mercoledì 28 maggio 2014

Sentieri di guerra, di Renzo Montagnoli



Foto da web



                                                               
Sentieri di guerra
di Renzo Montagnoli


L'auto si fermò dove terminava la strada militare e iniziava una pietraia scoscesa.
Ne scesero quattro uomini; tre si guardarono all'intorno, mentre il quarto rimase con gli occhi abbassati.
- Signori, siamo arrivati; da qui in avanti vedremo solo trincee, scavate a forza di mani nella roccia carsica, a volte abbastanza profonde, ma altre niente più che dei modesti avvallamenti dove era necessario restare sempre sdraiati. Vi faccio strada.
- Grazie, vada pure avanti lei colonnello; io, il dottore e il mio povero fratello le verremo dietro, ma mi raccomando di procedere piano. Non alza mai gli occhi, ma chissà che con il ricordo di questi luoghi di dolore non possa rinsavire.
Si incamminarono su per l'erta, lungo una traccia di sentiero che procedeva tutto a curve brevi e secche, in un paesaggio quasi lunare e totalmente arido, senza nemmeno il più piccolo filo d'erba.
Arrivarono così a un  rialzo di modesta altezza e dimensione, ma pianeggiante.
- Ecco, vedete dove siamo ora c'era il posto di pronto soccorso, una cosa alla buona, niente più di una baracca, dove il chirurgo e i suoi assistenti prestavano le prime cure; per i feriti lievi non c'era nessun problema, perché bastava un leggero bendaggio e poivenivano rispediti in prima linea. Per gli altri le cose erano diverse: se c'erano speranze di sopravvivenza, venivano un po' rattoppati e successivamente inviati all'ospedale vero e proprio nelle retrovie; se invece erano spacciati, venivano sistemati fuori, distesi sulla barella, insieme agli altri che attendevano la diagnosi del medico, e lì…lì morivano.
- Posso immaginarmi, colonnello, le scene di dolore e di disperazione, a cui avrà forse assistito anche mio  fratello.
- No, signor Fabbri, per quanto si possa sforzare non potrà mai farsi un'idea esatta di quello che era e pure io che combattevo un po' più in là non ho potuto provare l'angoscia della disperazione nell'attesa del verdetto come quando mi ci sono ritrovato con il mio braccio sinistro maciullato, con il sangue che usciva a fiotti dalla ferita e si mischiava a quello degli altri che erano distesi vicino a me. In quei momenti si è fortunati se si è in stato di incoscienza, altrimenti, in mezzo ai pensieri più cupi, si avverte chiaro il gelido respiro della morte, un soffio lieve, ma costante, che passa su quei poveri diavoli per fermarsi sui prescelti.
- Mi vengono i brividi a sentirla dire queste cose e non vorrei mai essere venuto se non fosse per quel tentativo che il Dr. Marra vuol fare per far tornare in sé mio fratello. A proposito, dottore, lei che è esperto e che conosce già il problema per averlo in cura da tanto tempo, si è accorto se ha avuto qualche reazione? 
Il Dr. Marra, luminare di psichiatria dell'Università di Padova, un uomo che aveva evitato la tragedia della guerra perché avanti con gli anni, si limitò a scuotere la testa.
- Andiamo avanti, verso le trincee vere e proprie che disteranno non più di una cinquantina di metri, subito dietro quello sperone roccioso.
Ripresero il cammino e in effetti, dopo nemmeno una decina di minuti, arrivarono a superare il costone di roccia e lì si aprì alla vista uno scenario apocalittico. La guerra era finita da appena un anno e tutto era rimasto come prima, con l'unica differenza che non c'erano soldati, ma i reticolati, in più punti divelti, i cavalli di frisia più avanti se ne stavano ancora là, come un sinistro arredo a dimostrare che i solchi nel terreno erano stati l'opera di centinaia di uomini, che le voragini che si aprivano ovunque erano il risultato dell'impatto dei proiettili d'artiglieria, che le migliaia di bossoli sparsi ovunque costituivano la prova degli altrettanti colpi sparati.
- Queste sono le nostre trincee, poi c'è un tratto semipianeggiante di un centinaio di metri e in fondo ci sono quelle del nemico, talmente vicine dal poter udire a volte il parlottare dei soldati austriaci, ma talmente lontane da raggiungere quando si andava all'attacco che si aveva l'impressione di correre fino in capo al mondo.
Il colonnello si fermò un attimo, guardò meglio il paesaggio come a farsi tornare in mente quel che una volta c'era e ora non esisteva più, poi riprese – Proprio alla vostra destra c'era la compagnia mitragliatrici. Ricorderò sempre quella notte del settembre del1917 quando fu spazzata via in un sol colpo da un proiettile di bombarda: uno solo, senza nessun preavviso, e quelli che stavano là non si risvegliarono più e nemmeno riuscimmo a trovarli. Erano come svaniti nel nulla, scavammo, ma senza risultato: di cinquanta uomini l'unico segno che rimase fu uno scarpone insanguinato. Per ironia della sorte ci fu un superstite, che si era da poco allontanato per raggiungermi al comando, ma che fu ugualmente investito dallo spostamento d'aria, sbattuto di qua e di là, ma senza danni apparentemente gravi: il tenente Mario Fabbri.
Si fermò e guardò l'uomo dagli occhi bassi – Sì, sei stato l'unico superstite, ma da allora non sei più stato tu. Ricordi, Mario?
Non rispose, sempre chiuso in se stesso, ma si poté scorgere chiaramente un battito di ciglia, come se all'improvviso qualche cosa fosse apparso nella sua mente, per poi scomparire pressoché immediatamente.
- Del problema se ne sono subito accorti i medici dell'ospedale militare che l'hanno mandato per le cure del caso alla clinica di Padova, dove appunto lei Dr. Marra l'ha preso in consegna. Non ci sono stati cambiamenti nel suo stato?
- No, mai. Sempre apatico, insensibile al suono delle voci, alle carezze di una mano amica.
Il colonnello si riavviò e, sempre seguito dagli altri, superò la trincea e cominciò a procedere in quella che, in gergo militare, viene chiamata la terra di nessuno.
- La chiamano la terra di nessuno, ma non è così: è la terra dei tanti che l'hanno calpestata, che, dall'una e dall'altra parte, hanno cercato di farla propria, dissodandola con i proiettili di cannone, bagnandola con il loro sangue, seminandola con i loro corpi.
Si gridava “Avanti, Savoia!” e si correva come impazziti, con l'angoscia che ormai aveva vinto ogni umana resistenza e con l'unico scopo di vincere la morte. Qua e là, in questa terra martoriata, affioravano putridi i corpi dei caduti, mani scheletriche uscivano dal suolo quasi a volerci ghermire.
- Mi meraviglio di sentire un militare del suo grado parlare in questo modo e con questi toni.
- Ha ragione, signor Fabbri, perché un soldato di professione deve essere abituato alla guerra e alla morte, ma sotto la divisa c'è sempre un essere umano, con le sue contraddizioni, con le speranze, con le paure, che lo differenziano dalla bestia.
All'improvviso si udì la voce del Dr. Marra – Fermatevi! Mario si è chinato e ha trovato qualche cosa.
Il fratello e il colonnello corsero subito: Mario era in ginocchio, stringeva nella mano qualche cosa e singhiozzava.
- Buon segno - disse il Dr. Marra – Vediamo che cosa ha trovato.
Gli prese la mano e con non poca fatica riuscì ad aprirla, scoprendo una targhetta metallica arrugginita, ma non tanto da non poter leggere quello che vi era impresso:Albert Kaufmann 01256344.
Il colonnello spiegò il significato di quell'oggetto: - E' una piastrina militare di un soldato austriaco; serve a identificare meglio la vittima.
Mario rinserrò il pugno e si asciugò il volto con il bordo della manica, si alzò e sempre a occhi bassi, senza profferir parola, si avviò lunga il percorso donde erano venuti. Superò la trincea, il posto di pronto soccorso, arrivò all'auto e vi salì.
Gli altri, mentre lo seguivano, si interrogavano sul suo comportamento.
Il fratello, in particolare, chiese al Dr. Marra se c'era stato l'auspicato ritorno della coscienza.
- E' troppo presto per dirlo, ma nutro dei dubbi. Almeno avesse parlato, avesse spiegato l'importanza per lui di quella piastrina, si fosse messo a cercare… E invece si è girato ed è quasi corso all'auto. Signor Fabbri, temo che Mario non ritornerà più in sé.
Il colonnello decise di intervenire – Io non mi intendo di queste cose, ma penso che il nostro disgraziato amico abbia ormai lasciato qui da tempo il suo cuore e la sua mente e che quell'oggetto di uno sconosciuto, ma che ha combattuto dove c'era anche lui, rappresenti il legame materiale con questo luogo. Posso sbagliarmi, ma invece è un inizio, è la prova tangibile del ritrovamento della memoria. Certo che lei dottore dovrà lavorare molto e, soprattutto, dovrà esser per lui ciò che da quella notte gli è mancato: la fiducia nel futuro.
- Può essere, colonnello, e se sarà così faremo il possibile per farlo tornare a vivere, lavorando sulla sua memoria e facendogli accettare una realtà che è già passata, un brutto sogno da cui dovremo risvegliarlo.
Arrivarono all'auto e vi salirono, il signor Fabbri e il colonnello davanti, il Dr. Marra dietro accanto a Mario.
L'auto ripartì, sobbalzando sull'acciottolato, in una nube di polvere impalpabile.
Mario, sempre stringendo la piastrina, appoggiò il capo sulla spalla del medico e singhiozzando mormorò – Mai più guerre.
            


2 commenti:

  1. Un racconto asciutto, che non lascia spazio alla retorica per descrivere l’inutile crudeltà della guerra.
    E’ forse uno dei più bei racconti pacifisti che ho avuto la fortuna di leggere.

    Agnese Addari

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  2. Rimane un po' sospeso il finale di questo bel racconto, ed è giusto che sia così. Ci vuole così poco, in termini di tempo, perché i regolari processi della nostra mente si arrestino, ma quanto altro ne occorre perché questa macchina così perfetta possa ripartire!
    Mario deve percorrere un lungo cammino affinché possa ritrovarsi, ma prima di tutto deve trovare al suo fianco qualcuno che veramente creda nel suo recupero, che sappia trasmettergli fiducia.
    Colpisce il fatto che sia proprio il medico ad avere più dubbi, sarà infatti il colonnello a spingerlo nella direzione giusta. Non sempre il più esperto vede con la dovuta chiarezza. Molto interessanti i risvolti psicologici, arricchiscono ulteriormente questo racconto già così coinvolgente.
    Piera

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