giovedì 8 dicembre 2016

Natale 2016 - I racconti



Il Natale dimenticato
di Renzo Montagnoli
 
 
San Pietro arrivò trafelato in sala riunioni, si asciugò con una manica il sudore che gli imperlava la fronte, fece per parlare, ma dalla bocca uscirono dei suoni disarticolati. Quelli seduti intorno al tavolo lo guardarono con un’espressione che era un misto di stupore e di apprensione.
- Siediti, prendi fiato e poi con calma parli – fu quello che con voce ferma, ma dolce, gli disse Gesù.
Pietro non riusciva ad articolare parola e allora gettò sul tavolo, traendola da sotto la tunica, una copia della Voce del Paradiso, il quotidiano locale.
In prima pagina c’era un titolo a caratteri cubitali “ Sulla terra non si festeggia più il Natale”; tutti lessero avidamente e appresero che uno studio effettuato nell’arco di una cinquantina di anni dal noto dottore della Chiesa San Tommaso aveva evidenziato un progressivo disinteressamento nei confronti della più bella festività cristiana, ridotta ormai all’occasione per uno scambio di inutili regali e di non sentiti auguri. La causa di tutto questo? Quel maledetto consumismo che aveva inaridito gli animi, rendendo gli uomini avidi solo di denaro e di cose futili e soffocando quel desiderio di amore e di fratellanza che se pur modesto prima esisteva.
Ci mancò poco che San Giuseppe tirasse una bestemmia, anzi era lì per farlo, ma un’occhiata di Gesù lo zittì appena in tempo; ci fu un silenzio quasi di tomba, ma poi dal fondo della sala venne un sommesso brontolio. 
-  Che c’è? Se avete da dire qualche cosa, parlate pure – disse Gesù.
Chi, se pur sommessamente rumoreggiava, era il folto gruppo dei lavoratori del Natale: il bue, l’asino, le pecorelle, i pastori, i re Magi e tutti gli altri personaggi che popolano il presepe, ivi comprese la capanna, la mangiatoia e la stella cometa.
-  Corriamo il rischio di restare senza lavoro, di finire disoccupati, ma soprattutto di non poter dare agli uomini quel senso di pace e di gioia che è proprio del Natale – disse il bue.
- I doni che noi portiamo sono sì per il bambinello, ma è un dono a tutti gli uomini, é la dimostrazione che per quanto siano di valore, sono un niente rispetto al dono della nascita di Gesù – sbottò uno dei Magi.
San Pietro, che nel frattempo si era ripreso, per quanto ancora con voce affannata, disse il suo parere:  - Caro Gesù, che l’uomo sia una bestia che non merita salvezza è ormai assodato, ma il Natale, che proponiamo ogni anno, è una nascita dell’uomo nuovo, l’invito a un cambiamento radicale, affinchè l’uomo si accorga di non essere il centro dell’universo e proprio per questo tenda ad avvicinarsi a piccoli passi alla verità, a una eternità in cui il suo tempo sulla terra è solo un milionesimo di un battito di ciglia. Deve capire che il suo percorso in carne e ossa è solo una prova, per accedere al dopo. E non sono molti quelli che superano questo test, che noi  ricordiamo ai terrestri ogni anno, appunto con il Natale. Direi di interessare della cosa il capo supremo.
- No, non c’è bisogno di scomodarlo – disse Gesù – né intendo far sentire agli uomini la loro infinita piccolezza. Già tremano per gli uragani, per i terremoti, per le inondazioni. Dobbiamo solo fare in modo di ricordare loro il Natale e per far questo ho bisogno di voi lavoratori del Natale, che per una volta resterete disoccupati. Al resto penserò io.
 
Giù, sulla terra, dicembre avanzava a grandi passi, anzi gli era stato imposto di correre, così che il Natale arrivasse prima. I giorni, è il caso di dirlo volavano, tanto che dal 1° dicembre si passò in 24 ore al 13 dicembre; i calendari sembravano impazziti e con loro la gente che si trovava in difficoltà ad acquistare i tradizionali regali in un tempo così ridotto. Si cercò una spiegazione di questo fenomeno, ma senza successo. Sì, gli scienziati parlavano di un’improvvisa e inspiegabile accelerazione del moto rotatorio della terra intorno al sole, ma erano i primi a non esserne convinti. Gli astrologi nel corso di quotidiani spettacoli televisivi allestiti per discuterne proposero insolite congiunzioni fra gli astri, ottenendo anche più consensi degli scienziati, ma senza portare prove certe. L’unico che ebbe un lampo di genio fu un vecchio ubriacone, che fra un bicchiere e l’altro sentenziò che in questo modo si sarebbe invecchiati prima. Non fu creduto, perché tanto con quella corsa senza scopi che aveva da anni contraddistinto l’umanità si sapeva che la vita sarebbe stata più breve, perché gli sforzi invecchiano il fisico. Dal 13 dicembre in un lampo si arrivò al 20 dicembre e lì cominciarono altri problemi. Tutti gli addobbi natalizi costituiti da super potenti lampade a led si spensero e non ci fu verso di riaccenderli, eppure la corrente elettrica non mancava. Dalle chiese e anche dagli ipermercati sparirono di colpo i presepi fatti con personaggi della più moderna fantasia, e così pure gli alberi di Natale, tanto che se ne ordinarono delle navi intere in Cina, ma là venne di colpo a mancare la plastica con cui si costruivano. Ma il disastro non era completo:notebox, smartphone e ogni altra diavoleria elettronica che avrebbe costituito la quasi totalità dei regali smisero di funzionare, o meglio semplicemente non si accendevano, come del resto quelli già da tempo in mano a lori proprietari. 21, 22,23, 24! Ecco il 20, nelle sue prime ore notturne, segnò lo spegnimento delle stelle e con esso della illuminazione pubblica; le auto non si misero più in moto, così come le motociclette,  e la sera della vigilia la terra fu avvolta da un buio colossale.
Per la prima volta gli uomini ebbero paura, perché non capivano quello che stava succedendo e allora si rintanarono in casa, le famiglie riunite intorno alla tavola imbandita da ogni ben di Dio, ma mangiarono di malavoglia e poiché nemmeno i televisori funzionavano decisero di parlare fra di loro, di raccontare storie antiche, di Natali ormai quasi persi nel tempo in cui -. dicevano vecchi che ormai non c’erano più – si respirava un’atmosfera di pace, un’aria diversa, come se anche loro nascessero assieme a Gesù.  Ci fu più di un bimbo che chiese chi fosse questo Gesù, immaginandolo magari come un guerriero Ninja, e allora i genitori, con uno sforzo di memoria, narrarono la sua storia. I bimbi ascoltavano attenti, avvertivano che questo personaggio nulla aveva a che fare con quelli dei loro giochi e quando seppero che a ogni Natale si facevano i presepi, dissero che il prossimo l’avrebbero fatto anche loro. Una bambina, che guardava il buio fuori dalla finestra, immaginò una capanna, una mangiatoia con dentro un bimbo, accanto una madre trepidante, un padre silenzioso, un bue e un asinello  e alcuni pastori che arrivavano con le loro pecore. Le sfuggì una frase, che più o meno simile, sfuggì alla maggior parte degli umani: - Che stupidi, a dimenticarci di Gesù.
E di colpo le luci si accesero nelle strade, le stelle si misero a risplendere in cielo, attraversato da una calda cometa.
Il Natale era tornato.




Il Vecchio, il Nuovo
di  Salvo Zappulla
 
 
 
Sotto le sferzate del vento gelido,  la misera baita sembrò sussultare destinata a cedere, vinta dalla furia devastatrice. Un’altra ondata violenta, decisa a spazzarla via sbrindellata in mille frammenti tra le vette candide che solleticavano il cielo, si infranse contro le assi di legno.
L’anno nuovo entrò spavaldo, senza bussare, aprendo la porta con una spallata. Portava con sé l’irruenza propria dei giovani. In maniche corte, nonostante la tormenta, si guardava intorno con scatti nervosi, come a cercare un nemico o a stanare una preda.
L’anno  vecchio, accovacciato accanto al camino, in un angolo, con le mani protese verso la fiamma, ebbe un tremito. Non si voltò, stanco, rassegnato. Scosse la testa e mormorò a fior di labbra un rituale, una specie di nenia trenodica.
 “E’ scoccato il dardo. Son maturi gli acerbi frutti, si piega lentamente il ramo.   Anche le foglie cadono secche, aspettano l’altra vita.
E i racconti attorno al focolare sono diventati ricordi, ricordi che straziano il cuore.  La puntina del grammofono scava solchi profondi nell’anima e porta alla luce stridenti note di perduta giovinezza.
 Passato è il tempo. Finito è il tempo.
 Quanto dolore!
 La fiaccola lieve della candela si spegne, inutile attendere,  è arrivata l’ora”.
 Poi, come scosso da un ultimo sussulto vitale, appoggiandosi al suo bastone, si alzò in piedi: “Sei arrivato! Pensavo di avere ancora tempo. Pazienza”. Si accarezzò la candida barba, indugiando con delicata tenerezza.
Sì, sono arrivato.  Purtroppo per te!”. Una voce come ghigno beffardo. “Sono arrivato e per te non c’è più tempo!”.
È vero, non c‘è più tempo. Tempo…  tempo… ” ripeté dolente  l’anno vecchio, come volesse trattenerla tra i denti quella parola sfuggente.
L’anno nuovo sorrise compiaciuto.
Devo andare. Com’è fuori?” domandò il Vecchio.
C’è bufera”.
Chissà che freddo!”.
Non per me”.
Sei giovane tu, hai il sangue che  ribolle. Io no, forse non riuscirò a farcela, malandato come sono, ma non importa”.
Non sono giovane, sono Nuovo. Il nuovo! Capito?”.
È vero, è vero, non arrabbiarti. Nuovo, vecchio, cosa vuoi che sia. Si finisce di esser nuovi nel momento stesso in cui si arriva. E nel medesimo istante si è già vecchi, ti assicuro”.
Basta. Vattene!”.
Vado, ma tu cerca di essermi degno erede”.
Degno erede? Degno erede” gli fece il verso l’altro. “Puah!” e sputò per terra con tutto il disprezzo di cui era capace. Poi gli puntò addosso gli occhi carichi di odio, penetranti come lame roventi, e ringhiò: “Nessuno ti rimpiangerà. Sei stato tra i peggiori, nessuno ti rimpiangerà. Lo senti il fragore dei petardi? Giù stanno festeggiando la tua morte. Senti come gridano entusiasti? Ti scacciano!”.
Il Vecchio ammutolì. Nel silenzio l’eco dei botti risuonava nitido, inclemente. Si coprì le orecchie con le mani per non sentire.
 “Ingrati!”.
La storia ti condanna” lo incalzò l'altro, e provò un piacere sadico nel vedere l’avversario prostrato, stravolto, senza difesa.
Riuscendo a trovare un lampo dell’orgoglio antico, l’anno vecchio cercò di sottrarsi a quello sguardo inquisitore che non gli concedeva tregua.
 “Non è vero!” si ribellò, ma aveva le lacrime agli occhi.
Al tuo nome sono legate solo guerre e disastri ecologici…  le barbarie più atroci! Vuoi negarlo?”.
Il Vecchio si accasciò, ben memore di tutto l’orrore cui aveva dovuto assistere. La sua voce divenne un’implorazione: “Basta! Basta! Di quale colpe mi accusi?  Gli uomini hanno agito, non io; sono loro  la causa di tutto! Io sono stato solo spettatore impotente”.
Vattene!” gli urlò ancora il nuovo arrivato. “Vattene, non mi fai alcuna compassione”. Strappò via dal muro il calendario e lo lanciò tra le fiamme del camino. “Anche questo non serve più ormai, è vecchio, vecchio come te”.
Lo sfrattato provò una fitta lancinante nel petto, come se gli avessero strappato il cuore, raccolse le estreme forze e lentamente si rialzò avviandosi verso la porta. Prima di abbassare la maniglia si voltò per l’ultima volta ad accarezzare con lo sguardo la baita che era stata il suo rifugio, il luogo stesso dove, da sempre, avveniva il passaggio delle consegne. Un velo di tristezza gli scese  negli occhi umidi di pianto, pensava a quello che era stato, a ciò che era andato perduto. Se solo gli uomini ottusi avessero avuto un minimo di buon senso. Bah! A che serviva rivangare il passato? E questo nuovo arrivato che lo accusava, spietato, tracotante,  pieno di astio. Eh, presto avrebbe capito!  Le prospettive non erano certo rosee. Sì, avrebbe fatto esperienza sulla propria pelle. Non lo invidiava affatto. Volle dirglielo: “Se è vero che rappresenti il futuro,  non ti invidio. Provo pietà per te e per ciò che ti attende!”.
Le cime degli alberi, tormentate dalle folate di vento gelido, si piegavano ancora in un sinistro lamento. Sapeva che non avrebbe avuto scampo, ma non gli importava di morire. Oh,  fosse stato solo per quello!
 “Aspetta!”
 La voce del Nuovo aveva perduto, improvvisamente, qualcosa della prima baldanza.
Aspetta!  Spiegami, prima d’andartene,  cosa intendi dire. Credi di impaurirmi? Cerca di essere chiaro, ti concedo ancora qualche minuto”. Si smarriva adesso la sua voce, balbettava incerta, sperduta nei meandri del dubbio.
 Come basta poco a trasformare granitiche certezze in flebili angosce.
Il Vecchio rinchiuse la porta e con sollievo riassaporò il tepore del camino, poi disse: “Non è semplice dipanare il filo della memoria, si rischia di farlo spezzare, è così sottile!”.
Provaci lo stesso!” urlò l'altro cercando,  maldestro,  di riacquistare l’iniziale spavalderia.
Posando il bastone e trastullandosi con la barba (come fossero nascosti lì i ricordi, tra i tanti fili bianchi), il Vecchio inizio a raccontare, a raccontare, a raccontare…
Quanto durò quella nenia? Quanto? Chi poteva scandire i battiti del tempo, lassù, tra le vette ghiacciate che sfidavano il cielo?  Forse l’ululato del vento, che aveva imparato i segreti del soffio perpetuo? O la notte timida, che aveva ceduto il suo ruolo alla prorompente vitalità della luce?
Si sgrovigliava il filo e le parole scorrevano. Si dipanava il filo e le fiamme del camino sprigionavano bagliori d’incantesimo tra filastrocche ammaliatrici, delicati sussurri di sirene, fanciulle dalla pelle di seta e suoni, melodie, arpeggi arcani.
 Si compirà il rito sacrificale e dal mio sangue di vitello sgozzato rifiorirà nuova vita. Radunatevi folletti dei boschi, danzate per me, tutti insieme, voi che mi siete stati sempre vicini, accompagnatemi nell’ultimo viaggio e rendete meno amaro il mio commiato.
Adesso basta!” tuonò il nuovo arrivato. Si sentiva la testa pesante, come fosse uscito da un lungo sonno, da uno stato di ipnosi.
 “Adesso basta!” e alzò la mano per scacciare quel ronzio molesto ma, con sgomento, la sentì stanca, priva di forze;  anche la voce che avrebbe voluto imperiosa e possente, risuonò rauca, affannata.
 Il Vecchio riprese il suo bastone, si alzò, si diresse alla finestra e rimase immobile a fissare la bianca coltre di neve. Gli sembrò di scorgere qualcosa: un’ombra, una figura agile che si avvicinava a grandi passi. “Sta arrivando qualcuno” disse a voce alta. L’altro sobbalzò. “Qualcuno? Come, qualcuno? Cosa ti vai a inventare, vecchio pazzo”.
Sì, sta arrivando! E come marcia spedito! Eh, sono gambe giovani, anzi nuove”.
Nuove! Come può essere? Mi hai ingannato! Ti sei preso gioco di me. Quanto è durato il tuo racconto? Quanto tempo?”.
Il tempo è fiume che scorre verso il mare, indifferente alle nostre miserie. Anche tu adesso hai le spalle curve e la barba bianca”.
No! No!” piagnucolò l’altro tastando sgomento le rughe del viso.
La porta, sotto la spinta di un’altra spallata possente, si spalancò ancora ed entrò il nuovo inquilino, mentre a capo chino i due vecchi  si avviavano.
 I loro passi stanchi affondavano sulla neve rendendo pietoso il caracollare delle spalle ricurve e l’annaspare delle mani nel vuoto per lo sforzo dell’incedere.



La luce
24 dicembre anno zero
di Danila Oppio
 
 
 
Le stelle quella notte, discutevano animatamente su chi dovesse brillare così tanto, da poter segnalare un grande evento che si stava verificando sulla Terra.
Avevano sentito parlottare gli Angeli. Dicevano che sarebbe nato il Figlio di Dio. Un fatto del tutto eccezionale, tanto che scombussolò non solo gli Angeli, ma anche tutti gli astri del cielo.
Alla fine decisero che sarebbe stata Cometa, a tracciare il percorso per i Pastori e i Magi.
-       Vai tu, realmente noi non possiamo muoverci, stiamo fisse come tante capocchie di spilli luminosi, a trapuntare il cielo notturno.
Cometa invece poteva attraversare lo spazio, ed era anche la meglio vestita di tutte, poiché indossava un lungo strascico luminoso e dorato.
Fu così che quella notte buia e fredda, nel cielo apparve Cometa, tanto bella e splendente, che i Pastori rimasero a bocca aperta, ad ammirarla. Ma lei si fermò, quando vide che dalla Terra, in un certo paese della Palestina, chiamato Betlemme, s’innalzava una luce più intensa della sua.
-       Chissà per quale motivo hanno inviato me, se lì c’è tanta luce da illuminare l’intero Pianeta!
-       Ti ho inviato - disse una voce dall’alto – perché gli sguardi possano fissare il Cielo, e vedere quanto succede sulla Terra con altri occhi. Quella che vedi, è la Luce che illuminerà il mondo, più di tutte le stelle del firmamento.



La tovaglia di Maratea
di Adriana Pedicini
 
 
 
Sulla tavola la tovaglia in canapone di Maratea, su di essa le testine ricamate di babbo natale al centro  scuotevano i berretti tintinnanti, all’orlo campanule e rametti di pungitopo e nodi rossi di nastro. Tutto sembrava vivo e non effetto di vivide stampe tra il luccichio ambrato delle stoviglie.
Nel tinello, in attesa del pranzo, Mara e Fabrizio, seduti con lo sguardo puntato al monitor del televisore. Gli altri figli più giovani avevano preferito trascorrere il Natale in luoghi caldi con gli amici.
Alla padrona di casa giungeva in cucina il suono scrosciante della risata del primogenito che ridiventava fanciullo alle sequenze dei cartoni animati: la donna notava con disappunto che egli non si stendeva più come una volta sulla poltroncina di vimini con i piedi poggiati sul ripiano del cassetto. Sulla poltroncina sedeva la sposa dal volto di adolescente. 
Il pranzo fu avviato, le pietanze fumanti erano in tavola.
Alla sinistra del padre sedeva come una volta  Fabrizio: era uomo e bambino.
Per una mamma i bambini appaiono e scompaiono; i suoi erano scomparsi..….. non spuntava alcun angolo bianco di buste natalizie dalle pieghe dei tovaglioli. 
Ora, solo i suoi occhi malinconici di anni ammucchiati le scorgevano …..lontane, velate dai vapori dietro i vetri color ghiaccio. Solo i suoi occhi rivedevano i righi incerti delle letterine e i volti teneri dei piccoli, le sedie di paglia su cui ognuno all’impiedi doveva recitare la poesia natalizia se voleva il regalino agognato. Vedeva ancora il bruciore delle guance arrossate per la vergogna puerile.
Vedeva ancora sdraiato nella consunta poltrona la sagoma del vecchio padre dal petto ansimante per il respiro affannoso mentre accarezzava il gatto fulvo e bianco accovacciato sul bracciolo, il quale non di rado infastidito gli allungava una zampata graffiandogli la pelle delle mani. 
Gli orecchi della donna  risuonavano ancora della flebile voce della cara mamma che chiedeva un sorso d’acqua pronunciando il suo nome dal letto in cui era rimasta immobile per molti anni. 
Quel primitivo legame naturale si era spezzato per sempre, né erano valsi gli affetti venuti dopo o quelli recentissimi a surrogarli. Il tempo si era fermato a quell’antica e completa vita famigliare e, se pure la donna aveva attraversato la vita, l’aveva in realtà appena sfiorata nonostante le scelte, le azioni o i sentimenti apparentemente condivisi.
Di ciò lei non si era mai avveduta, o aveva finto di non avvedersi, ma il suo comportamento oppresso dalla nostalgia aveva allontanato sia il marito, che preferiva trascorrere le domeniche nel suo paese natio con gli amici,  sia i figli che entravano e uscivano di casa senza che lei chiedesse conto di dove andassero e cosa facessero.
Il presente era come impacchettato in una scatola da non aprire, la routine quotidiana era un alienante esercizio di straniamento dal ruolo di madre e moglie.
Anche gli eventi importanti della vita dei suoi figli la vedevano più come spettatrice estranea emotivamente che come parte integrante del tessuto famigliare. Nessun sorriso e nessuna lacrima, solo sospiri.
Anche il Natale era vissuto così, da alcuni anni in poi. Un rituale a cui si sottoponeva in maniera grigia, sbiadita.
Si sperò che la notizia, comunicata appositamente a Natale, dell’arrivo di un bebè potesse scuoterla.
Squillò il telefono. Rispose il capofamiglia: “Antonio, Lorenzo, come state? Affettuosi auguri. Vi passo Pina”.
Oh, Lorenzo, ci hai preceduto. Buon Natale, ti passo Mara e Fabrizio. Oggi sono con noi”.
 -Ho sognato che era nato un maschietto con gli occhi neri- furono le uniche parole che proferì dopo la notizia.
 “Ma non sono più mia madre, mio padre. Un Natale in quattro, non più in sei, non più in cinque- andava rimuginando da sola in silenzio.
Sedeva all’angolo del tavolo, verso la porta. Sorrideva tristemente a Mara, l’esortava a mangiare: ora doveva mangiare per due. 
Cercava di spostarsi sempre più verso l’angolo, per prendere meno posto, avrebbe voluto che il suo viso sparisse dietro il  vapore profumato delle pietanze e un altro ne apparisse per lei noto e amato, svanito e rimpianto. Era una madre, ma non aveva la sua.
Gli sguardi muti a tratti accarezzavano il giovane viso di suo figlio, di sua nuora - un’altra figlia-. 
La voce aveva toni parchi di allegria. 
Bisogna telefonare agli zii in America. Glielo abbiamo promesso”
Se ne incaricò il marito. 
Oh, sì...vi sento benissimo, Merry Christmas e Buon Natale a tutti, la piccola Sonja come sta? Auguri, auguri! Qui c’è tutta la famiglia Brambilla, ti passo Pina...Fabrizio...Mara...; James, cari auguri...grazie,… Bill...il mio amico cane? Sì, sta bene”.
Fabrizio: ”Sono l’ultimo, passo e chiudo”.
Aspetta, passami Lizziesi precipitò il capofamiglia ad afferrare la cornetta del telefono.
Lizzie, il Palazzo di vetro (di New York) è ancora a posto? Se dovesse muoversi, mandami subito a chiamare...ci penso io”.
A conclusione della telefonata transoceanica ci fu un attimo di euforia in una giornata di festa disforica e si brindò.
Lo spumante forse non era ottimo, tuttavia si brindò. Fu trangugiata tutta la bottiglia poco alla volta.
Di tempo ce n’era, non lo avevamo sprecato a parlare tra di noi. Ognuno aveva dialogato o con la nostalgia o con la delusione o con la speranza. Il capofamiglia con la noia di sicuro.
Un altro Natale era trascorso
L’anno venturo saremmo stati in cinque.
Bisognerà lavare la tovaglia, vi sono parecchie macchie” furono le uniche parole protese verso il successivo Natale.



Pranzo di Natale fra vent'anni
di Domenica Luise
 
 
 
Tanto si ammazzarono gli uni contro gli altri fino a che, in mezzo alle macerie,  rimasero due aspiranti tiranni mondiali: sua altezza onnipotente Ninuzzo e signora e sua grassezza onnipotente Bucciabaccia con moglie. Il medio ceto o ciò che ne era rimasto, divorato dalle tasse, lavorava dal mattino alla sera e anche la notte, mangiava poco, risparmiava per i figli e pagava i debiti facendo altri debiti a interessi sempre più alti. Anche i due tiranni mondiali avevano figlie e figli propri e varie mogli, conviventi e amanti o amiche, ognuna con altri figli di primo, secondo e perlomeno terzo letto, ogni figlio aveva altri figli e a Natale c'era un gran pranzo di famiglia dei due tiranni tutti assieme felici e contenti, come ognuno di loro affermava.
Sorridendo dalla testa ai piedi Ninuzzo proclamava che Bucciabaccia avrebbe dovuto prendere il potere assoluto e che egli sarebbe diventato il suo più fedele servitore, ancheBucciabaccia diceva lo stesso dell'avversario e intanto, nell'ombra, ognuno dei due complottava alla ricerca di un killer per fare fuori l'altro a qualunque prezzo, ma quasi tutti i killer erano morti ammazzati e i pochi rimasti si godevano la pensione in un paese di sole sia pure diroccato, anzi le pensioni erano due perché ognuno dei tiranni mondiali gliela doveva pagare se non voleva finire rapidamente come tutti gli altri.
-Possibile che tu non sia capace di fare fuori quel cretino?- dicevano le rispettive mogli dal mattino alla sera e anche la notte parlando nel sonno.
-Cara, tu sai che non mi posso esporre, il popolo non è scemo come sembra- rispondevano i mariti rigirandosi i pollici.
-Ma dov'è questo popolo?
-Bucciabaccia li ha ammazzati tutti.
-Ninuzzo li ha ammazzati tutti.
-Sono rimasti in quattro gatti e perfino malati infetti, che non stanno in piedi(in realtà era fame).
-Ma tu sai che malattia hanno?
-Nessuno può dirlo, hanno distrutto tutti gli ospedali, non ci sono più nemmeno gli apparecchi per misurare la pressione né per fare le analisi.
-Io mi sento benone- dicevano Bucciabaccia e famiglia allargata.
-Io mi sento benone- dicevano Ninuzzo e famiglia allungata.
In televisione trasmettevano ogni cosa che si possa desiderare, sport di tutti i generi con film di violenza e horror per i signori e ricette di cucina, moda, belletti e telenovele per le signore, poi c'erano pure le femmine sportive e i maschi che facevano gli chef, per non parlare dei giochini con folli guadagni che quasi nessuno riusciva a portarsi via. L'unico lusso concesso al medio ceto, poiché pagava le tasse, era l'apparecchio televisivo, che veniva finanche regalato dallo stato a chi non poteva comprarselo, o sennò come gli avrebbero raccontato tutto quello che volevano? E che festa quando nelle stamberghe entrava quello strumento di plastica grigia, i poveri si mettevano lì davanti e stavano con le labbra penzoloni anche se dopo un poco gli veniva qualche dubbio.
I due tiranni mondiali e le loro mogli erano convinti che si sarebbero sentiti felici se fossero rimasti da soli al comando e non pensavano più a cos'era successo a Roma ai tempi di Nerone.
Ormai parlavano quasi tutti una lingua mondiale inglesizzata molto più semplice, aBucciabaccia questa cosa scocciava non poco, così decise di rompere gli indugi e, cogliendo l'occasione del pranzo di Natale, pensò di liquidare il rivale con un coltello da cucina di quelli che servono per disossare il pollo affinché nessuno sentisse il rumore degli spari. In quanto a Ninuzzo rubò una rivoltella a un poliziotto che era morto in un vicolo nella solita sparatoria, ne cancellò la matricola con una grossa lima che gli serviva per i suoi lavoretti di idraulico, la caricò  e attraverso un cuscino che fungesse da silenziatore sparò al rivale proprio nell'attimo in cui gli si avventava contro colpendolo al cuore con il coltello. E caddero insieme uno sull'altro, subito accorsero i rispettivi devoti e dopo litigi vari tra parenti e acquisiti, si formò un comitato democratico per l'elezione dell'unico tiranno mondiale di cui si sentiva un disperato bisogno perché finalmente prendesse decisioni e programmasse l'ordine nuovo di cui tutti parlavano senza sapere cosa fosse. Per verità storica debbo aggiungere che ognuno dei cinquecentodue parenti aspirava a diventare il solo padrone con qualunque mezzo, tradimento, arma bianca o nera che fosse. Fu così che festeggiarono il Natale quell'anno.
Gli unici che non si presentarono per ereditare furono Giuseppe, il falegname, che si diceva in giro fosse discendente , nientemeno, della stirpe di Davide, e Maria, sua sposa, incinta grossa dopo la visione di un arcangelo e uno strano annuncio, per chi ci voleva credere. I due giovani si misero in viaggio perché il re Erode stava contando tutti i sudditi voglioso di capire quanto potesse spremerci e anche loro dovevano essere schedati, così lei partorì in una stalla abbandonata, dietro un masso, alla luce di una stella e si sentì un vagito vivo e prepotente in mezzo alle sparatorie e alle umane bugie.
Era nato anche stavolta. Da sotto le scrivanie e i tavolini sbucarono gli ostaggi scampati ai massacri e gli portarono quello che avevano: pane, acqua e un fuocherello.



Una stella lontano lontano
di Domenica Luise
 
 
 
Alla chiusura del forno le davano i pezzi avanzati invece di buttarli nella spazzatura, la vecchia sorrideva senza denti e ringraziava. Il garzone del bar, tutte le mattine, le preparava il cappuccino caldo d'inverno e la granita di limone in estate per una strana seduzione arguta che emanava da quella cenciosa, per quanto pulita, ma lei non accettò mai la brioche fresca che egli le offriva, ci si inzuppava il pane o la pizza della sera prima e socchiudeva gli occhi beata mormorando: buonissimo! Delizioso. Grazie, Gesù.
Non sapeva che quel ragazzo pagava di tasca propria la consumazione perché il proprietario si girasse dall'altra parte e facesse finta di non vederla.
Adesso era inverno, quasi Natale, e le era venuta un po' di tosse. Ma io sono forte, pensò, mi bevo il caffelatte buono del bar col pane e mi sento subito meglio.
Invece il dolore nel petto aumentava.
Poi vado alla mia panchina, ho sonno.
Era diventata  piccina lei, che era stata la cicciona della famiglia, le spalle accartocciate, le dita dei piedi e delle mani storte e il fuoco nelle articolazioni. Ricordava l'elegante bastone del nonno, col pomello d'avorio, e papà e mamma, ancora insieme, quando cavalcavano ed erano belli, sani, ricchi e felici. Poi la mamma fuggì chissà dove e chissà con chi e perché e forse era colpa sua: era lampante che nessuno le voleva più bene, non il nonno, che non le rivolgeva mai la parola né le sorrideva, non il papà, che non tornava mai e nemmeno telefonava, non le sue compagne di studi, che non poteva più invitare in quella casa dove si divertivano perché era grande come un castello e si mangiava sempre e se ti portavi via un soprammobile d'argento nessuno ci faceva caso.
Ormai non sono più grassa pensò infilandosi sotto la panchina, fra stracci e giornali vecchi. Incominciò a nevicare.
Lei era dietro i vetri a guardare i fiocchi che volteggiavano, il caminetto era acceso, il nonno zitto ed era il giorno di Natale. Da quando la nuora era fuggita non aveva più fatto il presepio. Fuori qualcuno cantava i cori di sempre, che arrivavano a onde ovattate.
Una volta era la prima della classe e scriveva poesie, tutti la lodavano. Natale era un trionfo. Venivano papà e mamma a prenderla fino al collegio di lusso, in Svizzera, dove studiava.
Adesso stava sotto una panchina e aveva tutta quella stanchezza.
Qualcuno passò e buttò rapidamente una borsa di plastica bella grande proprio lì accanto, sentì che diceva: -Finalmente me ne sono liberato-, guardò con la coda dell'occhio, era una buona borsa resistente, che le sarebbe tornata utile e poi si sa, anche da vecchia la curiosità è femmina, chissà cosa c'era dentro?
Uscì dal suo posto invisibile e vide che avevano buttato un presepio completo nuovissimo e bello.
Accarezzò la Madonna, san Giuseppe e il bambino, gli angeli, i pastori con le pecore, la lavandaia, lo zampognaro e per ultima la stella, che perdeva i lustrini bianchi come quella di quando era piccola e le piaceva sempre toccarla coi ditini curiosi. Poi incominciò a fare il presepio sulla panchina e vide che aveva le mani blu, ma non le importava, suonò forte la campana della chiesa, sentì una delizia strana in corpo e anima.
 
Aprì gli occhi e vide che si trovava in un letto vero, pulitissimo e caldo, al braccio le avevano attaccato una flebo e portava un pigiama a fiori. Qualcuno mi ha trovata, pensò. Devo ringraziarli, mi hanno salvato la vita. Forse sono svenuta.
Sentì che dicevano: appena in tempo.
Girò la testa, ma non le uscì la voce per chiamare.
Entrò una ragazza vestita da pagliaccio, con un gran naso rosso e la parrucca gialla: -Ma non vedete che si è svegliata? Come si sente, signora? Ci ha fatto prendere una bella paura, per sollevarla ho dovuto chiamare le forze dell'ordine, sono la sua salvatrice, l'ho vista io lì per terra, ah, ah, ah, sono vestita così perché faccio la volontaria qui per divertire i bambini malati.
-Dall'odore di disinfettante mi accorgo che sono in ospedale e non in paradiso- rispose lei annusando intorno, tutti risero.
-Stava facendo il presepio sulla panchina sotto la neve con statuine rarissime del settecento perfettamente conservate, dove le ha prese?- le chiese uno che sembrava un carabiniere, così la vecchina gli raccontò che le avevano appena buttate, le era piaciuta la borsa e si era messa a fare il presepio come quand'era piccola e il nonno aveva il bastone col pomello d'avorio e mamma e papà cavalcavano felici e a Natale c'era un presepio grande, con la stella piena di lustrini che lei toccava sempre.
I medici, il carabiniere, le infermiere e la ragazza vestita da pagliaccio si guardarono perplessi: poverina, vaneggiava.
Il carabiniere disse: -Lo sa che quelle statuine valgono un patrimonio? Adesso lei è ricca.
-Allora posso donare il presepio alla nostra chiesetta perché tutti lo vedano?- chiese la vecchia signora pensando di tornare alla panchina e ai suoi stracci per quel poco che le restava, ma:
-E noi l'ospiteremo- le rispose il prete subito accorso, -la cureremo e vivrà nella nostra famiglia. Qual è il suo nome?








1 commento:

  1. Tutti molto belli e significativi. BUON NATALE E BUON ANNO a te, Renzo, agli scrittori e scrittrici nonchè ai lettori e lettrici!
    Giovanna

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