Veglia
(Cima Quattro il 23 dicembre 1915)
di Giuseppe Ungaretti
Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Notte in trincea
di Renzo Montagnoli
È
ora un momento di quiete
e
tacciono le armi
dopo
i fragori del giorno.
È
notte e gelo
nel
fango della trincea.
Forte
con
l’aria fresca
che
scende dai monti
é
il lezzo dei cadaveri,
insepolti
e
monito nella terra di nessuno.
Sono
lì a ricordare
di
quanto la vita sia breve,
con
i loro occhi sbarrati,
con
il viso sconvolto dal dolore.
Si
scorgono per un attimo
alla
luce dei razzi
che
salgono in cielo
un
cielo di pietra
impassibile
a tanto orrore.
Ma
nel buio ritrovo me stesso
rivedo
giorni diversi
di
gioia ormai sconosciuta
sento
che se non sono mai stato
come
qui così vicino alla morte
ritorna
impetuoso
il
desiderio di vivere
di
assopirmi in notti stellate
di
risvegliarmi in un’alba di pace.
Da
La pietà
Foto da web
La corsa
di Renzo Montagnoli
Siamo
cresciuti insieme, abbiamo giocato insieme, come quattro fratelli, anche se non
lo siamo, ma soprattutto abbiamo corso insieme.
Qualche
anno di scuola, giusto per imparare che se non hai soldi non potrai mai andare
avanti, e poi a lavorare a tempo pieno nei campi, dall’alba al tramonto a
spigolare, a raccogliere la frutta, a spandere il letame.
Ore di
fatiche, sotto il sole, nel vento, nell’umidità d’autunno, la schiena
dolorante, e tutto per una miseria, per quei pochi centesimi dati subito in
casa, affinché si potesse comprare qualche cosa, sempre poca, per calmare i
morsi della fame.
Ma la
domenica no, non si lavora, e allora tutti insieme a correre sull’argine,
a chi arriva primo. Il premio? L’ammirazione degli sconfitti e questi siamo
sempre noi tre, io Giacomo Pavesi, detto Giacumin, Alfredo Restelli,
detto Fredin e Luigi Asta, chiamato Luisin.
Leprot,
cioè Eugenio Scolti, ha sempre avuto due gambe da corsa, che in un corpo
magro, ma tutti lo abbiamo, perché lo stomaco brontola sempre, fanno
la differenza.
Non ha
mai perso una corsa e ho sempre in mente le sue falcate rapide, i suoi piedi
nudi che sembrano mordere il terreno; è grande Leprot, ma a vederlo adesso
con indosso una divisa militare di almeno una taglia in più sembra uno
spaventapasseri.
Si
accorge che lo guardo e sorride impacciato.
Non è
che a vestiario siamo messi molto meglio, ma per chi ha avuto vestiti di
seconda o terza mano questa è la prima volta che assaporiamo il piacere di un
abito nuovo. Sì, è grigioverde, il taglio è abbozzato, ma è nuovo e,
soprattutto, è nostro.
Che ci
facciamo in questa trincea?
E’ in
corso da tempo una grande guerra contro l’Austria, sembra per riprenderci territori
che però non mi risultano siano mai stati nostri.
Siamo
nell’agosto del 1917, sul fronte dell’Isonzo. Per le troppe vittime è stata
chiamata prima del tempo la nostra classe, il 1898, quella di ferro cantano i
coscritti, ma tutte sono di ferro, mentre le vite sono di latta. Una visita al
distretto, un proforma perché tutti sono buoni come carne da macello, la
vestizione, tre giorni di marcia ed ecco preparati a dovere i rincalzi.
Siamo
arrivati oggi, senza aver mai sparato un colpo di fucile, e già domani ci sarà
un attacco. Se tutto va bene, dopodomani festeggerò il mio diciannovesimo
compleanno. Sì, sono nato il 20 di agosto e la mamma è morta nel darmi alla
luce. Mi hanno detto che era bella e ci credo, perché chi non ha la mamma si
immagina sempre che sia un angelo.
Leprot ha
mamma e papà e otto fratelli, di cui tre in guerra; Luisin non ha più
il papà, morto in miniera in Francia, ed è figlio unico. Forse sarebbe riuscito
a evitare il militare, ma noi siamo tutta la sua vita e non ha fatto niente
perché ci separassero.
Fredin è
il più fortunato, perché ha mamma e papà e un solo fratello, ma ha anche la
morosa, che sposerà a guerra finita.
-
Animo, ragazzi. Domani avrete il battesimo del fuoco. Mi raccomando, saltate
fuori dalle trincee e correte come il vento. Se avrete fortuna, arriverete a
guardare negli occhi i crucchi e per il primo che mette piede nei camminamenti
austriaci il colonnello ha promesso cinque giorni di licenza.
Chi
parla così è il sergente Batossi, che mi sembra un buon uomo, ma che
adesso fissa la punta delle sue scarpe, come se provasse vergogna a raccontarci
una panzanata del genere.
- Beh,
nessuno ha da chiedere qualcosa? Meglio, meglio…
Io
vorrei chiedergli perché rischiare la vita, per chi, per cosa, ma è inutile,
perché quelle sono domande che anche lui rivolge solo a se stesso.
E’
quasi l’alba di questa notte insonne e fra poco inizierà la preparazione
dell’artiglieria, e poi, poi toccherà a noi.
Prima
voglio abbracciare i miei amici, perché potrebbe essere l’ultima volta,
l’ultima corsa.
.-.-.-.-
Il
frastuono è assordante e dai colpi sparati si stenta a credere che qualche
nemico sia rimasto vivo. Nemico, nemico non mi va, son poveri diavoli come noi,
con le stesse paure, con le stesse miserie alle spalle.
Ecco,
il fuoco rallenta, il tiro si allunga, si sentono dei colpi di fischietto, io e
i miei amici ci guardiamo negli occhi: c’è solo la stessa paura.
Il
sergente sale in cima alla trincea, un grido, un Avanti Savoia e anch’io mi
arrampico, arrivo in cima, salto i reticolati e comincio a correre come il
vento. Saranno sì e no quattrocento metri, un’eternità.
Leprot, Luisin e Fredin mi
sono dietro, ai lati, sono per ora il più veloce, sparano, grandinano
colpi, Fredin si porta le mani alla testa e ruzzola al suolo, la sua
morosa dovrà mettersi lo scialle nero, anziché il velo da sposa. Correre,
correre fra buche, detriti, corpi insepolti, Luisin che sembra
incespicare, cerca di riprendere e poi stramazza, a sua madre dopo il padre non
resteranno nemmeno gli occhi per piangere.
I
reticolati nemici si avvicinano, tirano bombe a mano, ma sono
veloce. Leprot recupera, si è quasi affiancato, ma ecco che allarga le
braccia, quasi fa un balzo in aria e ricade senza vita. Questa corsa la vinco io,
ma che conta senza di loro, che senso ha continuare una vita ormai inutile.
Ta ta
ta c’è una mitragliatrice che mi ha inquadrato ta ta ta vedo
quasi la fiamma rossastra che esce dalla canna, sembra un drago che vuole
ghermirmi.
Ta ta
ta non sento più la fatica, e non è come se corressi sulla terra, ma se
volassi; guardo in alto, il cielo è azzurro, tranne una nuvoletta che si
avvicina, e c’è un bel sole, un giorno d’agosto come tanti altri.
.-.-.-.-
Avrebbe
compiuto gli anni il giorno dopo.
Un anno sull’Altipiano
di Emilio Lussu
Editore Einaudi
Narrativa romanzo storico
ISBN
Pagg. 210
ISBN 9788806219178
Prezzo: € 10,50
Considerato
da molti, e non a torto, come un romanzo che nulla ha da invidiare a “Niente di
nuovo sul fronte occidentale “ di Erich Maria Remarque,
differisce da questo sia per l’ambientazione (là il fronte franco-germanico,
qua quello italo-austriaco), sia per la diversa struttura narrativa (più
romanzo quello diRemarque, pur se basato su esperienze personali, più diario
quello di Lussu).
Premetto
che è un bel romanzo, anche se secondo me inferiore a quello del tedesco,
laddove la guerra appare come una mostruosità quasi insita nell’uomo, mentre
nel testo di Lussu, pur mostrando l’orrore di un conflitto, è più marcato
il riferimento a certe decisioni, ad alcuni personaggi (vedasi il generale
Leone) che sembrano imprimere con il loro comportamento un andamento sanguinoso
alle tante piccole battaglie o scaramucce.
Questo
dipende anche dall’andamento quasi diaristico della scrittura, frutto
dell’esperienza diretta dell’autore sull’Altipiano di Asiago dall’estate 1916
alla successiva del 1917.
In
buona sostanza, nel romanzo di Remarque ci si indigna subito per la
guerra, mentre in questo si viene esacerbati dalle azioni stolte di
certi comandanti e solo di conseguenza si arriva a comprendere l’assurdità di
un conflitto.
Comunque
in queste pagine c’è tutto il dramma di una gioventù che in divisa ha servito
il paese nella grande guerra:
la vita
di trincea, i comandanti fuori di testa, gli ordini sbagliati, l’artiglieria
italiana che regolarmente spara sulle nostre linee, gli assalti senza alcuna
utilità, le ore di ozio e la paura delle azioni.
Il
tutto viene descritto con tono distaccato, quasi che l’io narrante,
il tenente Emilio Lussu fosse un semplice spettatore. Infatti, non
c’è bisogno di commenti o chiarimenti, perché la realtà parla da sola.
Considerato
anche lo stile non greve, anzi dinamico, non sarebbe male, anzi sarebbe bene
che fosse presente nei programmi scolastici.
Emilio Lussu nasce ad Armungia, in provincia di Cagliari, il 4 dicembre
1890 e muore a Roma il 5 marzo 1975. Laureato in Giurisprudenza, fu un acceso
interventista nel primo conflitto mondiale, anche se poi dovette ampiamente
ricredersi. Antifascista, e per questo perseguitato, dopo il 1945 si occupò di
politica, orbitando sempre nell’ambito della sinistra. Un anno sull’Altipiano,
il romanzo per cui è giustamente famoso, è stato scritto nel 1938 ed
è stato oggetto nel 1970 di una fortunata riduzione cinematografica, a opera di
Francesco Rosi, dal titolo “Uomini contro”.
Recensione
di Renzo Montagnoli
La paura
di Gabriel Chevallier
Traduzione di Leopoldo Carra
Adelphi Edizioni
Narrativa romanzo
Collana Biblioteca Adelphi
Pagg. 327
ISBN 9788845925672
Prezzo € 20,00
Cui prodest?
Cui prodest? Nel caso
specifico a chi giova la guerra, ed è solo una delle tante domande a cui l’autore
cerca di fornire una risposta. La guerra, questa insensata lotta, quasi sempre
mortale, fra uomini di diversi Stati, è quanto di peggio possa esprimere l’homo
sapiens, dimostrando così di non essere poi tanto sapiens. E non mi si venga
dire che è innata in tutti gli uomini, come invece recita l’infelice aforisma
di Filippo Tommaso Marinetti (La guerra sta agli uomini come la maternità
sta alle donne), perché è assai facile dimostrare il contrario.
L’esperienza di Gabriel Chevallier,
maturata nel corso della Prima Guerra Mondiale, in cui fu anche ferito, è
riportata integralmente in quest’opera (La paura), ma, benché
possa sembrare, e in parte lo è, un romanzo autobiografico, l’autore va ben
oltre, spingendosi in una ricerca psicologica, sociologica e antropologia (un
po’ come ha fatto Primo Levi con il suo bellissimo I sommersi e i salvati). Ed è così che proprio la paura viene vista in tutte
le sue sfaccettature, nelle diverse occasioni e sulla base di esperienze
maturate. In guerra si ha paura di essere uccisi dal fuoco nemico o anche da
quello amico, si ha paura di morire in modo estremamente doloroso, si teme di
finire davanti a un plotone di esecuzione non solo per diserzione, ma anche per
piccole cose, che nella vita di pace sarebbero sanzionate al massimo con
un’ammenda. Si ha paura anche dei gendarmi, pronti a sospingere a fucilate a un
insensato attacco. E dato che questa situazione di acuto timore è sempre
presente, ben presto diventa un’angoscia, una costante e devastante presenza.
E tutto questo per cosa?
Perché uomini che in tempo di pace per lo più sono comparse assoggettate,
impossibilitati a mutare il loro stato sociale, devono vivere nel terrore,
debbono violare il proprio animo naturalmente pacifico per uccidere dei propri
simili? Lo fanno per la patria, almeno ufficialmente, per vendicare un onore
offeso, ma queste risposte, giustamente, non sono altro che la vuota retorica
che viene inculata alle truppe con la cieca obbedienza, con il progressivo
appiattimento della personalità, condizione indispensabile per poter diventare
carne da macello. E allora, a chi giova? Ne beneficiano grandi gruppi
industriali per arricchirsi ulteriormente, politici che sognano di restare
nella storia, come anche ufficiali ambiziosi che, standosene al sicuro,
vagheggiano gloria e promozioni. Di tutto ciò chi combatte e muore non vede
nulla e il suo premio è solo quello di poter tornare un giorno a casa
finalmente in pace, ma distrutto, sia fisicamente che spiritualmente. Sfruttati
nei periodi di non belligeranza, sacrificati spesso inutilmente in una guerra,
gli uomini normali, le cui ambizioni sono quelle di arrivare a fine mese con il
poco salario e di condividere le gioie della famiglia, in un conflitto non
devono più solo fornire la mano d’opera, bensì devono donare interamente se
stessi.
Il pensiero di Chevallier può
a volte anche non essere condiviso, ma resta il fatto che lui è riuscito a
fornire le uniche logiche risposte a non poche domande. Soprattutto si apprezza
il suo pragmatismo che rifugge da soluzioni che spesso sono meramente
retoriche, così come risulta particolarmente gradita la sottile ironia che in
circostanze particolari accompagna la narrazione. Ciò che soprattutto stupisce
però è che riflettendo e anche cercando risposte diverse le sue appaiono le
uniche plausibili, frutto quindi un’attenta e approfondita disamina dei
problemi. Benchè nella
produzione di questo autore l’opera più famosa e fortunata sia Clochemerie , La
paura appare di rilevante
interesse e valore e si può dire che costituisca un unicum nell’ambito
della narrativa sulla Grande Guerra, anche se la sua valenza può essere estesa
a qualsiasi conflitto.
Lo stile è piacevole,
anche se non particolarmente sobrio, e la vita in trincea è descritta con mano
felice; alla piacevolezza tuttavia nuoce una certa propensione a dilungarsi,
una marcata verbosità e ripetitività che si accompagna alle riflessioni. Questo
non è un elemento negativo tale da inficiare l’elevato valore dell’opera, però di
fatto impedisce di gridare al capolavoro, di mettere La paura sullo stesso piedistallo di Niente
di nuovo sul fronte occidentale di
Erich Maria Remarque. È anche la sua
natura ibrida, a metà fra romanzo e saggio, che finisce con l’avere il suo
peso, ma ciò non toglie che ci si trovi di fronte a qualche cosa di mai letto
prima e che alla fine dei conti ci si senta comunque appagati.
Da leggere, ovviamente.
Gabriel Chevallier (3 maggio 1895 –
6 aprile 1969) ha partecipato alla Prima guerra mondiale. Finito il conflitto
svolge lavori di diverso genere e nel 1925 si dedica alla scrittura; con Clochemerle, pubblicato nel 1934 raggiunge il successo. Del 1930
è La paura, frutto delle sue esperienze di guerra sul fronte
occidentale.
Recensione di Renzo
Montagnoli
Due poesie, un racconto, due recensioni, ognuno di questi testi, pur così diversi tra loro, ha in sé alcune cose che li unisce, e non può essere diversamente. L'atrocità di un conflitto micidiale, l'assurdità dello stesso, la morte, tanto inutile quanto crudele, di un'intera generazione di giovani scomparsi senza sapere spesso il perché del loro stare al fronte. Testi che fanno male. Penso alla chiusa della poesia di Ungaretti, a quella del testo "Notte in trincea", lo stupore, in qualche modo, di essere ancora vivi, E poi il racconto, un inizio in cui la corsa è un gioco, un modo per stare insieme, per cementare un'amicizia, e poi una corsa che è una fine, anzi, la fine di tre vite.
RispondiEliminaE ancora, il bellissimo libro di un mio conterraneo, un'esperienza che lascia il segno, a tal punto da sentire l'urgenza di raccontarla e approfondirla.
E infine, un libro in cui si analizza la paura della guerra in tutte le sue sfaccettature. Perché in guerra non si ha paura soltanto del "nemico", che quasi sempre è anche lui "un povero diavolo", come dice il protagonista del racconto "La corsa", ma si ha paura di tutto, perché il sopruso viene anche da chi fa la guerra insieme a noi.
Una bella lettura che lascia tanto amaro in bocca, soprattutto perché la nostra stupidità è tale che niente, e lo vediamo quotidianamente, ha la forza di scalfirla.
Grazie.
Piera