Giovannino
di Enzo Maria Lombardo
Anche se qualche volta lo potevate vedere con noi
per le vie di Catania, Giovannino Fisichella non era un nostro vero amico. Ed
era un bugiardo. Un grande bugiardo.
Quando, di tanto in tanto, faceva parte del nostro
gruppo era solo perché lo volevamo noi.
Come dire che entrava su invito. E noi non lo
invitavamo spesso. Lo cercavamo solo quelle volte che la nostra cattiveria
voleva qualcosa su cui posarsi. In quelle sere lo trascinavamo per Via Etnea o
per i viali del Giardino Bellini mettendolo al centro di una falsa attenzione
per alcune ore, solo per estorcergli le sue enormi bugie sulle donne
e i suoi amori, facendo finta di crederci.
Ci chiedevamo spesso perché mentisse in un modo così
esagerato e senza necessità. E qualche volta ci balenava l’idea che una
necessità gliel’avesse Giovannino ma non riuscivamo a capire qual’era e la cosa
ci infastidiva.
Giovannino aveva compiuto da poco diciannove anni,
il viso lungo e un po' triste e a guardarlo da lontano si sarebbe potuto
definire anche bello quel viso, forse troppo bello e delicato, incorniciato
da capelli biondicci e illuminato da grandi occhi chiari, sempre
sgranati in un atteggiamento infantile di esagerata attenzione. Un viso che
arrossiva per un nonnulla, specialmente se si parlava di donne.
Le donne: Mario, Cesare e io sapevamo che quello era
il suo punto debole, tanto da imporgli di usare tutte le sue difese. All’inizio
non parlava neppure; ascoltava e arrossiva e sentivamo, allora, quasi
palpabile, tutta la sua sofferenza, una sofferenza particolare che non
riuscivamo a capire, ad inquadrare a catalogare. Poi il bisogno di parlare gli
diveniva prepotente tanto da fargli esplodere un caleidoscopio di bugie.
Cominciava piano, quasi in sordina. Una voce incerta,
tremante. Poi i suoi occhi smettevano di vederci e lui cadeva nel suo mondo
irreale e parlava, parlava, parlava. Le sue avventure erano conturbanti discese
in un inferno di dettagli pazzeschi, minuziosi e ossessivi; le carezze, i
colori, i suoni dei suoi sogni Giovannino li descriveva con l’ansia pignolesca
di scordarsi qualcosa. E così ripeteva i particolari, ci guardava con gli occhi
spenti. Sembrava che si guardasse dentro.
In quelle avventure fantastiche l’ambientazione
cambiava di continuo: alberghi di lusso, trascinato da turiste lascive o
accoglienti macchine straniere o frettolose avventure sotto i ponti della
ferrovia in una notte deserta.
Il luogo non era importante, costituiva solo uno
sfondo secondario per le immagini di Giovannino. E in quello sfondo entrava “la
donna”, si agitava, muoveva le sue cosce, mostrava i seni e i fianchi,
apriva le labbra invitanti, faceva serpeggiare la lingua e, invariabilmente,
cadeva avviluppata in un abbraccio erotico.
Ripensandoci non c’era alcun calore in quei racconti
farneticanti. Nessuna eccitazione. Le immagini si susseguivano regolari e
precise. La donna era quasi stereotipata. Cambiava solo l’ambiente. Quei
racconti sembravano letti e recitati.
Noi ascoltavamo dandoci grandi occhiate d’intesa.
Mario, dietro Giovanninno, faceva smorfie e si torceva in una risata muta.
Però, sotto sotto, quei vaneggiamenti quasi
letterari ci piacevano. Le sue favole erotiche si mescolavano con i colori
della notte, si univano agli stridii dei pneumatici sui selciati di lava e alle
musiche lontane di qualche grammofono e ci cullavano per qualche tempo, come in
un film.
Giovannino non era pazzo. Ridiventava normale,
cioè triste e impacciato, quando il racconto finiva e stanco e sfibrato dai
chili di bugie che aveva partorito nell’ultima mezz’ora, si accasciava su una
panca dicendo: “Tanto, voi non ci credete. Lo so. Non sono mica scemo”.
Poi zittiva di colpo. La sua fantasia moriva. Non bastavano i nostri richiami e
il finto interesse a riportarla in vita. Diventava muto.
* * *
In una di quelle sere vuote d’inizio estate in cui
il primo fresco della brezza porta i pensieri nebulosi e le incerte parole ad
addensarsi pian piano in un’idea precisa, come piccole gocce d’acqua create dal
vapore d’una pentola, in noi cominciò a prendere forma l’idea di
farlo innamorare.
L’idea partì da Mario. Mi parve un nuovo scherzo.
Eccitante. Diverso. Ancora nebuloso e incerto ma divertente.
L’idea era di mettere sotto il naso di Giovannino la
chimera d’una donna vera. Di una donna reale in una storia
inventata: una storia pazzesca come quelle che s’inventava lui. O almeno una
mezza storia, nei limiti delle nostre possibilità. E poi starne a vedere
l’effetto.
- “Che scherzo del cavolo è ?”- disse
Cesare che era rimasto ad ascoltarci mentre tentavamo di schiarirci le idee
- “ce la mettete voi la ragazza?”
- “Non ci vuole proprio una ragazza vera per
fare una storia finta – dissi io - cioè non una ragazza in
carne e ossa, voglio dire. Ci basta una voce.”
- “La voce? La voce di chi?”
- “Di tua sorella” - dicemmo quasi in
coro Mario e io e, dal tono, Cesare capì che quella non era una battuta di
spirito.
- “Al telefono – proseguì Mario – è
solo una voce. Non la conosce.... non può collegare...”
Cesare scrollò la testa, ripetutamente, con forza,
ma più che un cenno di diniego era un modo per schiarirsi le idee.
- “Due, tre telefonate, - continuai io
con la voce più suadente che mi ritrovai - lo scuote, lo sbatacchia un
po', lo fa cucinare nel suo brodo... gli racconta qualcosa, un po’ di fantasia,
ecco... tutto lì.”
Cesare continuava a scuotere la testa, ma - ci
sembrò - con meno vigore. “Che scherzo del cavolo!” – ripeté
sottovoce, quasi soprapensiero - “ E dopo? Mettiamo... che
so?... che Giannino si agiti davvero, che cerchi.... che trovi...che poi...”
- “Che poi ...cosa?”
- “Niente. Niente. E comunque Marisa non ci starà a
fare una cosa del genere. Questo è uno scherzo da grandi.... lei non ha
neppure sedici anni...”
La conoscevamo, Marisa: piccola e un po'
tarchiata, con i capelli neri e corti, sempre arruffati e una vocina
sottile sottile. Non era una bellezza ma neanche brutta, forse ancora
troppo acerba e piena di lentiggini ma era una ragazzina sveglia e di spirito:
la persona giusta, ne eravamo sicuri.
“E tu prova!” – dicemmo, quasi all’unisono, Mario e io.
E Cesare provò ma non dovette faticare poi tanto a
convincere Marisa se l’indomani ci descrisse già la prima telefonata, parola
per parola, come un registratore, imitando in falsetto le voci di sua sorella,
con noi a ridere a crepapelle tra una frase e l’altra.
- “Ah, così ha detto? Proprio così? E
Giovannino? Che diceva Giovannino?”
Cesare ignorò la domanda e continuò a scimmiottare
la vocina sottile di sua sorella: “Io ti conosco, sai, ma tu non saprai mai
chi sono... o forse un giorno, chissà... forse un giorno...”
- “ Continua” - dissi io,
asciugandomi gli occhi che mi lacrimavano dal gran ridere, “E
Giovannino? Che diceva quel fesso?”
-“Mica tanto fesso Giovannino. Non l’ha proprio
bevuta. E’ rimasto freddo. Impassibile. Da non crederci. Comunque, Marisa ha
recitato benissimo.– e quicontinuò in falsetto – “ Si mi
piaci. mi sei sempre piaciuto…dal primo giorno che ti ho
incontrato...dove?....non te lo dico... Vorrei rivederti ma non posso...perché
... perché non sono ancora sicura, sicura di me, sai...poi, un
giorno...certo…...certo....no... no ... no... non tentare di conoscermi,.. deve
bastarti la mia voce...” e così via, capite? un tira e
molla in piena regola, insomma.”
Cesare riprese fiato. Parlare in falsetto gli aveva
seccato la gola. Sembrava accaldato. Il viso sempre più rosso.
- “Non è che sei geloso?” gli soffiai sul muso.
- “Geloso di chi? Di Giovannino? Questa è da
ridere! Quello? Le donne non sa neanche cosa sono! E poi, per tua norma e
regola, sappi che mia sorella è una ragazza di spirito e quello che vuole è
solo prenderlo per i fondelli e farlo cuocere nel suo brodo. Tutto qui.”
Mario aveva un modo tutto suo di ridere:
sghignazzava torcendosi, abbassandosi in avanti fino a
terra, tenendosi la pancia - “ Devi… devi dire a Marisa che
…uh, uh, uh ... devi dire a Marisa, sì,…che…vogliamo esserci anche
noi quando… lo chiama …la prossima volta.” riuscì a dire a
singhiozzo.
Cesare s’incupì e scosse la testa
- “Ah no, niente da fare. Marisa telefona
da sola, era nei patti. Voi due rovinereste tutto e poi... poi mi ha
detto che non potrebbe neppure parlare, immedesimarsi...capite? recitare,
insomma. E nelle prossime telefonate non vuole neppure me vicino al
telefono. Dice che non le riesce bene se c’è qualcuno, capite? Prendere o
lasciare.”
Mario e io eravamo delusi. Svaniva tutto il succo
dello scherzo. Ci si leggeva in faccia la delusione.
- “E come saprai, allora ...anzi,
come sapremo….” balbettai.
- “ Oh Dio, mi racconterà tutto dopo, è logico! Ma
in camera sua non mi vuole.Chiaro?”
* * *
Le telefonate continuarono per alcuni giorni, sullo
stesso tono, ma stranamente più il tempo passava e meno sapevamo: dopo un paio
di settimane sembrava che la cosa si fosse esaurita da sola. Per colpa di
Marisa, forse, che ne aveva avuto abbastanza di uno stupido scherzo.
Così, almeno, ci aveva detto Cesare.
Passarono le settimane e non sentimmo più Giovannino
fino ad una domenica pomeriggio di fine agosto, quando mi chiamò al telefono
con una voce così strana che stentai a riconoscerlo. Una voce più decisa, direi
più “vera” e non impastata e tremolante come il solito.
Si sentiva una fretta strana in quella voce, come se
avesse preso una decisione improvvisa e forte e avesse timore di tornare sui
suoi passi.
“Ho telefonato anche a Mario e a
Cesare perchè vi devo parlare. A tutti e tre. Vi devo dire…ecco...vi
devo dire una cosa.”
“Una cosa? Che cosa?” – chiesi, ricordandomi
d’un tratto dello scherzo che credevo ormai esaurito da tempo.
“Niente, niente…”- ripeté lui con forza
- “una cosa, …una cosa…mia.”
“Una cosa tua?... Bella o brutta?” azzardai
io, e intanto pensavo che Cesare non ci aveva detto tutto. Ecco, le telefonate
dovevano essere certamente continuate e Giovannino ora non stava più nella
pelle. Ecco perché aveva premura: voleva raccontarci tutto, tutte le balle che
s’era bevuto da Marisa, magari infiocchettandoli come al solito con un lungo
nastro di bugie.
“Una cosa, ti dico... importante.” – sussurrò Giovannino
e in quel sussurro mi sembrò di vedere tutte le immagini romantiche e
fantastiche che s’erano intrufolate nella sua testa, le dolci parole che s’era
bevuto. Quelle poche parole erano il preludio del coronamento dei nostri
sforzi.
Mentalmente applaudii a Marisa. Una recita perfetta.
L’aveva continuata da sola, tranquilla e senza strombazzamenti. Forse neppure
il fratello sapeva. Ma c’era riuscita.
“Bene, bene. E allora a stasera. Ci vediamo stasera
alle nove alla Villa Bellini. Ti sta bene vicino al Palco della musica?” “Bene” - “E
stasera ne sentiremo delle belle” - continuai tra me e me -“e anche
con l’accompagnamento musicale”.
* * *
La sera arrivò, ancora calda, con un refolo di vento
che muoveva appena le foglie. Saliva dalla marina e sapeva di sale, mescolato
all’odore del gelsomino e dell’albero del pepe.
Famiglie intere, con frotte di bambini e ragazzi al
seguito, salivano veloci per i viali curati del Giardino Bellini e
le scalinate che portano al Palco, affrettandosi per trovare ancora un posto
nei sedili migliori.
Alcuni s’erano portati da casa le sedie e lasciavano
che i bambini se le trascinassero dietro, come fossero cavallini o trenini di
legno, torno torno al palco di ferro, mentre i grandi correvano per
trovare l’angolo buono.
Già si sentivano gli ottoni della banda che
provavano gli attacchi. Le lunghe note e i trilli con cui accordavano gli
strumenti si mescolavano al brusio della gente e agli strilli dei bambini più
piccoli, già stanchi di star seduti mentre i più grandicelli formavano
spontaneamente gruppi per giocare un poco discosto dal Palco.
Noi tre non ci curavamo troppo della musica. Anzi,
per la verità, ci infastidiva non poco quella folla che ci strusciava attorno,
correndo per accaparrarsi una sedia, un sedile o la base di un lampione, ma
stavamo là, lontani dal Palco, in un posto che era il nostro solito punto
d’incontro.
Aspettavamo da cinque minuti e la nostra curiosità
aumentava, così cominciammo a passare in rassegna le varie possibilità, tanto
per passare il tempo.
Cesare, a disagio, fumava in silenzio. Ci aveva
detto di non sapere niente. Proprio niente.
Marisa aveva fatto solo due o tre telefonate, ne era
sicuro. Lo scherzo era finito. Non poteva essere continuato a sua insaputa.
Mario e io dicemmo “Bah” all’unisono e
continuammo a guardare in fondo al viale.
Io – chissà perché – immaginavo una storia romantica
tra Giovannino e Marisa. Telefonate, incontri furtivi dopo la scuola. Bugie in
casa. Mi sembrò quasi di vederli salire dal Viale, mano nella mano. Lei piccola
e minuta, con un sorriso accattivante, lui impacciato e felice.
Immaginavo anche la faccia di Cesare che in quella
fantasia assumeva dei contorni sfocati. Che cosa avrebbe detto, cosa avrebbe
fatto se...? Forse avrebbe assunto i toni offesi del fratello maggiore per
essere rimasto all’oscuro di tutto? Avrebbe riportato a casa la sorella dopo
essere saltato addosso a Giovannino picchiandolo a sangue? Oppure, dopo un
attimo di smarrimento, li avrebbe abbracciati entrambi, con fare paterno,
commosso da una storia d’amore nata da uno scherzo?
Vedemmo arrivare Giovannino proprio quando la banda
attaccò il primo pezzo in programma.
Veniva su da solo e rimasi deluso. Certo non era il
solito Giovannino, trascurato e un po’ sciatto. Portava un vestito molto
chiaro, elegante e scarpe lustre. Veniva su a passo svelto, quasi aggressivo.
La nostra curiosità aumentò in modo esponenziale. Cosa aveva cambiato
Giovannino in queste ultime settimane?
“Ti fai aspettare, eh, Giovanni ?” –
disse Cesare a mò di saluto. Notammo subito che non aveva usato il
diminutivo.
“Bella musica ma troppo casino.” – fece Giovannino
guardandosi intorno.“Andiamo giù nel Viale. Vi devo parlare.”
“Cosa sono tutti questi misteri?” –
disse Mario. Dopo una pausa, con enfasi buffonesca declamò: “Hai
forse ammazzato qualcuno? Hai svaligiato una banca? Hai messo incinta la
serva? oppure ... oppure...ti sei finalmente i-n-n-a-m-o-r-a-t-o?”
e giù a ridere a suo modo, curvo, stringendosi il ventre con le braccia
incrociate.
Giovannino non rispose, non lo guardò neppure. Ci
precedeva nel Viale con le mani in tasca, dando calci alle foglie cadute e ora
che la musica si sentiva piano, in lontananza, potevamo udire anche il suo
respiro affannoso venir su e giù dal petto come se si preparasse ad
un’immersione od ad una lotta.
Lo seguimmo per un bel tratto, in silenzio. Mario
aveva smesso di ridere e faceva finta di cercarsi qualcosa in tasca. Cesare
aprì il pacchetto delle sigarette e
poi lo richiuse perchè stava già fumando.
Giovannino continuò a camminare davanti a noi e
senz’avvedersene ci distanziò d’un buon tratto, così che quando parlò la sua
voce ci giunse attutita, quasi coperta dalla musica che si sentiva in
sottofondo.
Gli sentimmo dire “Si è vero, Mario, sono
innamorato.” Poi aggiunse, voltandosi: “Ma questi sono cavoli
miei e non è per questo che sono qui.”
Mario smise di ridere e a noi la cosa non parve
neppure strana: era un Giovannino diverso quello che ci trovavamo davanti. Un
Giovannino che poteva anche far la voce grossa perché era davvero diventato
improvvisamente grande.
“Statemi a sentire – disse – voi
non avete capito niente. Forse non mi siete neppure tanto amici. Ma non
importa. Però vi conosco e so che in fondo potete capire....”
Eravamo confusi e impacciati. Forse ci sentivamo
tutti in colpa davanti a Giovanni. Ripensavo alle risate nascoste, ai cenni che
ci davamo a sua insaputa, al finto interesse per le sue strane storie e a come
alimentavamo le sue bugie. Ripensavo a quello scherzo telefonico.
Eravamo in attesa. Giovannino taceva e intanto
smuoveva con la scarpa le foglie che invadevano il viale e ne aveva accatastato
un mucchietto che poi schiacciò con il piede, ripetutamente, con forza, quasi
con cattiveria.
Cesare era diventato impaziente: “Va bene,
abbiamo capito: sei innamorato. E allora?” – disse.
“Allora niente” – rispose piano Giovannino. “Te lo
ripeto: questo non è importante”.
”Come non è importante?!”- Cesare era sempre più
rosso in viso – “Ci fai venire qua, di premura, che devi dirci non so
cosa, una cosa speciale, poi ammetti che sei innamorato. Si, insomma, che
hai trovato una ragazza. Sarà una delle tante, certo, tu non hai problemi con
le donne, ma questa sarà proprio speciale per farti innamorare. E dici che non
è importante? E cosa è importante allora? Sarà importante sapere chi è, forse?
Forse la conosciamo?” – Il suo viso ora era diventato paonazzo, gli
occhi sbarrati - “Forse la conosco io? Dì,Giovannino, io... la
conosco?”
Giovannino era arretrato d’un passo. Non sembrava
impaurito ma perplesso e sul suo viso si disegnavano rughe di attenzione, come
se tentasse di capire la tirata di Cesare che, intanto, stava accartocciando il
pacchetto delle sigarette mezzo pieno e ansimava.
“Che importa sapere il suo nome, Cesare?” – fece Giovannino. “Ve
ne ho dati tanti di nomi su cui ridere. Uno più, uno meno cosa
importa? Il fatto è che sono stufo, stufo di tutto. Questo è importante.”
“Sei innamorato e sei già stufo?” – feci io. “Che
novità è questa Giovanni? Stufo di cosa?”
“Stufo, stufo. Non posso continuare così!”
“E allora?”
“E allora ho deciso di farla finita.”
Qualcosa si bloccò dentro di me: non ero preparato a
questo.
“Ohè, Giovannino, che sono cose da dire, queste?” fece
Mario. “Sei impazzito, per caso?”
Giovannino sorrise. Sembrava quasi divertito di quel
misto di paura e curiosità che leggeva nei nostri occhi.
“No, non voglio ammazzarmi, Mario. Voglio
cominciare a vivere, anzi. Da ora, da subito. Per questo ho deciso di farla
finita con le menzogne, le paure. Niente più paura. L’ho detto ai miei e lo
dico anche a voi. Io sono così e così devo essere.”
“Così come?” chiese Mario piano, quasi in un
sospiro.
Si era insinuata in noi una risposta, la leggevo
negli occhi sempre più sbarrati di Cesare che aveva smesso di ansimare,
lisciava con cura il suo pacchetto di sigarette stropicciato e il suo viso era
scolorito.
Mario era anche più strano: la sua bocca, di solito
sempre atteggiata ad un riso anche troppo facile, ora era semiaperta, quasi
volesse aspirare, con l’aria, la comprensione di una nuova idea. Però la voleva
chiara, quell’idea, limpida come l’aria che respirava.
“E se sono così è perché ci sono nato così. Mi
capite?” continuò Giovanni ignorando la domanda di Mario.
“E per via delle donne?” – azzardò Mario – “E’
un fatto di donne, Giovannino?”
“Le donne... le donne! Per voi tutto è un fatto di
donne! E io ve ne ho date di donne. Le avete avute. Me le cercavate
e io ve le davo... A decine, le davo, costruite al momento. E non era per
prendervi in giro. Le costruivo anche per me. Soprattutto per me, capite? E
sapete che gusto c’era? Il gusto di essere come gli altri, come tutti. Come
credevo di dovere essere. Ma era sbagliato.Tutto sbagliato.”
Silenzio. Quello che elaboravamo era più grande di
noi. Una cosa da grandi..
Silenzio. Forse avevamo paura di sentire il resto
oppure avevamo paura di ammettere che sapevamo già da tempo, ad un
livello remoto della coscienza, quale era l’angoscia di Giovannino e il perché
delle sue bugie.
Chissà come interpretò Giovanni quel silenzio. Si
vedeva che si sforzava di non piangere: strinse le labbra e ricominciò ad
accumulare le foglie per terra e a schiacciarle con il piede.
“Perché io le donne... l’ho capito tardi ma è
così, ...io le donne non.... non ... . Non sono come voi, ecco...
capite?” – continuò Giovanni – “Ci sono tanti modi per dirlo e
voi li sapete tutti. Avanti, diteli adesso. Tutti. E’ meglio sentirmeli
sputare in faccia ad uno ad uno. Sempre meglio che averli sibilati
dietro le spalle. Mi ci devo abituare. Ditelo, ditelo...Giovanni è un frocio,
una checca, un finocchio... una brutta verdura che si può
schiacciare come queste foglie marce... ”
“Giovanni...” – cominciò Cesare con voce bassa – “ma
Giovanni, che dici?...”. Penso che volesse anche aggiungere qualcosa ma non
lo fece.
Anch’io volevo aggiungere qualcosa. Giovannino,
volevo dire, abbiamo giocato con te come gatti con un gomitolo di lana,
graffiando i fili della tua anima aggrovigliata. Abbiamo goduto nel vedere quei
poveri fili strappati mentre tu cercavi di ricucirli e coprirli con le bugie
più assurde. Ti abbiamo squarciato il cuore mille volte sbandierando la nostra
grande mascolinità, come un vessillo necessario che noi avevamo ma che
sentivamo ti mancasse... Ti abbiamo fatto del male, Giovannino.
Ti abbiamo fatto sentire un verme. Forse lo volevamo, forse no, ma
l’abbiamo fatto. Come un gioco. Un gioco crudele. Perdonaci.
Dissi, invece, semplicemente: - “Lo conosciamo?”
Giovannino mi guardò e nella sua bocca si disegnò un
mezzo sorriso. Poi il suo sguardo si posò su Mario che strusciava i piedi
sull’erba, fingendo di togliersi qualcosa da sotto le scarpe e su Cesare che si
dondolava impacciato appoggiato ad un albero.
“No – disse – non potete conoscerlo. E’un ragazzo
di un altro pianeta. Come me, del resto. E poi ora parte. Va al
Politecnico, a Milano.”
Dall’alto del Viale alberato gli ottoni fecero
scivolare su pensieri sempre più confusi un “Andante maestoso” che
accompagnò i nostri passi e i nostri silenzi fino al cancello del Giardino.
Quando uscimmo sulla strada l’Andante era già
storpiato dai i rumori delle macchine e dallo stridio dei pneumatici sulle
lastre ancora calde della pietra lavica.
Un tema delicato trattato con delicatezza e sensibilità. Il racconto evidenzia, inizialmente, l'inconsapevole superficialità di molti ragazzi nel loro affacciarsi alla vita, la non voluta crudeltà di certi atteggiamenti ed espressioni, e si conclude poi con una presa di coscienza che prelude ad una crescita. Positivi lo stupore o l'imbarazzo se diventano strumenti per comprendere il modo di essere dell'altro, le sue inclinazioni, i suoi sentimenti. Se questo sarà lo sguardo consapevole e aperto di ognuno di noi, forse sarà anche l'inizio di un percorso, sin troppo tardivo in Italia, per poterci definire, e soprattutto sentire, un Paese civile.
RispondiEliminaGrazie a te, Renzo, e ad Enzo Maria Lombardo, spero vivamente che continui a scrivere, perché la sua è una "penna" che ha il "diritto/dovere" di continuare a farlo.
Un caro saluto.
Piera
Un racconto d’autore, di quelli in cui si trattano in punta di piedi argomenti difficili e imbarazzanti.
RispondiEliminaComplimenti a Enzo Maria Lombardo, perché è veramente bravo!
Agnese Addari
Mi trovo in sintonia con i commenti precedenti. Amare, e volere il bene dell'altro, non è mai sbagliato, chiunque sia l'oggetto d'amore. Rispettarci, nelle nostre diversità, dovrebbe essere il principio base della convivenza su questo strano pianeta! Complimenti
RispondiEliminaGiovanna