Dal silenzio delle campagne
di Ferdinando Camon
Prefazione di Fernando
Bandini
Garzanti Libri
Poesia
Pagg. 118
ISBN 9788811620334
Prezzo € 7,75 (e-book € 4,90*)
·
L’ebook appena uscito ricomprende anche la silloge
ormai introvabile Liberare l’animale
Prima e dopo
Venuto dalle campagne, poiché lì vi è nato da famiglia contadina,
l’ormai inurbato Camon, affrancato dal percorso di studi effettuato e
dall’attività di insegnante che nulla ha a che fare con il mondo rurale, in
un’epoca in cui quella millenaria civiltà dei lavoratori dei campi si è
conclusa, volge lo sguardo all’intorno sui nuovi comparsi (gli agricoltori), ma
anche suscitando il ricordo di un tempo passato e che mai più ritornerà.
Nasce così questa raccolta di poesie, mai cedevoli al lirismo, ma volte,
come è scritto anche nel sottotitolo, a riportare in versi raccontini del mondo
agreste, alla luce anche di nuovi eventi che si innestano in una realtà sorta
forse confusamente, ma che é la civiltà del benessere, in cui non si soffre più
la fame, si fatica meno, ma anche si vive alla giornata, depauperati dalle
radici di un passato e perciò figli di nessuno. È così che l’opera presenta
delle sottosillogi tematiche ( Dagli
allevamenti di tori; Dalle fattorie; Dalle città e dalle periferie),
realizzando in pratica un fine trattato sociologico in versi.
Il substrato, il palcoscenico è quello di un Nord-Est che anni fa faceva
la fame, ma che ora imborghesito si pasce di ricchezza, continuamente
perseguita, in una desertificazione del senso etico da cui nascono nuovi mostri
(stupratori, assassini, serial killer). Se con i suoi primi romanzi, in cui così
bene ha descritto la civiltà contadina e la sua scomparsa, Camon non si era
fatto certo amici al suo paese, con questa raccolta di poesie, radicata in un
territorio più ampio, deve avere accresciuto in modo sostanziale i suoi nemici
e solo per il semplice fatto che raccontare la verità non è per niente facile e
le conseguenze sono sempre di forti contrasti quando questa viene a toccare
qualcuno.
Da quest’opera esce un quadro della grettezza propria dei nuovi
agricoltori, travolti dall’idea di far sempre più soldi, orfani del senso della
famiglia, della religione e anche della patria. E qui non vorrei che qualcuno
pensasse che gli antichi richiami nazionalisti e fascisti di Dio, patria e
famiglia fossero il nocciolo di tutta l’opera, perché si sbaglierebbe di
grosso. Camon non ha un concetto retorico di questi tre stilemi, ma avverte
tangibilmente che l’aver rinunciato a una famiglia patriarcale, dove ognuno dei
componenti era in funzione degli altri, l’aver abdicato al senso pregnante di
una religione rifugio per i propri problemi e maestra di vita, l’aver
circoscritto la patria solo alla propria azienda, mezzo e fine del tutto, non
può che portare a un inaridimento in cui possono albergare tutte le pulsioni
possibili, e soprattutto quelle distruttive ( Da terre sante e assassine: …/ Di lui non sappiamo tutto. / Stuprava le
vittime col pugno / e col calcagno, / faceva cose che i periti / coprono col
segreto, / per paura che l’umanità / sentendole faccia un salto indietro. / ….
E questa poesia, piuttosto lunga, non a caso rappresenta l’epilogo, un monito
con il quale il poeta, in precedenza assai meno drammatico, anzi ironico,
richiama la sua gente - ma che è tutta la gente facente parte della civiltà
post-contadina - a un riesame della propria coscienza, se questa esiste ancora.
E’ forse una conclusione che non
mi aspettavo, anche se logica, ma questo avviene alla luce delle precedenti
poesie venate da un’ironia quasi ludica, in cui difetti e sfregi sono così ben
descritti in versi tanto da ricavare l’impressione che l’autore sia lì davanti
a te, e quindi con un tono conviviale, da moderno cantastorie. E se di ironia
si tratta, credo proprio che comprenda anche una buona dose di autoironia,
un’ancora di salvezza per prendere sul serio, ma non troppo, la vita, come il
personaggio di Il lupo della steppa,
di Hermann Hesse.
Divertono questi versi, ma pungono, piano piano scavano dentro al punto
da chiedersi alla fine come mai abbiamo potuto ridurci così, immemori del
passato, apatici nel presente, incapaci di programmare un futuro che non sia
solo quello di far soldi a ogni costo. Van bene gli sghei, perché quando non ci sono e servono sono dolori, ma ridurre
tutta una vita all’unico valore monetario è sprecarla inutilmente.
Aggiungo che è uscito in questi giorni, edito sempre da Garzanti,
l’ebook Dal Silenzio delle campagne (€
4,90), comprendente anche la silloge Liberare l’animale di fatto
totalmente irreperibile in forma cartacea. L’ambientazione di queste poesie è
sempre il mondo contadino, ma si aggiunge un’ulteriore finalità, rappresentando
una coscienza storica di quanto avvenuto in un ancor non lontano passato. Sono
scampoli di ricordi di vita vissuta, con ritratti anche struggenti, come in Mia madre, oppure versi che straziano, che segnano le
carni, che incidono l’anima come quella che dà il nome all’intera silloge,
dall’immensa profondità e con una chiusa che da sola vale l’intera opera: Non possiamo ancora reagire
al male:/ occorrono interi millenni /
per liberare da noi l’animale. Opera antecedente a Dal silenzio delle campagne, con un
Camon più giovane, non è pervasa dall’ironia di cui ho accennato, anche se a
tratti affiora, ma all’epoca il disincanto era probabilmente solo agli inizi
Da leggere entrambi, non ve ne pentirete.
Ferdinando Camon è nato in provincia di Padova. In una dozzina di
romanzi (tutti pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà
contadina (Il quinto stato, La vita eterna, Un
altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente,Storia
di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata uomo, La
donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con l'arrivo degli
extracomunitari (La Terra è di tutti). È tradotto in 22 paesi.
Il suo ultimo romanzo è La mia stirpe (2011).
Il
suo sito è www.ferdinandocamon.it
Intervista a Ferdinando
Camon per Dal silenzio delle campagne,
edito da Garzanti
Prima di iniziare con le domande
ritengo opportuno informare che proprio in questi giorni è uscita una versione
ebook (epub), sempre a opera di Garzanti, di tutte le poesie di Camon, raccolte
in volume unico, intitolato “Dal silenzio delle campagne dove tornano le
volpi”, che contiene anche la raccolta “Liberare l’animale”, da tempo
introvabile. Quindi, per chi ama questo tipo di pubblicazione elettronica, è
una ghiotta occasione, poiché si ha l’opportunità di leggere due libri riuniti
in un unico formato editoriale.
Ferdinando Camon scrive romanzi,
libri di aforismi, editoriali, e anche poesie, le poesie tanto neglette dal
mondo editoriale. Le scrive e ottiene anche dei premi, come il Città di Bologna
per “Dal silenzio delle campagne” e il Viareggio per “Liberare l’animale”. E’
un fatto raro che un autore sia contemporaneamente di eccellenza nella
narrativa e nella poesia, anche perché troppo diverse sono le strutture dei due
generi; è un fatto raro, ripeto, ma Camon rientra in queste rarità. Tuttavia,
mi viene da chiedere se nell’arco del suo trascorso letterario sia venuto prima
il Camon poeta, oppure il Camon narratore, e con ciò intendo ricomprendere
anche gli anni giovanili dell’immediato dopoguerra. In particolare si è trattato di due percorsi
temporali ben distinti, oppure la creatività per la prosa e per la poesia hanno
proceduto di pari passo?
Anzitutto, non ci tengo che si citino per
me i premi letterari. I premi letterari non sono giudizi, non sono traduzioni,
e non hanno rilevanza critica. Servono soltanto a far circolare un po’ i libri,
e quindi sono graditi agli editori. Come autore, li accettavo ma non li cercavo.
Ho vinto lo Strega, ma non volevo neanche concorrere, è stata la patrona del
premio a fare un viaggio da Roma a Milano, per parlare col mio editore e
convincerlo a farmi partecipare. Ho scritto in “Tenebre su tenebre” che ogni
premio, anche il Nobel, premiando, premia se stesso, cioè cerca un tornaconto.
Lo Strega veniva vinto da dieci anni consecutivi sempre dallo stesso editore,
la patrona era seccata, voleva rinverginare il premio, aveva bisogno di un
editore diverso e separato dagli altri e di un autore isolato e senza potere.
Lesse il mio libro e puntò su di me. Quindi ho vinto lo Strega perché così la
patrona voleva. Se no, l’avrei certamente perso. La Natalia Ginzburg voleva che
vincesse il marito di sua figlia, e si
presentò al Ninfeo con una cinquantina di schede raccolte da lei personalmente.
Perse, ma noi garzantiani non siamo in grado di combattere con queste armi. Per
il Viareggio di poesia ricordo che concorreva anche Franco Fortini, che io
amavo come un padre. Perciò mandai una lettera a ciascun membro della giuria,
Sapegno, Salinari, Repaci, Raimondi, eccetera, per comunicare che mi ritiravo,
non volevo ostacolare Fortini. Ma qui saltò fuori un problema che non
conoscevo. I membri della giuria erano pressoché tutti comunisti ortodossi, del
Pci, mentre Fortini era un comunista eretico, venato di Cristianesimo e
sensibile ai partiti a sinistra del Pci. In breve: votarono me per punire
Fortini. Non ne vado fiero.
Ciò detto, io ho cominciato scrivendo
versi, racconti e saggi, contemporaneamente. Ho pubblicato anzitutto un librino
di versi, da Neri Pozza. Neri Pozza era un piccolo ma prestigioso editore,
stava a Vicenza, e aveva collane di prosa e di poesia in cui ospitava Montale,
Luzi, Zanzotto, eccetera. Erano libretti molto belli. I giornali li recensivano
volentieri. Neri Pozza, naturalmente, non pagava diritti d’autore. Ma, prima di
stampare il libro, mi portò sui colli vicentini, mi offrì un piatto di pasta e
mi disse: “Questo è il compenso, non mi chieda nient’altro”. Lo trovai giusto.
Sapevo della
questione dei premi letterari e immaginavo la reazione, di cui adesso i lettori
verranno a conoscenza. Comunque, mi pare di capire che l’inizio sia stato
plurimo (poesie, racconti e saggi), circostanza che assume maggior valore,
perché all’epoca Internet, su cui veicolarli, non esisteva. Per il resto e
proprio per la poesia c’è il solito problema, cioè non vende, o vende poco, un
problema che si trascina da tempo in un paese di tanti aspiranti poeti che
tuttavia disdegnano di leggere ciò che scrivono altri, magari assai più esperti
e affermati.
Dal silenzio delle campagne mi sembra
che venga dopo i romanzi del Ciclo degli
ultimi, quelli che ti hanno portato, giustamente, la notorietà; là si
parlava della fine della civiltà contadina, mentre in queste poesie siamo già
in epoca ben successiva e mi pare di capire che si voglia rappresentare la
nuova civiltà, che io, forse parossisticamente, preferisco definire inciviltà.
I nuovi agricoltori, subentrati ai contadini, pensano solo a una cosa: al denaro.
E per questo sono disposti a tutto, anche a sorvolare sui gravi torti subiti
durante la guerra. Mi domando e ti domando: questa nuova società ha solo dei
difetti, oppure ha anche qualche pregio, ovviamente se raffrontata alla civiltà
contadina?
Ha anche pregi, naturalmente, e io non li
nego. Quando veniva avanti la nuova civiltà del benessere, Pasolini scrisse il
famoso articolo sul “Corriere”, noto come “Discorso delle lucciole”. Poi lo
incluse, se non ricordo male, nel libro “Scritti corsari”. Termina così: “Io
darei tutta la Montedison per una lucciola”. A volte il mio cervello s’inganna,
pensa che la parola sia “Montecatini”, e indichi la mega-azienda prima della
fusione con la Edison. Ma no, Pasolini dice proprio “Montedison”, la fusione
era già avvenuta. La civiltà dei consumi portò la morte delle lucciole, perché
la nuova agricoltura faceva grande uso di anticrittogamici. E Pasolini vuol
dire che il benessere, la ricchezza, il cibo per tutti, le auto, il
riscaldamento, non valgono la Natura che han distrutto, lui tornerebbe
volentieri alla Natura, tutta la Montedison non vale una sola lucciola. Io gli
ho risposto, più volte e in più sedi, che nessuno la pensa come lui, neanche
fra i contadini, neanche fra i suoi corregionali friulani. Nel treno in corsa
verso la ricchezza anzi i friulani erano “la locomotiva”. Perché il benessere
raggiunto con la distruzione della Natura aveva i suoi premi: case calde, fine
dei geloni sulle dita dei bambini, cibo, fine dell’avitaminosi, televisioni nei
bar, informazione per tutti, fine dell’ignoranza, pulizia, igiene, qualche
vacanzetta, un’auto utilitaria non in ogni famiglia ma almeno in ogni clan di
famiglie, vestiti da festa per le domeniche, viaggi di nozze e non solo
pellegrinaggi. Io resto dello stesso parere. I consumi hanno portato anche del
bene. Nei romanzi dedicati agli “ultimi” io denuncio non il progresso ma il
prezzo del progresso, che ha ucciso una civiltà, e mi fa male che di quella
civiltà non resti nulla. Molte cose bisognava ricordarle. Io le ricordo.
D’accordo, il
progresso non si può fermare, ma si tratta anche di vedere a che prezzo si
progredisce. Certo, nessuno ormai può rinunciare al cibo in quantità più che
sufficiente, al riscaldamento d’inverno e al rinfrescamento in estate,
all’auto, alla vacanza, ma tutto questo ha un prezzo che non è quello monetario
che si deve saldare per fruire di questi benefici, ma è un male in verità assai
subdolo che soffoca i sentimenti con gli interessi, la vita serena con una
frenesia che è sempre presente, che uccide la natura che poi finisce sempre per
vendicarsi con inondazioni, con mali da cui non c’è scampo.
All’epoca della
civiltà contadina le cause più frequenti di morte erano per tubercolosi che
mieteva vittime come oggi il cancro, ma la nevrosi era un malanno sporadico,
mentre ora è imperante. Non sono
comunque uno di quei vecchi brontoloni che vanno blaterando che si stava meglio
quando si stava peggio, ma io constato che ogni epoca, ogni civiltà ha il suo
pro e il suo contro, e che quindi un effettivo progresso non esiste, perché
luci e ombre sempre si ripresentano. Tu non sei uno di quelli che rimpiangono
il passato, però soffri di un po’ di nostalgia per essere stato partecipe di
questa civiltà contadina, complice anche il fatto che ti sei trovato a viverne
la progressiva decadenza. Al riguardo, non credo siano stati il progresso con
la crescente industrializzazione a farla tramontare, penso invece che siano
state due guerre: la prima, che ha posto i prodromi per la seconda, e appunto
questa. Se non ci fossero stati tanti morti, tante distruzione, è probabile che
la civiltà contadina sarebbe durata ancora a lungo, o che comunque la sua
scomparsa sarebbe stata assai più lenta. Che opinione hai in proposito?
Anzitutto, io credo che il prezzo più alto che
paghiamo al progresso sia di ordine morale. Con la morte della civiltà
contadina è morta una famiglia, un’idea di vita, di madre e di padre, di figli,
la presenza dei nonni, un’economia, un’idea di peccato, di morte, di
matrimonio, di sesso, di aldilà e di Dio. Muore un uomo, con tutto quello che
ha dentro. È questo il prezzo. Adesso il
progresso batte alle porte di paesi governati dall’Islam, ma ci sono credenti
nell’Islam che non sono disposti a perdere la loro civiltà (che contiene la
religione) per il nostro progresso. Preferiscono uccidersi o ucciderci. O
tutt’e due. Da noi le campagne sono morte, con tutto quello o tutti quelli che
contenevano, e nelle nuove campagne nascono dolorosamente nuovi uomini. Io
racconto, anche nelle poesie, quella morte e questo dolore. Le guerre hanno
accelerato la morte della civiltà contadina, perché hanno accelerato la
distruzione degli Stati com’erano, la dissoluzione dei confini, le emigrazioni,
la fusione dei popoli. Adesso entrano in contatto, e si fondono tra loro,
popoli che prima ignoravano uno l’esistenza dell’altro. Fa impressione,
passando per le campagne, vedere a mezzogiorno sui campi file di braccianti
islamici inginocchiati verso est, e accanto a loro file di contadini cattolici
che li guardano stupefatti. Molte poesie sono dedicate a questo
incontro-scontro, a questa fusione coatta. Noi vediamo morire un’epoca, non
vediamo nascere l’altra. Possiamo soltanto patire quella morte, non godere
questa nascita. Il senso dell’epoca che attraversiamo è la decadenza.
Noi vediamo morire un’epoca, non vediamo
nascere l’altra. Questa frase
sintetizza lo scoramento proprio di chi si sente orfano di qualche cosa a cui
apparteneva. E’ vero, ciò che è venuto meno è un ordine morale, è finita una
società basata sul sacro valore della famiglia e permeata di una religiosità
quasi ancestrale. L’uomo attuale, con una famiglia disaggregata, non lotta più
per vivere, per affermare, anche se inconsciamente, valori che si portava
appresso da anni e anni, e lo stesso concetto di religione è più formale che
sostanziale. Non è bello dirlo, ma l’uomo
moderno non vive bensì vegeta, incapace di dare un senso al suo presente e
impossibilitato a disegnare una strada per il futuro. È che il cambiamento è
stato troppo repentino e volto a soddisfare solo la sua materialità (cibo,
sesso e successo, tutte effimere mete che segnano la sua sconfitta). Sì, sotto
l’aspetto materiale ci sono grandi e positive differenze, sotto quello morale,
che è indispensabile per un reale progresso, ci sono pure, ma in negativo. A
volte mi chiedo se questa mia visione pessimistica dipenda dall’età, se il
passato, di cui amplificato perviene il ricordo della giovinezza, sia
veramente, appunto sotto l’aspetto morale, così migliore del presente. È un
dubbio che mi rode e vorrei sapere se anche Camon, che pure ha più esperienza di
me, si pone qualche volta la domanda se ciò non sia frutto di un’illusoria
visione di un’epoca vissuta, ma che ora appare anche troppo lontana.
No, non lamento che il passato fosse
migliore del presente, e che ora occorra tornare al passato. Questa era l’operazione
che faceva Pasolini. Io lamento un’altra cosa, e cioè che abbiamo perso la
memoria, e che dunque il passato non esiste più. Non solo il passato come
nostra vita, ma anche il passato come nostra storia. Le nuove generazioni non
sanno niente di come vivevano i loro padri e non sanno niente di quel che
successe ai loro nonni: guerre, invasioni, resistenza, lavoro, sacrifici,
miserie, religiosità, valori, morti, patimenti, grandezze, cultura, dei padri e
dei padri dei padri. Se la Storia scorre, e scorrendo supera e scavalca, questo
va bene, è ineluttabile, che significa contro cui non si può lottare. Ma ora
noi stiamo attraversando una Storia in cui tutto vien buttato via. E questo non
va bene. Perché non tutto il passato era vergognoso. C’era una grandiosità
anche nella miserabilità. Io ho scritto poesie sul “niente” (un toro, una
catapecchia, un morto, un albero, un campo…), ma quel niente rappresentava un
mondo, cioè tutto. Prova a rileggere “Amavo la campagna” o le poesie “Dagli
allevamenti di tori”.
Non è che voglia
farmi della pubblicità, ma ciò che lamenti, cioè la mancata conoscenza del
passato, e in buona sostanza l’ignoranza delle proprie radici, elementi
indispensabili per saper vivere il presente e fare almeno qualche progetto per
il futuro, è il tema della mia silloge Canti
celtici. E non dire che hai scritto poesie sul niente, perché l’estro
creativo si vede soprattutto quando lo spunto di partenza è una piccola cosa,
magari una banalità.
Certo, il mondo
di allora, così diverso da ora, aveva tanti problemi, che la gente avvertiva
senza essere tuttavia consapevole del perché ci fossero. Oggi non c’è nessuna
consapevolezza, se non quella del mancato lavoro, delle tasse, delle difficoltà
di andare avanti (che sono cose da niente rispetto al passato), ma la capacità
di comprendere che cosa significhi veramente una famiglia, un concetto non
retorico di patria e una visione salvifica della religione latitano.
Cosa salveresti
del passato, che cosa vorresti che l’uomo d’oggi sapesse?
Vorrei che i figli ascoltassero i genitori
come noi li ascoltavamo, che s’interessassero alla vita dei padri come facevamo
noi, e alla storia dei padri, che avessero non dico accettazione ma attenzione
per il sacro, che si rendessero conto dell’importanza e non-banalità del sesso,
che rifiutassero le droghe perché anti-natura e dunque accettassero la
naturalità come un bene, che si rendessero conto che un rapporto sessuale è un
atto responsabile perché può mettere in moto un figlio, e che un figlio ha i
diritti di una persona, che rispettassero i vecchi come facevamo noi, che i
vecchi malandati e non-autosufficienti non vanno buttati via e anzi occuparsi
di loro dà un senso alla tua vita, un
vecchio malato di Alzheimer ti dà l’occasione per diventare padre di tuo
padre o madre di tua madre, che il matrimonio non si rompe dopo la prima
litigata, che un figlio non si abortisce per andare in vacanza, che andare a
scuola è una fortuna immensa, è il vero privilegio dei ragazzi d’Occidente
sulle altre parti del mondo, leggere la Divina Commedia è la più alta
esperienza della vita, comprare libri non è uno spreco ma il primo investimento
della vita, la differenza tra vita e vita non sta nel tenore ma nella qualità,
e la qualità è data dalla cultura, puoi non credere ma non devi bestemmiare,
perché per il nome che tu bestemmi si son fatte bruciare vive persone che non
erano peggiori di te, che una casa senza libri è inabitabile, che sapere cos’è
successo ieri è la condizione per vivere domani, che tra le cose importanti che
devi sapere ogni settimana c’è quali film e quali libri sono usciti, che tu
puoi avere quattro-cinque ragioni per lamentarti della tua ragazza o di tua moglie ma devi chiederti se lei non ne
abbia quattro-cinquemila per lamentarsi di te, che non devi convertire ma dare
informazioni, che i tempi in cui viviamo sono tremendi come lo sono sempre
stati, che i film sono messaggi importanti perché su ognuno han lavorato 15-20
cervelli, che un libro che si ristampa una volta all’anno per trent’anni è più
importante del libro che si ristampa trenta volte in un anno poi basta…
Non è poco, è
tanto e i giovani, ma anche quelli un po’ più anziani, cioè nati dal 1960 in
poi non possono sapere queste cose, perché non gliele hanno insegnate, e la
colpa è solo nostra, di quelli della generazione immediatamente precedente e
immediatamente successiva il secondo conflitto mondiale. Ogni tanto mi
arrovello e mi chiedo il perché non ho saputo trasmettere ad altri questi
immensi valori. Per pigrizia, per il fatto di essere stato abbindolato
dall’economia del benessere? Forse è questo il motivo e se il gusto di sapere
che tutto è possibile, che un po’ di agiatezza può essere alla portata di tutti
mi hanno incantato, non sono giustificato. Io, per primo, ho tradito me stesso
ed è questo che mi dispiace, è questo senso di colpa, tanto più marcato quanto
il sapere che non c’è rimedio al mio errore. Al riguardo, qual è la tua
opinione?
C’è uno psichiatra della mia città, che si
chiama Giovanni Crepet, ed è diventato famoso per una teoria, che è anche il
titolo di un suo libro di successo, che dice: “E non vogliamo ascoltarli”. Vedo
che tu la segui. Non mi è mai piaciuto questo titolo e questo concetto. Sul
quotidiano “La Stampa” mi sono occupato di cronaca giovanile per due decenni,
ragazzi che uccidono, che si uccidono, si drogano, che scappano, e la teoria
del “Non vogliamo ascoltarli” si è capovolta nel suo contrario: “E non vogliono
dirci niente”. Non è che i ragazzi parlano e parlano, a pranzo, si confessano e
si confessano, e noi non li ascoltiamo. È vero il contrario. Stan chiusi nel
loro mondo. Noi viviamo e mangiamo con estranei e sconosciuti. Ogni volta che
veniamo a sapere qualcosa dei nostri figli, cadiamo dalle nuvole. Per noi loro
sono tutto. A loro, di noi, non gliene frega nulla. Quando gli davamo la prima
ricchezza del mondo, non se la meritavano. Ora che gli diamo miseria e
disoccupazione, non ci meritiamo questo dolore.
Beh, quando uno non parla,
si deve cercare di farlo parlare, di destare interessi fin da quando sono piccoli.
Se non parlano, se non gl’importa di noi, è perché c’è stato un nostro errore
originario. Comunque stiamo andando in un campo che esula dall’intervista e
credo che sia opportuno ora tornare a questo tuo libro, alle tue poesie. Ce n’è
una, Liberare l’animale, che nella
sua drammaticità mi affascina. Riporto solo alcuni versi:
L’ultima
volta che ti vidi / due soldati tedeschi ti portavano / appeso ad un bastone / con una corda passata
/ sotto le ascelle, / con le mani penzoloni / reggevi forate le budelle /
pendule sui coglioni. /…
È una scena che non mi è nuova, che ho
incontrato probabilmente in qualche altro tuo libro.
Ci sono altri versi della stessa poesia
che non mi sono del tutto chiari e allora credo che l’interpretazione
dell’autore sia necessaria:
La tua morte non mi commuove /
più di quanto potrebbe la tua vita: / questa e quella non hanno uno scopo / per
te più che per un topo.
Le
scene dell’occupazione tedesca che io ricordo sono dodici-quindici, le ho
viste, non le ho dimenticate, ci giro sempre intorno. Sono un buon testimone.
Quell’uomo catturato ed esibito era un mio parente, era un partigiano, lo
avevano preso con l’arma in mano, volevano da lui i nomi dei compagni,
cercavano i suoi parenti, lo mostravano sperando che la madre o il padre o
qualche fratello corresse ad abbracciarlo e così si tradisse. Suo fratello era
accanto a me, nella gran massa di uomini catturati per strada e radunati nel
nostro cortile: i due fratelli si sbirciarono per un attimo, ma non si
tradirono, non ebbero un tremito, un vomito, un grido, niente. Per questo dico
che quel prigioniero, non rivelando che noi eravamo suoi parenti, ci ha
“donato” la vita. Ma era una vita da schiavi, miserabile e animalesca, senza
luce, non vale la pena ringraziarlo né maledirlo. Ci vogliono millenni per
creare uomini dove sono i contadini. La morte di quell’uomo non mi commuove,
perché mi commuoverebbe altrettanto la sua vita: la vita dei contadini non era
molto diversa dalla vita degli animali. Questo voglio dire, nulla di più. È duro
leggerlo, ma è duro anche scriverlo.
Avevo capito più o meno così, ma
desideravo una conferma. Certo che per un bambino di circa 9 anni deve essere
stato un ricordo drammatico, come anche altri di quel periodo. Sono scene e,
soprattutto, veri e propri traumi che uno si porta dentro per sempre e il cui
impatto emotivo non si cancella, e forse neanche si attenua nel tempo. Ma vengo
ad altre poesie, che sono tutte belle, comprensibili e personali, in stile
colloquiale, come di uno che si racconta in versi. Per quanto concerne l’altra
raccolta, cioè Dal silenzio delle
campagne, mi hanno colpito di più La
candelora (Nel battesimo la madre del
neonato / era tenuta fuori della chiesa / perché aveva doppiamente peccato: /
per restare incinta aveva fatto sesso,
/ e per nove mesi aveva avuto in
pancia / un non-battezzato, cioè un ossesso. /…) e Il padre del fucilato (Conosco
il genitore di un ragazzo / fucilato a Castelbaldo. / Sta in un bugigattolo /
vicino al bosco. È un miracolo / che non sia diventato pazzo. / A chi gli
chiede se gli hanno sparato / in piazza risponde di sì, / o se l’hanno annegato
/ nel fiume ancora di sì. / Lui vede il figliolo morire quando / ammazza il
maiale, quando / tira il collo a una gallina, quando / una mosca gli casca
nella minestra / e affonda zampettando).
Perché m’interessano queste due poesie?
La prima, La candelora, perché
riporta un rito in cui ancora una volta la donna è portatrice del peccato
originale e inoltre c’è evidentemente un modo di vivere che era fermo da
secoli, insensibile a ogni cambiamento, in una religione con un Dio cattivo e
sempre pronto a punire. La seconda perché è un ritratto sconvolgente del dolore
e credo che certi capi di stato dovrebbero leggere e rileggere poesie come
questa, prima che gli passi per la testa l’idea di una guerra.
Posso immaginare che entrambe siano
pure frutto di una diretta esperienza e allora mi chiedo, ma domando
soprattutto a te, com’è ora il ricordo di quei battesimi e dello strazio di
quel padre? Sul primo posso pensare che il vecchio Cattolicesimo sia qualche cosa
di ormai definitivamente defunto, mentre sul secondo c’è forse il rimpianto per
le vittime che non hanno avuto giustizia. È così?
Le
vittime non hanno avuto giustizia, e la Nuova Europa nasce sulla mancata
espiazione delle colpe. Per avere giustizia bisogna contare, essere uno che
conta. I contadini non hanno avuto giustizia perché sono contadini. Il senso de
“Il Quinto Stato”, “La vita eterna”, “Un altare per la madre”, “Mai visti sole
e luna”, oltre alle poesie di “Fuori
Storia”, “Liberare l’animale”, “Dal silenzio delle campagne”, è questo lamento:
io parlo degli innocenti, buoni, deboli, addirittura santi, che perciò saranno
disprezzati e colpiti, e per loro non ci sarà mai giustizia. I miei libri sono
un “processo”. In quel processo, io accuso e condanno. Purtroppo, non posso
fare di più. La letteratura, narrativa e poesia, è questo e non altro.
Comprendo
e sono d’accordo: a questo mondo i poveri e gli umili non hanno mai avuto
giustizia e temo che non l’avranno mai. È la legge del più forte, che regola
anche il mondo animale, ma se dobbiamo parlare di bestialità non ce n’è una
peggiore di quella dell’uomo. Purtroppo il messaggio cristiano è rimasto solo
tale; per applicarlo bisogna essere “umani” e i potenti non lo sono mai; la
loro forza e la loro ricchezza è frutto di sistematiche rapine, peraltro
legalizzate.
Grazie
per la bella conversazione, che non è la prima che abbiamo, tanto che spero ve
ne possano essere altre.
Recensione e intervista
a cura di Renzo Montagnoli
Recensione e intervista veramente interessanti, che invogliano a leggere il libro. Purtroppo la mia vista rende difficoltosa la lettura di un ebook e poi sfogliare delle pagine di carta vera è tutto un altro piacere. Spero di trovarlo nella mia biblioteca.
RispondiEliminaAdriano Manara
Recensione e intervista molto interessanti e di notevole livello.
RispondiEliminaSe le altre poesie di questo libro sono come quella che è stata pubblicata qui, credo proprio che si tratti di un'opera di grande valore.
Agnese Addari
Un'intervista "preziosa" in cui entrambi i protagonisti, partendo dall'analisi di due raccolte belle e coinvolgenti, si soffermano su alcuni temi fondamentali della vita dell'uomo: la memoria, bene preziosissimo che va coltivato, le ingiustizie nei confronti dei deboli, degli "innocenti", come dice Camon, il dolore, che accompagna sempre l'esistenza. Nel passato, penso alle guerre, alle innumerevoli vittime, a coloro che rimangono e non si danno pace, sfiorando la pazzia, il poeta ce lo ricorda bene nel suo bel testo, e nel presente, quel presente che con ragione lui definisce "epoca di decadenza".
RispondiEliminaBello come sempre leggere sia la recensione che l'intervista, un piacere che ogni volta si rinnova.
Piera