situazioini non si ha più vergogna di denunciarle e renderle note ed l'aborto non è più considerato neppure un atto peccaminoso o socialmente riprovevole. Ma mezzo secolo indietro, soprattutto al sud, denunciuare certe situaziuoni voleva significare condannarsi ad una vita di emarginazione e vergogna perchè il costume aveva regole rigide ed ancora oggi, in molte realtà, è lento a modificarsi e il bigottismo imperante, alimentato da certe strane concezioni della religione e della rassegnazione, la fa spesso ancora da padrona ed impone le sue regole.
    Dobbiamo, però, ammettere che l'azione di presa di coscienza della condizione femminile e di parità portata avanti dalle nuove generazioni, spesso con estrema disinvoltura, sta producendo nuove violenze, ma questa volta di senso contrario. Insomma, l'esperienza e la ragione non riescono mai ad individuare una strada di mezzo dove le ragioni di tutti possono trovare la giusta collocazione ed evitare il ripetersi di estremismi nocivi sia alla dona che all'uomo. E c'é la convinzione, molto diffusa nel mondo maschile, che la nuova violenza praticata dalle donne, che prendono e lasciano con disinvoltura, spesso creando sofferenze emotive nei soggetti più sensibili, sia in fondo per l'uomo una "fortuna", un'occasione da non sprecare perchè si ha l'opportunità di "collezionare" una nuova preda ovvero quella di una donna in più da aggiungere alla propria collezione di amplessi goduti, come se l'amore si misura nella quantità di donne portate a letto e non nella qualità di un rapporto, magari unico ma ricco di sentimento e di affetto che possa durare per tutta la vita.
    Chiaramente queste sono realtà diverse, realtà, però, che se esaminate davvero in profondità farebbero emergere il fatto nuovo che in fondo la violenza è sempre tale sia se esercitata dall'uomo che se esercitata dalla donna ed il salto di qualità sta nella evoluzione culturale delle persone e nella crescita della società che dovrebbe ritrovare certi valori sulla famiglia che ormai sono definitivamente persi.

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  2. Sono senza parole, ancora scossa dopo la lettura. E' un racconto, lo so, ma così realistico che va ben oltre la pagina scritta. Questa è la vita, col suo intenso dolore e una complessità difficile da districare.
    Antonia, con un cognome che non credo sia casuale, che rimanda forse ad un figlio rimasto in qualche modo bambino, nonostante probabilmente non lo sia. L'autismo è un disturbo estremamente complesso, lavorando nella scuola sono entrata diverse volte in contatto con ragazzi autistici, è un mondo tutto da scoprire e da capire, nel quale entrare in punta di piedi con grande rispetto e attenzione per evitare di fare errori grossolani.
    La protagonista, una figura struggente nella sua immensa infelicità, sembra aver fallito su tutti i fronti, manipolata da subito da tutte le persone con le quali ha avuto a che fare, il padre, l'uomo "di chiesa", il marito "che la sfama" opprimendola con ogni mezzo, persino i figli, così simili a quel padre "timorato di Dio", eppure, quando sembra che la vita non abbia proprio senso, Antonia scopre incredula di aver costruito qualcosa di bello e di buono, un seme ha dato i suoi frutti proprio in un terreno apparentemente non fertile.
    Un racconto veramente bello. Grazie, Renzo.
    Piera

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  3. Come ha scritto il sig. Santoro questo racconto rappresenta una realtà molto lontana nel tempo; eppure, di casi di matromoni combinati attraverso il prete ne conosco diversi e quasi sempre sono finiti male, nel senso che il marito che compra la povertà della moglie finisce quasi sempre per farlo pesare, pretendendo senza dare nulla in cambio. Questo brano mi ha emozionata perchè ho visto scorrere tutta la vicenda davanti agli occhi, ho sofferto con Antonia e ho gioito quando ha ritrovato la voglia di vivere per amore di un figlio altrettanto sfortunato.
    Bellissimo.
    Agnese Addari

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