Il
Natale dimenticato
di
Renzo Montagnoli
San
Pietro arrivò trafelato in sala riunioni, si asciugò con una manica
il sudore che gli imperlava la fronte, fece per parlare, ma dalla
bocca uscirono dei suoni disarticolati. Quelli seduti intorno al
tavolo lo guardarono con un’espressione che era un misto di stupore
e di apprensione.
-
Siediti, prendi fiato e poi con calma parli – fu quello che con
voce ferma, ma dolce, gli disse Gesù.
Pietro
non riusciva ad articolare parola e allora gettò sul tavolo,
traendola da sotto la tunica, una copia della Voce del Paradiso, il
quotidiano locale.
In
prima pagina c’era un titolo a caratteri cubitali “ Sulla terra
non si festeggia più il Natale”; tutti lessero avidamente e
appresero che uno studio effettuato nell’arco di una cinquantina di
anni dal noto dottore della Chiesa San Tommaso aveva evidenziato un
progressivo disinteressamento nei confronti della più bella
festività cristiana, ridotta ormai all’occasione per uno scambio
di inutili regali e di non sentiti auguri. La causa di tutto questo?
Quel maledetto consumismo che aveva inaridito gli animi, rendendo gli
uomini avidi solo di denaro e di cose futili e soffocando quel
desiderio di amore e di fratellanza che se pur modesto prima
esisteva.
Ci
mancò poco che San Giuseppe tirasse una bestemmia, anzi era lì per
farlo, ma un’occhiata di Gesù lo zittì appena in tempo; ci fu un
silenzio quasi di tomba, ma poi dal fondo della sala venne un
sommesso brontolio.
- Che
c’è? Se avete da dire qualche cosa, parlate pure – disse Gesù.
Chi,
se pur sommessamente rumoreggiava, era il folto gruppo dei lavoratori
del Natale: il bue, l’asino, le pecorelle, i pastori, i re Magi e
tutti gli altri personaggi che popolano il presepe, ivi comprese la
capanna, la mangiatoia e la stella cometa.
- Corriamo
il rischio di restare senza lavoro, di finire disoccupati, ma
soprattutto di non poter dare agli uomini quel senso di pace e di
gioia che è proprio del Natale – disse il bue.
-
I doni che noi portiamo sono sì per il bambinello, ma è un dono a
tutti gli uomini, é la dimostrazione che per quanto siano di valore,
sono un niente rispetto al dono della nascita di Gesù – sbottò
uno dei Magi.
San
Pietro, che nel frattempo si era ripreso, per quanto ancora con voce
affannata, disse il suo parere: - Caro Gesù, che l’uomo
sia una bestia che non merita salvezza è ormai assodato, ma il
Natale, che proponiamo ogni anno, è una nascita dell’uomo nuovo,
l’invito a un cambiamento radicale, affinchè l’uomo si
accorga di non essere il centro dell’universo e proprio per questo
tenda ad avvicinarsi a piccoli passi alla verità, a una eternità in
cui il suo tempo sulla terra è solo un milionesimo di un battito di
ciglia. Deve capire che il suo percorso in carne e ossa è solo una
prova, per accedere al dopo. E non sono molti quelli che superano
questo test, che noi ricordiamo ai terrestri ogni anno,
appunto con il Natale. Direi di interessare della cosa il capo
supremo.
-
No, non c’è bisogno di scomodarlo – disse Gesù – né intendo
far sentire agli uomini la loro infinita piccolezza. Già tremano per
gli uragani, per i terremoti, per le inondazioni. Dobbiamo solo fare
in modo di ricordare loro il Natale e per far questo ho bisogno di
voi lavoratori del Natale, che per una volta resterete disoccupati.
Al resto penserò io.
Giù,
sulla terra, dicembre avanzava a grandi passi, anzi gli era stato
imposto di correre, così che il Natale arrivasse prima. I giorni, è
il caso di dirlo volavano, tanto che dal 1° dicembre si passò in 24
ore al 13 dicembre; i calendari sembravano impazziti e con loro la
gente che si trovava in difficoltà ad acquistare i tradizionali
regali in un tempo così ridotto. Si cercò una spiegazione di questo
fenomeno, ma senza successo. Sì, gli scienziati parlavano di
un’improvvisa e inspiegabile accelerazione del moto rotatorio della
terra intorno al sole, ma erano i primi a non esserne convinti. Gli
astrologi nel corso di quotidiani spettacoli televisivi allestiti per
discuterne proposero insolite congiunzioni fra gli astri, ottenendo
anche più consensi degli scienziati, ma senza portare prove certe.
L’unico che ebbe un lampo di genio fu un vecchio ubriacone, che fra
un bicchiere e l’altro sentenziò che in questo modo si sarebbe
invecchiati prima. Non fu creduto, perché tanto con quella corsa
senza scopi che aveva da anni contraddistinto l’umanità si sapeva
che la vita sarebbe stata più breve, perché gli sforzi invecchiano
il fisico. Dal 13 dicembre in un lampo si arrivò al 20 dicembre e lì
cominciarono altri problemi. Tutti gli addobbi natalizi costituiti da
super potenti lampade a led si spensero e non ci fu verso di
riaccenderli, eppure la corrente elettrica non mancava. Dalle chiese
e anche dagli ipermercati sparirono di colpo i presepi fatti con
personaggi della più moderna fantasia, e così pure gli alberi di
Natale, tanto che se ne ordinarono delle navi intere in Cina, ma là
venne di colpo a mancare la plastica con cui si costruivano. Ma il
disastro non era completo:notebox, smartphone e ogni altra
diavoleria elettronica che avrebbe costituito la quasi totalità dei
regali smisero di funzionare, o meglio semplicemente non si
accendevano, come del resto quelli già da tempo in mano a lori
proprietari. 21, 22,23, 24! Ecco il 20, nelle sue prime ore notturne,
segnò lo spegnimento delle stelle e con esso della illuminazione
pubblica; le auto non si misero più in moto, così come le
motociclette, e la sera della vigilia la terra fu avvolta
da un buio colossale.
Per
la prima volta gli uomini ebbero paura, perché non capivano quello
che stava succedendo e allora si rintanarono in casa, le famiglie
riunite intorno alla tavola imbandita da ogni ben di Dio, ma
mangiarono di malavoglia e poiché nemmeno i televisori funzionavano
decisero di parlare fra di loro, di raccontare storie antiche, di
Natali ormai quasi persi nel tempo in cui -. dicevano vecchi che
ormai non c’erano più – si respirava un’atmosfera di pace,
un’aria diversa, come se anche loro nascessero assieme a Gesù. Ci
fu più di un bimbo che chiese chi fosse questo Gesù, immaginandolo
magari come un guerriero Ninja, e allora i genitori, con uno sforzo
di memoria, narrarono la sua storia. I bimbi ascoltavano attenti,
avvertivano che questo personaggio nulla aveva a che fare con quelli
dei loro giochi e quando seppero che a ogni Natale si facevano i
presepi, dissero che il prossimo l’avrebbero fatto anche loro. Una
bambina, che guardava il buio fuori dalla finestra, immaginò una
capanna, una mangiatoia con dentro un bimbo, accanto una madre
trepidante, un padre silenzioso, un bue e un asinello e
alcuni pastori che arrivavano con le loro pecore. Le sfuggì una
frase, che più o meno simile, sfuggì alla maggior parte degli
umani: - Che stupidi, a dimenticarci di Gesù.
E
di colpo le luci si accesero nelle strade, le stelle si misero a
risplendere in cielo, attraversato da una calda cometa.
Il
Natale era tornato.
Il
Vecchio, il Nuovo
di Salvo Zappulla
Sotto
le sferzate del vento gelido, la misera baita sembrò
sussultare destinata a cedere, vinta dalla furia devastatrice.
Un’altra ondata violenta, decisa a spazzarla via sbrindellata in
mille frammenti tra le vette candide che solleticavano il cielo, si
infranse contro le assi di legno.
L’anno
nuovo entrò spavaldo, senza bussare, aprendo la porta con una
spallata. Portava con sé l’irruenza propria dei giovani. In
maniche corte, nonostante la tormenta, si guardava intorno con scatti
nervosi, come a cercare un nemico o a stanare una preda.
L’anno vecchio,
accovacciato accanto al camino, in un angolo, con le mani protese
verso la fiamma, ebbe un tremito. Non si voltò, stanco, rassegnato.
Scosse la testa e mormorò a fior di labbra un rituale, una specie di
nenia trenodica.
“E’
scoccato il dardo. Son maturi gli acerbi frutti, si piega lentamente
il ramo. Anche le foglie cadono secche, aspettano
l’altra vita.
E
i racconti attorno al focolare sono diventati ricordi, ricordi che
straziano il cuore. La puntina del grammofono scava solchi
profondi nell’anima e porta alla luce stridenti note di perduta
giovinezza.
Passato
è il tempo. Finito è il tempo.
Quanto
dolore!
La
fiaccola lieve della candela si spegne, inutile attendere, è
arrivata l’ora”.
Poi,
come scosso da un ultimo sussulto vitale, appoggiandosi al suo
bastone, si alzò in piedi: “Sei arrivato! Pensavo di avere ancora
tempo. Pazienza”. Si accarezzò la candida barba, indugiando con
delicata tenerezza.
“Sì,
sono arrivato. Purtroppo per te!”. Una voce come ghigno
beffardo. “Sono arrivato e per te non c’è più tempo!”.
“È
vero, non c‘è più tempo. Tempo… tempo… ”
ripeté dolente l’anno vecchio, come volesse trattenerla
tra i denti quella parola sfuggente.
L’anno
nuovo sorrise compiaciuto.
“Devo
andare. Com’è fuori?” domandò il Vecchio.
“C’è
bufera”.
“Chissà
che freddo!”.
“Non
per me”.
“Sei
giovane tu, hai il sangue che ribolle. Io no, forse non
riuscirò a farcela, malandato come sono, ma non importa”.
“Non
sono giovane, sono Nuovo. Il nuovo! Capito?”.
“È
vero, è vero, non arrabbiarti. Nuovo, vecchio, cosa vuoi che sia. Si
finisce di esser nuovi nel momento stesso in cui si arriva. E nel
medesimo istante si è già vecchi, ti assicuro”.
“Basta.
Vattene!”.
“Vado,
ma tu cerca di essermi degno erede”.
“Degno
erede? Degno erede” gli fece il verso l’altro. “Puah!” e
sputò per terra con tutto il disprezzo di cui era capace. Poi gli
puntò addosso gli occhi carichi di odio, penetranti come lame
roventi, e ringhiò: “Nessuno ti rimpiangerà. Sei stato tra i
peggiori, nessuno ti rimpiangerà. Lo senti il fragore dei petardi?
Giù stanno festeggiando la tua morte. Senti come gridano entusiasti?
Ti scacciano!”.
Il
Vecchio ammutolì. Nel silenzio l’eco dei botti risuonava nitido,
inclemente. Si coprì le orecchie con le mani per non sentire.
“Ingrati!”.
“La
storia ti condanna” lo incalzò l'altro, e provò un piacere sadico
nel vedere l’avversario prostrato, stravolto, senza difesa.
Riuscendo
a trovare un lampo dell’orgoglio antico, l’anno vecchio cercò di
sottrarsi a quello sguardo inquisitore che non gli concedeva tregua.
“Non
è vero!” si ribellò, ma aveva le lacrime agli occhi.
“Al
tuo nome sono legate solo guerre e disastri ecologici… le
barbarie più atroci! Vuoi negarlo?”.
Il
Vecchio si accasciò, ben memore di tutto l’orrore cui aveva dovuto
assistere. La sua voce divenne un’implorazione: “Basta! Basta! Di
quale colpe mi accusi? Gli uomini hanno agito, non io;
sono loro la causa di tutto! Io sono stato solo spettatore
impotente”.
“Vattene!”
gli urlò ancora il nuovo arrivato. “Vattene, non mi fai alcuna
compassione”. Strappò via dal muro il calendario e lo lanciò tra
le fiamme del camino. “Anche questo non serve più ormai, è
vecchio, vecchio come te”.
Lo
sfrattato provò una fitta lancinante nel petto, come se gli avessero
strappato il cuore, raccolse le estreme forze e lentamente si rialzò
avviandosi verso la porta. Prima di abbassare la maniglia si voltò
per l’ultima volta ad accarezzare con lo sguardo la baita che era
stata il suo rifugio, il luogo stesso dove, da sempre, avveniva il
passaggio delle consegne. Un velo di tristezza gli scese negli
occhi umidi di pianto, pensava a quello che era stato, a ciò che era
andato perduto. Se solo gli uomini ottusi avessero avuto un minimo di
buon senso. Bah! A che serviva rivangare il passato? E questo nuovo
arrivato che lo accusava, spietato, tracotante, pieno di
astio. Eh, presto avrebbe capito! Le prospettive non erano
certo rosee. Sì, avrebbe fatto esperienza sulla propria pelle. Non
lo invidiava affatto. Volle dirglielo: “Se è vero che rappresenti
il futuro, non ti invidio. Provo pietà per te e per ciò
che ti attende!”.
Le
cime degli alberi, tormentate dalle folate di vento gelido, si
piegavano ancora in un sinistro lamento. Sapeva che non avrebbe avuto
scampo, ma non gli importava di morire. Oh, fosse stato
solo per quello!
“Aspetta!”
La
voce del Nuovo aveva perduto, improvvisamente, qualcosa della prima
baldanza.
“Aspetta! Spiegami,
prima d’andartene, cosa intendi dire. Credi di
impaurirmi? Cerca di essere chiaro, ti concedo ancora qualche
minuto”. Si smarriva adesso la sua voce, balbettava incerta,
sperduta nei meandri del dubbio.
Come
basta poco a trasformare granitiche certezze in flebili angosce.
Il
Vecchio rinchiuse la porta e con sollievo riassaporò il tepore del
camino, poi disse: “Non è semplice dipanare il filo della memoria,
si rischia di farlo spezzare, è così sottile!”.
“Provaci
lo stesso!” urlò l'altro cercando, maldestro, di
riacquistare l’iniziale spavalderia.
Posando
il bastone e trastullandosi con la barba (come fossero nascosti lì i
ricordi, tra i tanti fili bianchi), il Vecchio inizio a raccontare, a
raccontare, a raccontare…
Quanto
durò quella nenia? Quanto? Chi poteva scandire i battiti del tempo,
lassù, tra le vette ghiacciate che sfidavano il cielo? Forse
l’ululato del vento, che aveva imparato i segreti del soffio
perpetuo? O la notte timida, che aveva ceduto il suo ruolo alla
prorompente vitalità della luce?
Si
sgrovigliava il filo e le parole scorrevano. Si dipanava il filo e le
fiamme del camino sprigionavano bagliori d’incantesimo tra
filastrocche ammaliatrici, delicati sussurri di sirene, fanciulle
dalla pelle di seta e suoni, melodie, arpeggi arcani.
Si
compirà il rito sacrificale e dal mio sangue di vitello sgozzato
rifiorirà nuova vita. Radunatevi folletti dei boschi, danzate per
me, tutti insieme, voi che mi siete stati sempre vicini,
accompagnatemi nell’ultimo viaggio e rendete meno amaro il mio
commiato.
“Adesso
basta!” tuonò il nuovo arrivato. Si sentiva la testa pesante, come
fosse uscito da un lungo sonno, da uno stato di ipnosi.
“Adesso
basta!” e alzò la mano per scacciare quel ronzio molesto ma, con
sgomento, la sentì stanca, priva di forze; anche la voce
che avrebbe voluto imperiosa e possente, risuonò rauca, affannata.
Il
Vecchio riprese il suo bastone, si alzò, si diresse alla finestra e
rimase immobile a fissare la bianca coltre di neve. Gli sembrò di
scorgere qualcosa: un’ombra, una figura agile che si avvicinava a
grandi passi. “Sta arrivando qualcuno” disse a voce alta. L’altro
sobbalzò. “Qualcuno? Come, qualcuno? Cosa ti vai a inventare,
vecchio pazzo”.
“Sì,
sta arrivando! E come marcia spedito! Eh, sono gambe giovani, anzi
nuove”.
“Nuove!
Come può essere? Mi hai ingannato! Ti sei preso gioco di me. Quanto
è durato il tuo racconto? Quanto tempo?”.
“Il
tempo è fiume che scorre verso il mare, indifferente alle nostre
miserie. Anche tu adesso hai le spalle curve e la barba bianca”.
“No!
No!” piagnucolò l’altro tastando sgomento le rughe del viso.
La
porta, sotto la spinta di un’altra spallata possente, si spalancò
ancora ed entrò il nuovo inquilino, mentre a capo chino i due
vecchi si avviavano.
I
loro passi stanchi affondavano sulla neve rendendo pietoso il
caracollare delle spalle ricurve e l’annaspare delle mani nel vuoto
per lo sforzo dell’incedere.
La
luce
24
dicembre anno zero
di Danila Oppio
Le
stelle quella notte, discutevano animatamente su chi dovesse brillare
così tanto, da poter segnalare un grande evento che si stava
verificando sulla Terra.
Avevano
sentito parlottare gli Angeli. Dicevano che sarebbe nato il Figlio di
Dio. Un fatto del tutto eccezionale, tanto che scombussolò non solo
gli Angeli, ma anche tutti gli astri del cielo.
Alla
fine decisero che sarebbe stata Cometa, a tracciare il percorso per i
Pastori e i Magi.
- Vai
tu, realmente noi non possiamo muoverci, stiamo fisse come tante
capocchie di spilli luminosi, a trapuntare il cielo notturno.
Cometa
invece poteva attraversare lo spazio, ed era anche la meglio vestita
di tutte, poiché indossava un lungo strascico luminoso e dorato.
Fu
così che quella notte buia e fredda, nel cielo apparve Cometa, tanto
bella e splendente, che i Pastori rimasero a bocca aperta, ad
ammirarla. Ma lei si fermò, quando vide che dalla Terra, in un certo
paese della Palestina, chiamato Betlemme, s’innalzava una luce più
intensa della sua.
- Chissà
per quale motivo hanno inviato me, se lì c’è tanta luce da
illuminare l’intero Pianeta!
- Ti
ho inviato - disse una voce dall’alto – perché gli sguardi
possano fissare il Cielo, e vedere quanto succede sulla Terra con
altri occhi. Quella che vedi, è la Luce che illuminerà il mondo,
più di tutte le stelle del firmamento.
La
tovaglia di Maratea
di
Adriana Pedicini
Sulla
tavola la tovaglia in canapone di Maratea, su di essa le testine
ricamate di babbo natale al centro scuotevano i berretti
tintinnanti, all’orlo campanule e rametti di pungitopo e nodi rossi
di nastro. Tutto sembrava vivo e non effetto di vivide stampe tra il
luccichio ambrato delle stoviglie.
Nel
tinello, in attesa del pranzo, Mara e Fabrizio, seduti con lo sguardo
puntato al monitor del televisore. Gli altri figli più giovani
avevano preferito trascorrere il Natale in luoghi caldi con gli
amici.
Alla
padrona di casa giungeva in cucina il suono scrosciante della risata
del primogenito che ridiventava fanciullo alle sequenze dei cartoni
animati: la donna notava con disappunto che egli non si stendeva più
come una volta sulla poltroncina di vimini con i piedi poggiati sul
ripiano del cassetto. Sulla poltroncina sedeva la sposa dal volto di
adolescente.
Il
pranzo fu avviato, le pietanze fumanti erano in tavola.
Alla
sinistra del padre sedeva come una volta Fabrizio: era
uomo e bambino.
Per
una mamma i bambini appaiono e scompaiono; i suoi erano
scomparsi..….. non spuntava alcun angolo bianco di buste natalizie
dalle pieghe dei tovaglioli.
Ora,
solo i suoi occhi malinconici di anni ammucchiati le scorgevano
…..lontane, velate dai vapori dietro i vetri color ghiaccio. Solo i
suoi occhi rivedevano i righi incerti delle letterine e i volti
teneri dei piccoli, le sedie di paglia su cui ognuno
all’impiedi doveva recitare la poesia natalizia se voleva il
regalino agognato. Vedeva ancora il bruciore delle guance arrossate
per la vergogna puerile.
Vedeva
ancora sdraiato nella consunta poltrona la sagoma del vecchio padre
dal petto ansimante per il respiro affannoso mentre accarezzava il
gatto fulvo e bianco accovacciato sul bracciolo, il quale non di rado
infastidito gli allungava una zampata graffiandogli la pelle delle
mani.
Gli
orecchi della donna risuonavano ancora della flebile voce
della cara mamma che chiedeva un sorso d’acqua pronunciando il suo
nome dal letto in cui era rimasta immobile per molti anni.
Quel
primitivo legame naturale si era spezzato per sempre, né erano valsi
gli affetti venuti dopo o quelli recentissimi a surrogarli. Il tempo
si era fermato a quell’antica e completa vita famigliare e, se pure
la donna aveva attraversato la vita, l’aveva in realtà appena
sfiorata nonostante le scelte, le azioni o i sentimenti
apparentemente condivisi.
Di
ciò lei non si era mai avveduta, o aveva finto di non avvedersi, ma
il suo comportamento oppresso dalla nostalgia aveva allontanato sia
il marito, che preferiva trascorrere le domeniche nel suo paese natio
con gli amici, sia i figli che entravano e uscivano di
casa senza che lei chiedesse conto di dove andassero e cosa
facessero.
Il
presente era come impacchettato in una scatola da non aprire, la
routine quotidiana era un alienante esercizio di straniamento dal
ruolo di madre e moglie.
Anche
gli eventi importanti della vita dei suoi figli la vedevano più come
spettatrice estranea emotivamente che come parte integrante del
tessuto famigliare. Nessun sorriso e nessuna lacrima, solo sospiri.
Anche
il Natale era vissuto così, da alcuni anni in poi. Un rituale a cui
si sottoponeva in maniera grigia, sbiadita.
Si
sperò che la notizia, comunicata appositamente a Natale, dell’arrivo
di un bebè potesse scuoterla.
Squillò
il telefono. Rispose il capofamiglia: “Antonio, Lorenzo, come
state? Affettuosi auguri. Vi passo Pina”.
“Oh,
Lorenzo, ci hai preceduto. Buon Natale, ti passo Mara e Fabrizio.
Oggi sono con noi”.
-Ho
sognato che era nato un maschietto con gli occhi neri-
furono le uniche parole che proferì dopo la notizia.
“Ma
non sono più mia madre, mio padre. Un Natale in quattro, non più in
sei, non più in cinque- andava
rimuginando da sola in silenzio.
Sedeva
all’angolo del tavolo, verso la porta. Sorrideva tristemente a
Mara, l’esortava a mangiare: ora doveva mangiare per due.
Cercava
di spostarsi sempre più verso l’angolo, per prendere meno posto,
avrebbe voluto che il suo viso sparisse dietro il vapore
profumato delle pietanze e un altro ne apparisse per lei noto e
amato, svanito e rimpianto. Era una madre, ma non aveva la sua.
Gli
sguardi muti a tratti accarezzavano il giovane viso di suo figlio, di
sua nuora - un’altra figlia-.
La
voce aveva toni parchi di allegria.
“Bisogna
telefonare agli zii in America. Glielo abbiamo promesso”.
Se
ne incaricò il marito.
“
Oh,
sì...vi sento benissimo, Merry Christmas e Buon Natale a
tutti, la piccola Sonja come sta? Auguri, auguri! Qui c’è
tutta la famiglia Brambilla, ti passo Pina...Fabrizio...Mara...;
James, cari auguri...grazie,… Bill...il mio amico cane? Sì, sta
bene”.
Fabrizio: ”Sono
l’ultimo, passo e chiudo”.
“Aspetta,
passami Lizzie”
si
precipitò il capofamiglia ad afferrare la cornetta del telefono.
“Lizzie,
il Palazzo di vetro (di New York) è ancora a posto? Se dovesse
muoversi, mandami subito a chiamare...ci penso io”.
A
conclusione della telefonata transoceanica ci fu un attimo di euforia
in una giornata di festa disforica e si brindò.
Lo
spumante forse non era ottimo, tuttavia si brindò. Fu trangugiata
tutta la bottiglia poco alla volta.
Di
tempo ce n’era, non lo avevamo sprecato a parlare tra di noi.
Ognuno aveva dialogato o con la nostalgia o con la delusione o con la
speranza. Il capofamiglia con la noia di sicuro.
Un
altro Natale era trascorso
L’anno
venturo saremmo stati in cinque.
“Bisognerà
lavare la tovaglia, vi sono parecchie macchie” furono
le uniche parole protese verso il successivo Natale.
Pranzo
di Natale fra vent'anni
di
Domenica Luise
Tanto
si ammazzarono gli uni contro gli altri fino a che, in mezzo alle
macerie, rimasero due aspiranti tiranni mondiali: sua
altezza onnipotente Ninuzzo e signora e sua grassezza
onnipotente Bucciabaccia con moglie. Il medio ceto o ciò
che ne era rimasto, divorato dalle tasse, lavorava dal mattino alla
sera e anche la notte, mangiava poco, risparmiava per i figli e
pagava i debiti facendo altri debiti a interessi sempre più alti.
Anche i due tiranni mondiali avevano figlie e figli propri e varie
mogli, conviventi e amanti o amiche, ognuna con altri figli di primo,
secondo e perlomeno terzo letto, ogni figlio aveva altri figli e a
Natale c'era un gran pranzo di famiglia dei due tiranni tutti assieme
felici e contenti, come ognuno di loro affermava.
Sorridendo
dalla testa ai piedi Ninuzzo proclamava
che Bucciabaccia avrebbe dovuto prendere il potere assoluto
e che egli sarebbe diventato il suo più fedele
servitore, ancheBucciabaccia diceva lo stesso
dell'avversario e intanto, nell'ombra, ognuno dei due complottava
alla ricerca di un killer per fare fuori l'altro a qualunque prezzo,
ma quasi tutti i killer erano morti ammazzati e i pochi rimasti si
godevano la pensione in un paese di sole sia pure diroccato, anzi le
pensioni erano due perché ognuno dei tiranni mondiali gliela doveva
pagare se non voleva finire rapidamente come tutti gli altri.
-Possibile
che tu non sia capace di fare fuori quel cretino?- dicevano le
rispettive mogli dal mattino alla sera e anche la notte parlando nel
sonno.
-Cara,
tu sai che non mi posso esporre, il popolo non è scemo come sembra-
rispondevano i mariti rigirandosi i pollici.
-Ma
dov'è questo popolo?
-Bucciabaccia li
ha ammazzati tutti.
-Ninuzzo li
ha ammazzati tutti.
-Sono
rimasti in quattro gatti e perfino malati infetti, che non stanno in
piedi(in realtà era fame).
-Ma
tu sai che malattia hanno?
-Nessuno
può dirlo, hanno distrutto tutti gli ospedali, non ci sono più
nemmeno gli apparecchi per misurare la pressione né per fare le
analisi.
-Io
mi sento benone- dicevano Bucciabaccia e famiglia
allargata.
-Io
mi sento benone- dicevano Ninuzzo e famiglia allungata.
In
televisione trasmettevano ogni cosa che si possa desiderare, sport di
tutti i generi con film di violenza e horror per i signori e ricette
di cucina, moda, belletti e telenovele per le signore, poi c'erano
pure le femmine sportive e i maschi che facevano gli chef, per non
parlare dei giochini con folli guadagni che quasi nessuno
riusciva a portarsi via. L'unico lusso concesso al medio ceto, poiché
pagava le tasse, era l'apparecchio televisivo, che veniva finanche
regalato dallo stato a chi non poteva comprarselo, o sennò come gli
avrebbero raccontato tutto quello che volevano? E che festa quando
nelle stamberghe entrava quello strumento di plastica grigia, i
poveri si mettevano lì davanti e stavano con le labbra penzoloni
anche se dopo un poco gli veniva qualche dubbio.
I
due tiranni mondiali e le loro mogli erano convinti che si sarebbero
sentiti felici se fossero rimasti da soli al comando e non pensavano
più a cos'era successo a Roma ai tempi di Nerone.
Ormai
parlavano quasi tutti una lingua mondiale inglesizzata molto più
semplice, aBucciabaccia questa cosa scocciava non poco,
così decise di rompere gli indugi e, cogliendo l'occasione del
pranzo di Natale, pensò di liquidare il rivale con un coltello da
cucina di quelli che servono per disossare il pollo affinché nessuno
sentisse il rumore degli spari. In quanto a Ninuzzo rubò
una rivoltella a un poliziotto che era morto in un vicolo nella
solita sparatoria, ne cancellò la matricola con una grossa lima che
gli serviva per i suoi lavoretti di idraulico, la caricò e
attraverso un cuscino che fungesse da silenziatore sparò al rivale
proprio nell'attimo in cui gli si avventava contro colpendolo al
cuore con il coltello. E caddero insieme uno sull'altro, subito
accorsero i rispettivi devoti e dopo litigi vari tra parenti e
acquisiti, si formò un comitato democratico per l'elezione
dell'unico tiranno mondiale di cui si sentiva un disperato bisogno
perché finalmente prendesse decisioni e programmasse l'ordine nuovo
di cui tutti parlavano senza sapere cosa fosse. Per verità storica
debbo aggiungere che ognuno dei cinquecentodue parenti aspirava a
diventare il solo padrone con qualunque mezzo, tradimento, arma
bianca o nera che fosse. Fu così che festeggiarono il Natale
quell'anno.
Gli
unici che non si presentarono per ereditare furono Giuseppe, il
falegname, che si diceva in giro fosse discendente , nientemeno,
della stirpe di Davide, e Maria, sua sposa, incinta grossa dopo la
visione di un arcangelo e uno strano annuncio, per chi ci voleva
credere. I due giovani si misero in viaggio perché il re Erode stava
contando tutti i sudditi voglioso di capire quanto potesse spremerci
e anche loro dovevano essere schedati, così lei partorì in una
stalla abbandonata, dietro un masso, alla luce di una stella e si
sentì un vagito vivo e prepotente in mezzo alle sparatorie e alle
umane bugie.
Era
nato anche stavolta. Da sotto le scrivanie e i tavolini sbucarono gli
ostaggi scampati ai massacri e gli portarono quello che avevano:
pane, acqua e un fuocherello.
Una
stella lontano lontano
di
Domenica Luise
Alla
chiusura del forno le davano i pezzi avanzati invece di buttarli
nella spazzatura, la vecchia sorrideva senza denti e ringraziava. Il
garzone del bar, tutte le mattine, le preparava il cappuccino caldo
d'inverno e la granita di limone in estate per una strana seduzione
arguta che emanava da quella cenciosa, per quanto pulita, ma lei non
accettò mai la brioche fresca che egli le offriva, ci si inzuppava
il pane o la pizza della sera prima e socchiudeva gli occhi beata
mormorando: buonissimo! Delizioso. Grazie, Gesù.
Non
sapeva che quel ragazzo pagava di tasca propria la consumazione
perché il proprietario si girasse dall'altra parte e facesse finta
di non vederla.
Adesso
era inverno, quasi Natale, e le era venuta un po' di tosse. Ma io
sono forte, pensò, mi bevo il caffelatte buono del bar col pane e mi
sento subito meglio.
Invece
il dolore nel petto aumentava.
Poi
vado alla mia panchina, ho sonno.
Era
diventata piccina lei, che era stata la cicciona della
famiglia, le spalle accartocciate, le dita dei piedi e delle mani
storte e il fuoco nelle articolazioni. Ricordava l'elegante bastone
del nonno, col pomello d'avorio, e papà e mamma, ancora insieme,
quando cavalcavano ed erano belli, sani, ricchi e felici. Poi la
mamma fuggì chissà dove e chissà con chi e perché e forse era
colpa sua: era lampante che nessuno le voleva più bene, non il
nonno, che non le rivolgeva mai la parola né le sorrideva, non il
papà, che non tornava mai e nemmeno telefonava, non le sue compagne
di studi, che non poteva più invitare in quella casa dove si
divertivano perché era grande come un castello e si mangiava sempre
e se ti portavi via un soprammobile d'argento nessuno ci faceva caso.
Ormai
non sono più grassa pensò infilandosi sotto la panchina, fra
stracci e giornali vecchi. Incominciò a nevicare.
Lei
era dietro i vetri a guardare i fiocchi che volteggiavano, il
caminetto era acceso, il nonno zitto ed era il giorno di Natale. Da
quando la nuora era fuggita non aveva più fatto il presepio. Fuori
qualcuno cantava i cori di sempre, che arrivavano a onde ovattate.
Una
volta era la prima della classe e scriveva poesie, tutti la lodavano.
Natale era un trionfo. Venivano papà e mamma a prenderla fino al
collegio di lusso, in Svizzera, dove studiava.
Adesso
stava sotto una panchina e aveva tutta quella stanchezza.
Qualcuno
passò e buttò rapidamente una borsa di plastica bella grande
proprio lì accanto, sentì che diceva: -Finalmente me ne sono
liberato-, guardò con la coda dell'occhio, era una buona borsa
resistente, che le sarebbe tornata utile e poi si sa, anche da
vecchia la curiosità è femmina, chissà cosa c'era dentro?
Uscì
dal suo posto invisibile e vide che avevano buttato un presepio
completo nuovissimo e bello.
Accarezzò
la Madonna, san Giuseppe e il bambino, gli angeli, i pastori con le
pecore, la lavandaia, lo zampognaro e per ultima la stella, che
perdeva i lustrini bianchi come quella di quando era piccola e le
piaceva sempre toccarla coi ditini curiosi. Poi incominciò a fare il
presepio sulla panchina e vide che aveva le mani blu, ma non le
importava, suonò forte la campana della chiesa, sentì una delizia
strana in corpo e anima.
Aprì
gli occhi e vide che si trovava in un letto vero, pulitissimo e
caldo, al braccio le avevano attaccato una flebo e portava un pigiama
a fiori. Qualcuno mi ha trovata, pensò. Devo ringraziarli, mi hanno
salvato la vita. Forse sono svenuta.
Sentì
che dicevano: appena in tempo.
Girò
la testa, ma non le uscì la voce per chiamare.
Entrò
una ragazza vestita da pagliaccio, con un gran naso rosso e la
parrucca gialla: -Ma non vedete che si è svegliata? Come si sente,
signora? Ci ha fatto prendere una bella paura, per sollevarla ho
dovuto chiamare le forze dell'ordine, sono la sua salvatrice, l'ho
vista io lì per terra, ah, ah, ah, sono vestita così perché faccio
la volontaria qui per divertire i bambini malati.
-Dall'odore
di disinfettante mi accorgo che sono in ospedale e non in paradiso-
rispose lei annusando intorno, tutti risero.
-Stava
facendo il presepio sulla panchina sotto la neve con statuine
rarissime del settecento perfettamente conservate, dove le ha prese?-
le chiese uno che sembrava un carabiniere, così la vecchina gli
raccontò che le avevano appena buttate, le era piaciuta la borsa e
si era messa a fare il presepio come quand'era piccola e il nonno
aveva il bastone col pomello d'avorio e mamma e papà cavalcavano
felici e a Natale c'era un presepio grande, con la stella piena di
lustrini che lei toccava sempre.
I
medici, il carabiniere, le infermiere e la ragazza vestita da
pagliaccio si guardarono perplessi: poverina, vaneggiava.
Il
carabiniere disse: -Lo sa che quelle statuine valgono un patrimonio?
Adesso lei è ricca.
-Allora
posso donare il presepio alla nostra chiesetta perché tutti lo
vedano?- chiese la vecchia signora pensando di tornare alla panchina
e ai suoi stracci per quel poco che le restava, ma:
-E
noi l'ospiteremo- le rispose il prete subito accorso, -la cureremo e
vivrà nella nostra famiglia. Qual è il suo nome?
Tutti molto belli e significativi. BUON NATALE E BUON ANNO a te, Renzo, agli scrittori e scrittrici nonchè ai lettori e lettrici!
RispondiEliminaGiovanna