L’ultima poesia
di
Renzo
Montagnoli
Quanto aveva scritto,
una miriade di versi, un’impressionante continuo scavo dentro se stesso alla
ricerca di un confine che mai aveva trovato, ora gli sembrava solo un lontano
ricordo, un susseguirsi di parole che si incrociavano, si scontravano, si
perdevano a brandelli nella mente.
Era un poeta, era uno di
quelli che si erano illusi nel corso dell’esistenza di aver trovato il modo di
comunicare, attraverso gli altri, con il proprio io, forse era solo un
presuntuoso, o magari solo un illuso che aveva creduto di dare un senso ai
giorni che passavano attraverso una ricerca interiore per giungere a capire
il significato di ogni cosa. Tante domande di cui aveva creduto di
trovare la risposta si erano rivelate solo l’inizio di una lunga e
interminabile serie di quesiti irrisolti e ora che il tempo sembrava scandire
le ultime ore, si chiedeva, quasi con angoscia, il perché di tanto affannarsi
senza giungere a una conclusione.
Forse è un destino
dell’uomo correre dietro ai miraggi della mente, forse è un riaffermare la
supremazia, pretesa, ma tutt’altro che realizzabile, del singolo sul proprio
destino.
Una volta, in un
convegno a cui aveva partecipato con altri letterati, poeti, scrittori,
filosofi affermati, uno dei presenti gli aveva chiesto se la poesia
era il mezzo o il fine.
L’aveva guardato in
volto, stupito, come se all’improvviso quella domanda fosse la risposta a tante
altre ancora lì in sospeso, in attesa probabilmente vana di una soluzione.
Lui era rimasto attonito,
poi aveva risposto che era l’uno e l’altro, un giudizio salomonico, anche se in
realtà pensava fosse il mezzo per arrivare al fine. Nulla in
effetti si svelava in quei versi che sembravano un treno che corre diritto
verso la meta, quel limite estremo a cui pareva di essere prossimi ad ogni
passo e ad ogni passo sempre più si allontanava.
Teorie, ipotesi, aveva
concluso, ma per la prima volta si era incrinato qualcosa in lui, aveva
compreso che la corsa ormai era senza fine.
Aveva continuato a
scrivere, ma con un entusiasmo diverso, più attenuato, consapevole ormai di
questo limite del tutto invalicabile, se pur contento ogni volta di scoprire
qualche cosa di nuovo, poco, rispetto ai propositi iniziali, ma sempre
gratificante come può esserlo anche una piccola conquista.
Poi, in seguito, quando
ancora stava abbastanza bene, aveva rilasciato un’intervista a un giovane di
belle speranze, uno di quelli che stavano iniziando a percorrere la lunga
strada della ricerca e che per sostenerla e sopportarla aveva accettato dal suo
editore l’incarico di saperne di più sul pensiero di un grande
vecchio che ormai da tempo non aveva più nulla da dire e che invano si sforzava
di abbattere quel muro di confine a cui era giunto dopo anni di lavoro.
Il vecchio poeta aveva risposto
con sincerità, anche perché nel ben più giovane collega aveva rivisto se stesso
agli albori, ai primi successi, in quel tempo in cui ancora credeva
che nulla gli sarebbe stato impossibile.
Prima dell’intervista
aveva pensato che avrebbe fatto un piacere a una persona non conosciuta e che
quindi la sua partecipazione sarebbe stata asettica, ma presto si accorse che
in questo modo ripercorreva tutta la sua vita, riprovando anche le emozioni che
sempre si univano ai suoi versi e questo lo stimolava a essere del tutto
sincero, quasi che le sue parole fossero quelle di una confessione.
Ogni domanda era una
ricerca del suo passato, ogni risposta era svelarsi a sé e agli altri.
Fra
l’altro, gli era stato chiesto, quale fosse la sua poesia più bella.
Aveva riflettuto un paio
di minuti, forse anche di più, perché in fin dei conti tutta la sua notevole
produzione lo soddisfaceva, ma al tempo stesso lo riportava a quei limiti alla
cui consapevolezza era giunto un po’ avanti negli anni, e poi aveva risposto che
sarebbe stata l’ultima e nel dirlo si era sovvenuto di quell’Anima vagula blandula che
il grande imperatore Adriano aveva creato nell’ultimo giorno di vita.
Si era immaginato
Adriano disteso sul letto, ormai certo dell’imminente fine, intento a dettare al
suo scriba quei versi di malinconico e dolce commiato, l’ultimo messaggio
all’umanità e a se stesso, una struggente parentesi di astratta realtà nella
cruda realtà di un corpo che s’apprestava a terminare il suo percorso in terra.
Sì, doveva essere bello
scrivere un’ultima poesia, un commiato definitivo da sé e dagli altri, ma per
quanto l’idea fosse accattivante mancava del presupposto essenziale: la
solitudine assoluta, quella che non aveva mai provato e che era mancata anche
ad Adriano in quel frangente.
Là c’era lo scriba, lui
con voce affannata doveva dettare, magari intorno s’affannavano i medici. No,
quella non poteva essere l’ultima, la perfezione assoluta, la conclusione in
apoteosi di un artista.
La solitudine è
indispensabile per giungere agli estremi confini che sono in noi, perché è solo
nell’assenza di rumori, di stimoli indiretti, di certezze che ci accompagnano
mentre si esperisce il tentativo e che ritroveremo anche dopo, che il dialogo
con l’io può trascendere il normale discorrere, gli influssi di
esperienza, le radicate teorie dei grandi pensatori.
E ora che la salute era
un lontano ricordo e che, nonostante l’affannarsi dei medici intorno a lui, era
giunto all’ultima pagina del libro del destino, non aveva né idee, né desiderio
di scrivere o dettare un’ultima poesia.
Il dolore fisico ormai
era passato e il commiato aveva tutta l’aria d’essere prossimo; già non vedeva
nulla intorno a sé, come non udiva il minimo rumore, e nemmeno più avvertiva la
mano di sua figlia sulla sua, anzi neppure pensava di avere una mano.
Provava una strana
sensazione, come se la mente forzasse le mura che la racchiudevano per fuggire
chissà dove e di lì a poco nel buio più assoluto avvertì chiaro che la diga del
pensiero s’incrinava, prima una crepa, poi due e infine in uno squarcio
sconfinato versi confusi, volti sfocati, memorie che uscivano impetuose,
precipitavano come un torrente magmatico in una forra senza fondo, fra lampi di
luce che nulla riuscivano a sottrarre al buio intenso che tutto avvolgeva. E
come la sua mente anche lui si sentiva cadere in un volo che sembrava non aver
fine, ma giù in fondo si cominciava a scorgere una luce, anzi più
d’una, una serie di bagliori gialli, verdi, blu, rossi, uno spettacolo
pirotecnico che l’attraeva e l’intimoriva.
Da quanto era in caduta?
Da poco o da tanto, da sempre era quel che gli pareva. D’una cosa sola era
certo, che il confine l’aveva superato.
I bagliori si riunirono
a formare la corolla di un fiore sconosciuto e come un ape se ne
sentiva attratto, desiderava raggiungerlo con tutte le poche forze che gli
restavano. Ecco, ormai era vicino, già riusciva a distinguere l’interno del
calice quando questo si aprì in un cielo azzurro sconfinato, in un mare di onde
invitanti, in un flusso continuo di suoni che gli parvero lontani vagiti.
Ombre, striature di nubi che evocavano immagini già conosciute, un sole immenso
senza calore, rivoli di pioggia che cadevano saltellando fra speroni di roccia
che scendevano da quel cielo, e una musica lontana, una strana armonia di voci
confuse, molte conosciute nel corso della vita, un concerto di strumenti a
fiato e a corde, note limpide come ora lo era anche la sua
anima, una visione di pace in un mondo in cui s’apprestava ad
entrare.
E quel che vedeva era
poesia, la sua ultima poesia, l’addio al mondo dei versi, scritta solo per lui,
unica, immensamente bella, che nessuno avrebbe mai letto, ma lui ora finalmente
sapeva cosa c’era oltre il confine.
Un imprevedibile sorriso
animò i suoi occhi prima che si chiudessero per sempre.
Bel racconto, Renzo, nel quale viene affrontato il momento più importante, forse, dell'intera vita, quella in cui si è proprio al confine tra il prima e il dopo, e cerchiamo spesso di immaginare quegli ultimi istanti. Istanti in cui la mente sembra ancora lucida e incomincia l'ultima riflessione, quella che porta verso il passato, prima, e che predispone poi verso un futuro che ignoriamo totalmente.
RispondiEliminaUn racconto pacato, lucido, bello da leggere e sul quale riflettere.
Grazie.
Piera
Mi unisco al precedente commento. Grazie Renzo
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