La
nebbia è solo grigia
di Corrado S. Magro
Un panorama che spaziava fino alle ultime creste delle
colline che si affacciano sul mare. Al di là, le acque del profondo Ionio,
accarezzate dai primi raggi solari sciabordavano contro le sabbie dorate delle
rive. A destra il declivio con il cielo limpido lasciava scorgere la fetta che nel blu taglia per sé l’Isola delle Correnti.
Sorvolava
mentalmente la costa incorniciata dai lidi che si susseguono. Immerso nello spazio, navigava con il giardino terrazzato, un angolo di Eden adornato di siepi,
gelsomini, e fiori da chi gli aveva dedicato una vita fino a quando avanti negli anni, a malincuore, decideva di separarsene.
Addii che si ripetono nel
quotidiano, pietre miliari del divenire, addii che nella notte serena, a intervalli regolari, analoghi a quelli
del verso del gufo che apre e richiude le palpebre, erano timidamente sfiorati dal lampeggio del faro di Capo
Passero.
Varcato il cancello scese dalla vettura.
Rimase un attimo a osservare, poi girò lo sguardo su di lei che restava
mansueta, le cinture allacciate, quasi
volesse continuare verso un’altra meta.
Era andato al suo incontro all’aeroporto e durante il tragitto gli aveva chiesto dove avrebbero trascorso le prossime settimane.
Inutile precisare luoghi e dintorni. Non ricordava, le erano estranei.
«Siamo arrivati. Puoi scendere,» lo guardò incredula, smarrita. «Ti piace?»
Non rispose. Poi dopo una lunga
pausa:
«È qui?… Dove mi porti?»
«Staremo bene. Vedrai. Ecco Maria e Paolo.»
I vecchi proprietari li attendevano contenti di vederli arrivare. Da una vita li univa una lunga amicizia mai soggetta a screzi.
Sorrise più per forma che per convinzione. Senza considerarli estranei,
faticò a porli nella giusta luce.
Chi, cosa era per lui quella bella signora che lo abbracciava, e chi l’altro? Perché si conoscevano?
L’aiutò discretamente introducendo nei
convenevoli nomi di parenti comuni che poteva ricordare. Arrivato da alcuni giorni aveva disfatto le valigie e preparato la stanza che li accoglieva. Forse avrebbe dovuto aspettare, facendola
partecipare. Era la domanda che si poneva ogni volta quando faceva qualcosa che riguardava anche lei.
Una domanda che sorgeva dai lunghi anni vissuti insieme
senza passione sì, ma nel pieno rispetto, il rispetto verso il prossimo,
consolidato dalla fragilità e incertezza del presente e del
futuro che l’attendeva.
Seduto
rilassato in una comoda poltrona in un ambiente quasi ovattato; pigro,
inoperoso, un angolo ancora tutto suo. Tosse e raffreddore lo tenevano in
ostaggio. Osservava il platano che, attraverso le lamelle ad angolo degli avvolgibili, si
rispecchiava nei vetri dell’armadio. Foglie e rami erano scossi dalla brezza.
Fra poco sarebbe rimasto nudo, il suolo coperto di giallo avvizzito. Era autunno.
Sarebbero rimasti alcuni fiori superstiti che dondolandosi al lungo peduncolo,
avrebbero resistito alle intemperie. Chi andava si proteggeva, l’aria divenuta
improvvisamente più rigida. Lui ripercorreva le settimane trascorse al sud. Nell’isola, il torrido la faceva da padrone.
Aveva
rinunciato a dividere il letto con lei. La notte aveva il respiro pesante e lei
ipersensibile ai rumori, era emigrata sul sofà di un vano adiacente. Quando se
ne rese conto prese il suo posto. Decise in futuro di passare là le cinque, sei
ore di sonno che si concedeva, nonostante fosse scomodo, tanto da attendere con
impazienza l’ondata di luce dell’alba. Bisognava schermare con tende e tendine
un sole pieno di forza. Ogni tanto nella penombra della notte la scorgeva in
giro. Vagava in cerca di qualcosa, toccava un mobile, sfiorava un angolo:
«Cosa cerchi?
Che ti serve?»
O non
rispondeva o diceva: “nulla”, e poco dopo se ne ritornava a
letto.
I vecchi
proprietari erano rimasti il tempo necessario per introdurlo, spiegargli i
circuiti d’irrigazione, mostrargli dove stavano attrezzi e suppellettili che
lasciavano in dotazione sul posto. Durante la loro breve presenza era Maria che
si adoperava a pulire, mettere ordine, cucinare. Partiti, il compito fu suo. Si
rese conto che non avrebbe avuto nessun contributo.
Non era
entusiasta ma si adattava senza grosse rimostranze di andare alla spiaggia
libera. Importante era il mare, la sabbia presente nei decenni che li avevano
visti trascorrere le vacanze negli stessi luoghi. Eppure una volta a chi le
chiedeva se si recasse al lido Desiré aveva risposto:
«Ricordi e
tempi ormai lontani,» quasi a dire “devo adattarmi a chi decide per me”. Ne fu
scosso, ma il posto sotto l’ombrellone con lettini e sdraio già pronti era
semplicemente un miraggio.
Al mare lei
sarebbe rimasta notte e giorno sulla spiaggia. In costume da bagno, longilinea,
un insieme di ossa, articolazioni e giunture pronunciate, scheletriche. Fumava tanto e nonostante ciò, raro un mal di testa o un
raffreddore, solo una tosse rauca.Spesso aggressiva nei suoi confronti, forse un’autodifesa, un sussulto del subcosciente.
«Sono le
undici e un quarto. Fra una buona mezz’ora ci avviamo, così potrò preparare per
mezzogiorno.»
«Posso andare
ancora una volta in acqua?»
«Non restarci
molto.»
Spense il
mozzicone nella sabbia e si avviò. Seduto sotto l’ombrellone la vedeva nello
specchio di mare antistante. Nell’attesa forse chiuse le palpebre o si
distrasse. Quando tornò ad osservare era sparita. Non si preoccupò. Non era
ancora il momento di andare. Mezz’ora dopo non spuntava. Si mise alla ricerca
lungo quasi un chilometro di battigia affollatissima. Era passata un’ora e
ancora nulla. Preoccupato si recò dagli addetti al salvataggio. I ragazzi
spinsero in mare il catamarano perlustrando le acque antistanti. Ritornarono
senz’alcun risultato. Con la sabbia che scottava sotto i piedi, il timore del peggio faceva capolino. Prima
ancora di prendere ulteriori decisioni, assieme ad altri che si prestarono a
dargli una mano, continuarono a cercare. Nulla. Quasi due ore dopo, trafelato,
lo raggiunse uno dei bagnini:
«L’abbiamo
trovata.»
«Dove?» fece
con un sospiro di sollievo.
«Più avanti.
Nell’altra direzione… ma lei si sente male? È pallido come la morte. Vuole un
sorso d’acqua?»
«Grazie, va.»
Quando la
raggiunse, lieto di vederla, non le fece alcuna osservazione. Le chiese solo
con un tono di voce il più normale che mascherava il suo stato d’animo:
«Dove sei
stata?»
«Non lo so,
perché?»
«Dai andiamo,»
e raccolse le suppellettili avviandosi.
A che sarebbe
servito farla partecipe di qualcosa che per lei non era mai stato? Forse era
andata al Desiré.
Il mattino
quando il sole iniziava ad accarezzare a Est le creste delle colline lui andava
nell’orto. Dissodava, vangava, irrigava e raccoglieva legumi buoni da cucinare.
Smetteva quando non era più in grado di arginare il sudore.
«Vieni a
vedere quante cose ci stanno. C’è anche della frutta.»
«No. Che
programma abbiamo oggi?»
Domanda
assillante, ossessiva, che ripetuta un numero imprecisato di volte accompagnava
ogni nuovo giorno.
«Nessun
programma. Viviamo la giornata.»
Non
l’accettava e ritornava alla carica:
«Più tardi
andremo al mare.»
«Ah!»
Pochi minuti e
la richiesta del “programma” si rifaceva viva provocando una reazione, una risposta
forse fuori misura che poi lo metteva a disagio. Cucinava, puliva, lavava, si
occupava di tutto, teneva i rapporti con parenti e conoscenti, preparava
l’arrivo dei familiari che presto li avrebbero raggiunti. Il proposito di darsi
alla lettura dei libri portati con sé, l’aveva dovuto accantonare. Cosa avrebbe
dovuto ancora programmare? Ma poteva fargliene una colpa?
«Vita di
merda! Voglio tornarmene a casa o andare a Farfaglia,» là dove i parenti di lui
avevano la masseria.
«Cambio il
biglietto aereo e ritorni.»
Non
rispondeva. Si rendeva ancora conto che sarebbe stata sola e non ce l’avrebbe
fatta. Una volta, mentre si apprestavamo a recarsi in macchina da chi li aveva invitati, dopo la sua ennesima invettiva contro la vita
che la obbligava a condurre, lui uscì dai gangheri:
«Vattene! E
subito!» le ordinò con voce alterata.
Non rispose
nemmeno ora. Chinò il capo, si richiuse in sé e lui si sentì male.
Alcuni mesi
prima, alla clinica, facevano il punto della situazione. Una neurologa pane,
burro e marmellata, alla sua suggestione di provare un metodo diverso di
allenamento cerebrale, non solo contrapponeva un netto rifiuto ma le
raccomandava di resistere, di non farsi mettere sotto pressione. Si pronunciava
così su qualcosa di assodato per i risultati ottenuti, solo perché non lo conosceva ed era un
“povero ignorante” a proporlo. Lei recepì stranamente bene il messaggio,
assumendo anche per il resto un comportamento di rifiuto assoluto, che già
in passato accettava di adattare sotto l’evidenza dei fatti. Solo lo sviluppo
della patologia: l’insicurezza, sarebbe stata in grado di renderla più
malleabile, condiscendente, forse perché incapace di una reazione.
Farfaglia era
il punto di riferimento e polo di attrazione, sebbene ai tempi privo delle
comodità del posto che ora li ospitava. Perché? Semplice. Nei suoi ricordi si
affollavano le immagini di decenni ormai lontani. I ragazzi ancora piccoli o
adolescenti, il fratello di lui gli metteva a disposizione un’ala tutta per
loro. Ricordi che anche lui guardava e riesumava con piacere, ma impossibile a
riviverli, condizioni ormai cambiate, posti occupati dalle nuove leve. C’erano
stalle e animali, e i cani che spesso di notte non smettevano di latrare
facendola brontolare: un passato bucolico in un ambiente che i figli durante le
vacanze assaporavano.
Fu costretto
ad accontentarla e due volte su tre, se non tutte le sere, sedevano alla tavola
che la nipote, lavorando dalla mattina alla sera sempre di corsa, occupandosi
dei genitori anziani e con uno stato di salute precaria, apparecchiava con arte
per i tanti commensali.
La ultra
ottantenne moglie del fratello affetta da demenza:
«Non si vedono
più mosche.»
«Beh ma queste
cosa sono?»
«Sì ma non
come negli anni passati.»
«Ah!» faceva
lui.
«Gli uccelli
sono spariti.»
«Non fa più
caldo come una volta,» eppure si crepava.
Sedute
accanto, le due donne rivangavano un trascorso rimesso a nuovo, travisato.
Spesso la nipote dava loro qualcosa da fare: pulire i legumi, preparare
un’insalata.
Occupate e
continuando a lagnarsi passavano il tempo, e lei per un po’ si sentiva
nuovamente in vacanza.
Abitavano il
villino da diverse settimane. Presto sarebbe arrivato uno dei figli con moglie
e suoceri.
«Da dove viene
nostro figlio»
A lui mancò
quasi la parola:
«… abita poco
distante da noi.»
Poi
guardandosi attorno, confusa:
«Ma dove
dormiranno? Non c’è posto. Ci tocca partire.»
«Ma no! La
casa è su due piani. Vieni su…» salirono la scaletta interna a chiocciola,
«…vedi ci sono due grandi stanze da letto, una l’abbiamo occupato per una
settimana. Guarda, sono più belle dell’angolo che giù ci ospita, anzi sono
lussuose, e godono di un piccolo soggiorno con una veranda stupenda.»
La confusione
che rasentava il panico si riaffacciava il giorno dopo o quando il discorso
cadeva sul figlio.
«Quando
veniamo dal mare, per favore prima di entrare sciacquiamoci e allontaniamo la
sabbia dai piedi.»
Non c’era
verso. Doveva impedirle d’impossessarsi delle chiavi di casa e anche allora:
«Posso
prendere dentro le pantofole prima di andare sotto il rubinetto?»
Qualcuno le
chiese se fosse andata nell’orto.
«L’orto? No.
Dov’è?»
Viveva nel
terrore di rimanere sola e rifiutava che lui avesse da fare qualcosa fuori dalle pareti dei vani
che abitavano, c’era il pericolo che non sarebbe più tornato. Lontano dalle sue
orecchie in un momento forse meno fosco confidava ad alcuni parenti:
«Speriamo che
possa morire prima di lui.»
A casa, al
mattino da poco fuori dal letto, spesso gli chiede con apprensione:
«Stai uscendo?
Dove stai per andare?»
Cerca nel calendario
murale dove annota appuntamenti e date:
«Che giorno è
oggi?»
«Che programma
abbiamo?»
Si allontana
verso la stanza dove sta il suo computer. Gli stessi giochi la occupano. La TV
accanto, che rifiutava di guardare perché non esisteva nel passato trascorso
nell’isola, sciorina immagini e notizie senza pausa. Lei ascolta, ma forse non
vi presta attenzione. Ogni tanto riempie qualche casella dei
cruciverba con i termini ripetitivi che ancora ricorda, fuma accompagnandosi con una tazza di caffè, si alza e domanda:
«Cosa devo
fare?»
Se non ha
nulla di convenevole sotto mano, allora lei va, lo sguardo vuoto, vaga in un mondo di figure fluttuanti, amorfe, avvolte dalla
nebbia di un tunnel senza sbocco. Alzheimer!
Un bel racconto basato molto anche sui dialoghi. Dialoghi spezzati, privi spesso di senso, ma capaci di mantenere in vita una sorta di comunicazione basata soprattutto sul "sentire". Davanti a una patologia di questo tipo ci si sente inadeguati, spaesati e sviliti, e sono sensazioni che in modo diverso, credo, possano appartenere al malato ma anche a chi lo assiste. Nonostante tutto c'è un legame forte tra i due protagonisti, lo dimostra la preoccupazione dell'uomo quando pensa che la moglie non tornerà più, e il sollievo, a dispetto di tutto, nel rivederla. Racconto doloroso, difficile, scritto volutamente senza enfasi. Dopo la lettura, rimane in bocca un sapore amaro.
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